Se non c’è lavoro per i giovani, l’Italia è finita

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Le parole del Capo dello Stato esprimono in maniera emblematica la drammaticità della situazione in cui si trova il nostro Paese. Quali le determinanti di questa situazione? Mario Draghi non ha dubbi al riguardo. Nel forum della BCE, tenutosi a Sintra nello scorso maggio, ha affermato: “In certi paesi i giovani sono i primi a essere licenziati. E ciò è colpa di una flessibilità elevatissima, introdotta negli anni passati che interessava soprattutto i nuovi ingressi nel mondo del lavoro. Così quando è arrivata la crisi i giovani hanno subito perso il posto. Certamente non aiuta la scarsa istruzione. Accade infatti che i paesi dove il tasso di disoccupazione giovanile è più elevato sono gli stessi paesi che si ritrovano più in basso nella classifica OCSE sulla qualità del sistema formativo.”

 

Con riferimento a questo specifico aspetto, Ignazio Visco nelle Considerazioni finali di questo anno ha sottolineato: “Il livello di istruzione e di competenze su cui può contare il sistema produttivo italiano è inadeguato. Nelle indagini OCSE l’Italia figura agli ultimi posti per le competenze funzionali di lettura e per quelle numeriche. Il divario con la media degli altri paesi è presente anche tra i più giovani ed è più alto al crescere del titolo di studio.”

 

Tutto chiaro, dunque? La situazione è in realtà molto complessa. A “bocce ferme” e nel breve termine (che è quello che conta per chi è alla ricerca di una occupazione), anche se aumentano le competenze i posti di lavoro continuano a mancare. Con altre parole, i giovani perdono per primi il lavoro e i nuovi posti di lavoro che vengono creati non sempre sono per i giovani.

 

In realtà nel nostro Paese il rapporto scuola, mercato del lavoro, mondo delle imprese è problematico. Ciò non sempre o soltanto per i ritardi della scuola e per le sue inadempienze. In non pochi casi la struttura qualitativa della domanda di lavoro espressa dalle imprese (e anche dalle amministrazioni pubbliche) corrisponde solo in parte all’accresciuto livello di scolarizzazione e di conoscenze. Non sempre, a “bocce ferme”, c’è correlazione tra grado di istruzione e mansioni offerte. Ciò non significa evidentemente che il livello di capacità acquisite dai nostri giovani sia soddisfacente (specie in raffronto alla situazione degli altri paesi europei). C’è quindi bisogno di nuove e migliori competenze ma c’è altrettanto bisogno di condizioni, politiche, strumenti adatti a metterle in pratica, a far sì che esse generino valore attraverso la creazione di nuovi beni, nuovi servizi, nuove imprese, nuovo sviluppo, nuovo lavoro.

 

E’ utile a questo punto richiamare la situazione occupazionale del nostro Paese e, all’interno di questa, la posizione dei giovani. I disoccupati in oggi sono oltre 3 milioni 300mila (10% in più rispetto a un anno fa) Di questi più della metà sono disoccupati di lunga durata. Il tasso di disoccupazione si aggira sul 13%, ma in realtà se conteggiassimo i cassaintegrati senza speranza di rientro sarebbe molto più alto. Si tenga inoltre presente che dietro i disoccupati ufficiali ci stanno altrettante persone che l’Istat definisce forza lavoro potenziale (lavoratori scoraggiati o immediatamente non disponibili). Il tasso di occupazione, in calo, non supera il 55% e risulta inferiore di 5 punti rispetto alla media europea e ancor di più se ci riferiamo a Francia e Germania. Aggiungiamo che, con riferimento a questi dati, le disparità territoriali sono notevolissime e crescenti: la situazione del Mezzogiorno è mediamente tre volte peggiore rispetto al Centronord. In due anni, secondo la Banca d’Italia, lo stipendio medio mensile è sceso da 1328 euro a 12210, correlativamente i consumi delle famiglie sono calati di oltre il 4%.

 

Nell’ambito del quadro sinteticamente delineato la posizione dei giovani è semplicemente drammatica. Pochi dati a commento di questa affermazione. Diciamo innanzitutto che in Italia i giovani sono troppo pochi rispetto a quello che sarebbe socialmente, economicamente, culturalmente necessario. La classe di età 15 -24 anni è il 10% della popolazione complessiva, la media europea supera il 12%. Con riferimento a questa classe di età il tasso di disoccupazione si aggira sul 42 – 43% (il doppio della Francia), si attesta sul 28%, ed è in forte crescita,se riferito ai giovani di età compresa tra 18 e 29 anni.

 

Da 2008 al 2013 gli occupati (15 – 34 anni di età) sono diminuiti di 1 milione 803 mila unità. Il loro tasso di occupazione era del 50%, oggi è sceso al 40%. In questo contesto la transizione dalla scuola-università al lavoro è critica. Nel 2013, nell’ambito della classe di età 20 – 34 anni, soltanto il 48,3% di coloro che hanno terminato gli studi al massimo da tre anni ha un lavoro (La media UE è del 75%). Di fronte a questo stato di cose ben si comprende la reazione di molti giovani. Dal recente rapporto dell’Istituto Toniolo emerge che il 50% dei giovani intervistati è pronto ad andare all’estero per migliorare la propria situazione. I più disponibili sono evidentemente i laureati e quando vanno all’estero non sfigurano affatto. Il Rapporto annuale dell’Istat fornisce al riguardo i dati effettivi: nel 2012 sono stati 26 mila i giovani (15 – 34 anni di età) che sono andati via dall’Italia (10mila in più rispetto al 2008). Facendo la somma degli ultimi cinque anni si arriva a 100 mila giovani che sono andati a cercare fortuna all’estero..

 

C’è qui una situazione abbastanza paradossale. Siamo in presenza di una generazione di giovani molto più istruita rispetto a 20 – 25 anni fa (anche se continua a restare sotto la media UE). Più istruita dei padri. Tuttavia questa generazione di giovani guadagna molto meno degli adulti (negli anni ’80 il differenziale era del 20%, oggi sé raddoppiato), svolge un lavoro precario, sovente dequalificato rispetto alla formazione ricevuta e alle aspettative maturate. Così stando le cose c’è una domanda che non può essere elusa. Per i giovani di oggi un lavoro di questo genere cosa significa? Che senso ha? Consente la costruzione di un progetto di vita? Nella migliore delle ipotesi è strumento per mettere in tasca qualcosa…

 

Le ricadute negative sono abbastanza evidenti. L’investimento nella formazione rischia di venire svalutato. Molte famiglie si chiedono a cosa serve studiare. Si è costretti a privilegiare lavori di corto respiro, magari interessanti nell’immediato ma senza prospettiva. All’opposto si moltiplicano all’infinito le esperienze formative, di master in master, di corso in corso, sperando nella buona occasione. Manca una strategia, un percorso affidabile, ma la colpa non è certo dei giovani.

 

Al riguardo la situazione dei NEET è emblematica. Il 25% dei giovani di età compresa tra 15 e 34 anni (3,7 milioni di unità) dichiara di non lavorare, di non studiare, di non fare tirocinio. L’incidenza sale al 46% per i giovani con un basso livello di istruzione. La nostra percentuale è di molto superiore alla media UE (17%), a quella della Francia (16%), della Germania (11%). Per non parlare di Austria, Olanda e Norvegia abbondantemente al disotto del 10%.

 

Con riferimento al nostro Paese va sottolineato che la situazione dei NEET ( una categoria non omogenea al suo interno) si lega certamente alla situazione di crisi in cui ci troviamo ma è prima di tutto un dato strutturale. Un dato strutturale che ci interpella fortemente, come per altro verso la dispersione scolastica. Siamo in presenza di giovani molti dei quali hanno disimparato a sognare e a credere che un futuro migliore è possibile. “Nei loro confronti la prima cosa da fare – scrive Michele Tiraboschi, allievo di Marco Biagi – è forse guardarli con occhi diversi non come un problema da risolvere ma come una opportunità per riattivare il nostro Paese dotandolo di quelle energie e di quella spinta ideale che solo i giovani hanno o possono avere se adeguatamente motivati e formati.”

 

Una politica per i giovani e con i giovani è la grande sfida che il paese ha di fronte. I giovani italiani devono avere le stesse condizioni e le stesse opportunità dei loro coetanei europei. Abbiamo parlato di NEET ma nel contempo dobbiamo anche parlare dei moltissimi giovani che – non ostante gli alti tassi di disoccupazione e il deterioramento dell’offerta di lavoro – non demordono, cercano di reagire come possono; si tratta di giovani che sarebbero pronti a spiccare il volo o meglio – si veda l’ultimo rapporto del Censis – a navigare nel nuovo mondo globale. I loro punti di forza non sono pochi. Sanno usare le tecnologie informatiche, hanno un’idea del mondo più attuale, non legata a preconcetti, sanno parlare le lingue e non si stupiscono della diversità, credono nel merito e anche nella solidarietà, una percentuale non minimale di loro è impegnata nell’associazionismo, nel volontariato, nella società civile.

 

Molti giovani dunque con molti punti di forza. Il guaio è che sovente questi giovani non hanno voce, non fanno sistema, non attivano masse critiche. Ci sono i fiori, manca il giardino. Mancano le condizioni, le opportunità: manca in definitiva una politica capace di saldare l’emergenza con la prospettiva, il pubblico e il privato, le istituzioni e la società civile. In questa prospettiva “garanzia giovani”, non ostante i suoi limiti oggettivi, può essere una occasione importante. Ciò nella misura in cui riesce a diventare leva, punto di innesco di processi finalizzati a rinnovare le politiche attive del lavoro, a stimolare la crescita. Alternanza, tirocini di qualità, apprendistato, auto imprenditorialità, ecc. non possono esaurirsi in loro stessi bensì diventare attivatori di una circolarità virtuosa tra scuola, processi di ricerca e formazione, territorio, sistemi produttivi. Lavoro, sviluppo, società richiedono di essere assunti in termini contestuali e grazie ai giovani che sono il primo, grande investimento da fare l’Italia potrà essere competitiva sulla scena del mondo non già perché costa di meno ma perché vale di più.

 

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In questo 2014 la nostra Rivista compie dieci anni. Nata nel 2004 con l’intento di offrire agli aziendalisti genovesi uno spazio di presenza e di dialogo, in breve tempo ha notevolmente ampliato il proprio orizzonte coinvolgendo sia docenti e ricercatori di altre sedi nazionali e internazionali sia imprenditori e manager privati e pubblici. Nel 2009 la Rivista è stata riorganizzata per rispondere ai criteri di accreditamento Aidea e la denominazione di Impresa Progetto è stata integrata con l’espressione Electronic Journal of Management. Nel corso del decennio la Rivista ha progressivamente acquisito una propria caratterizzazione che la contraddistingue nel panorama dell’aziendalismo italiano. IPEJM è una rivista generalista ma non generica, nel senso di un massimo di attenzione alla trasversalità dei problemi. Nella molteplicità degli argomenti affrontati abbiamo voluto far emergere una linea che declina la realtà multiforme dell’impresa nell’ottica del bene comune, del valore, della responsabilità, del mercato e dei suoi limiti. Una linea che non disconosce il ruolo del pubblico e del sociale, che intende coniugare economicità e solidarietà.

 

Di tutto questo avremo modo di parlare nel convegno per il decennale che organizzeremo nel dicembre di questo anno e che il Comitato di Direzione sta preparando con riferimento ai contenuti e all’articolazione dei lavori. Alla ripresa postferiale vi informeremo in maniera puntuale e dettagliata.

 

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Il nuovo numero di Impresa Progetto è, come di consueto, ricco e articolato. Nella sezione saggi lo studio condotto da Benedetto Cannatelli, Marco Minciulli, Brett Smith approfondisce i fattori che influiscono sulla creazione di conoscenza nell’ambito dell’imprenditoria sociale. Il modello proposto, che fa riferimento all’esperienza giapponese (da qui il termine “ba”), pone in evidenza il ruolo fondamentale assolto dal coinvolgimento di una molteplicità di stakeholder radicati nel sociale.

 

Il saggio di Lara Tarquinio e Adriana Rossi, muovendo da un campione di imprese appartenenti al settore FTSE Italia, si propone di verificare il contributo che il world wide web e i social media possono fornire al fine di migliorare le pratiche di rendicontazione socioambientale e di sostenibilità delle imprese e il rapporto di queste con gli stakeholder. I risultati dell’indagine evidenziano un modesto utilizzo delle potenzialità insite nella rete come strumento per facilitare il dialogo con gli stakeholder e per personalizzare i report socioambientali.

 

Sulla base di una analisi empirica delle realtà imprenditoriali piemontesi il lavoro di Giacomo Buchi, Monica Cugno, Guido Giovando si pone l’obiettivo di misurare, mediante l’impiego di appropriate metodologie statistiche, gli effetti delle condizioni demografiche sulla sopravvivenza delle cooperative sociali. Queste, non ostante la crisi, sono state in grado di ridurre il rischio di mortalità mostrando la validità di un modello imprenditoriale capace di coniugare, a livello locale, socialità e competitività.

 

Sempre con riferimento alla realtà piemontese, il saggio di Alessandro Manello, avvalendosi di un ampio campione di piccole e medie imprese comprensivo di un numero consistente di società partecipate da soggetti esteri, procede alla misurazione delle dinamiche di produttività e redditività. Le risultanze sono interessanti. Le affiliate di gruppi multinazionali – qualunque siano le modalità di ingresso nel mercato locale – mostrano un tasso di crescita della produttività maggiore, ma accompagnato da un livello di profittabilità più basso rispetto alle imprese a capitale interamente italiano.

 

Nella sezione working paper, il lavoro presentato da Silvia Fissi, Elena Gori, Alberto Romolini affronta la tematica dell’albergo diffuso, visto come una struttura di accoglienza che vende oltre ai tipici sevizi alberghieri uno specifico rapporto con il territorio in cui è insediato. Il paper ha il pregio di approfondire le problematiche manageriali attraverso un caso di studio. Gli indicatori di bilancio costituiscono l’oggetto del paper di Francesco Dainelli e Andrea Visconti. L’intento è quello di identificarne – fra i tanti utilizzabili – un gruppo maggiormente predittivo delle performance di base. L’obiettivo conoscitivo viene perseguito attraverso uno studio di value relevance su un campione di 75 società quotate seguite dal 2005 al 2011. La sezione working paper si chiude con la presentazione dei risultati di una recente ricerca condotta da Clara Benevolo sulle attuali tendenze in tema di internazionalizzazione del sistema economico ligure. Il caso studiato è interessante. A fronte di una crisi che in termini di pil e di occupazione non accenna a diminuire, la Liguria - a differenza di molte altre regioni italiane – riesce a migliorare tutti gli indicatori di apertura internazionale attraverso la diversificazione dei prodotti, delle destinazioni e degli investimenti diretti in uscita.

 

Siamo lieti di ospitare in questo numero di Impresa Progetto un contributo di Vittorio Coda, contributo breve ma ricco di suggestioni. Dalla crisi in cui ci troviamo può venire fuori un mondo nuovo. Ciò nella misura in cui l’indispensabile cambiamento economico e sociale è guidato dal bene comune, un bene comune che può essere costruito attraverso l’assunzione di responsabilità da parte di tutti, la ricerca della verità, la fiducia, il consenso. Le parole di Vittorio Coda si integrano e arricchiscono il senso del nostro Editoriale

 

Con piacere annunciamo infine l’ingresso nel Comitato Scientifico di Impresa Progetto dei colleghi Vittorio Coda, Mario Molteni e Marcantonio Ruisi.