“Smart”, cioè anche interessante e sicuro: così è il lavoro per le nuove generazioni

Editorials
On issue: 
Authors: 
DOI code: 
10.15167/1824-3576/IPEJM2024.2.1640

Ci sono due ragioni che spingono chi scrive a tornare, ancora una volta, a dedicare lo spazio dell’editoriale del nuovo numero del nostro Journal al tema del lavoro e a farlo con un focus specifico, interrogandosi su quale lavoro interessi alle giovani generazioni che entrano nel mondo produttivo.

 

La prima si colloca nel solco di una personale tradizione. È da ormai un decennio, infatti, che l’occasione di questo contributo è propizia per occuparsene, approfondendo in particolare quella dimensione del lavoro che è la flessibilità di spazio in tempi recenti variamente etichettata come smart working, piuttosto che remote o ibrido, a volte senza troppo badare alla necessaria cura per le differenze tra l’una e l’altra forma che costituisce tema (ma soprattutto sfida) consolidata da quasi cinquant’anni. Si tratta di una questione tanto trasversale ad ambiti e professioni, quanto non del tutto assimilata nei modelli organizzativi e gestionali delle organizzazioni, da renderla di continuo interesse, oggetto di analisi e dibattiti, la cui vivacità è seconda solo al grande tema che oggi domina prepotentemente la scena (quello della cd. intelligenza artificiale, su cui si tornerà in una prossima circostanza proprio per le connessioni e le ripercussioni che ha avuto, sta avendo e avrà sul lavoro, i suoi contenuti e le sue forme).

 

L’altro movente coglie spunto dalla diffusa (e saggia) idea che occorra dedicare un’attenzione specifica alle giovani generazioni in particolare, la tanto citata e ancora poco conosciuta generazione Z (ma si può mai davvero dire di conoscere una generazione?), quella che, da qualche anno e per un po’ (considerando che si considerano appartenenti a questa i nati più o meno nell’intervallo 1997-2012) – che rappresentano le nuove forze lavorative. Si tratta di generazioni che, oltre ad essere, dal punto di vista quantitativo, inadeguate alle necessità delle organizzazioni, sono ritenute  mostrare  attitudini verso  il  lavoro  diverse da  quelle  che  connotavano  le

generazioni precedenti. E questo cambiamento accade in un contesto di accelerazione dei mutamenti (quello tecnologico, in primis) che, influenzando stili di vita e modi pensare, rendono maggiormente complesso capire cosa sta accadendo e quali tendenze si vadano affermando.  In particolare, riferiscono gli addetti ai lavori, questi e queste giovani manifestano una particolare attenzione per la possibilità di fruire di giornate di lavoro “al di fuori dei perimetri aziendali” (lo si chiami smart, remote, agile o ibrido, poco importa loro) se non addirittura di una formula full. Si tratta di una richiesta, che viene indicata tra quelle maggiormente sottolineate (attese, pretese?) in sede di colloquio di selezione, talvolta (spesso) suscitando disorientamento negli interlocutori coinvolti in questo processo, abituati ad ascoltare altri tipi di istanze e sempre più rassegnati a doversi attrezzare per “riconoscerlo” (o “concederlo”), dovendo talvolta (forse spesso?) fare i conti con approcci e attitudini verso questa modalità di erogazione della prestazione lavorativa assai diversi nelle rispettive organizzazioni di appartenenza.

 

Da un lato, quindi, lo smart working (o remote, o agile, o ibrido che dir si voglia,) continua ad avere l’onore delle prime pagine della stampa (e dei social media) sia per le decisioni di rottura con questa pratica assunte con grande enfasi e risalto (al grido di “tutti di nuovo in presenza cinque giorni a settimana”, come ha proclamato Amazon per bocca del suo CEO Andy Jassy a metà settembre) che per i periodici ritorni di fiamma volti a spingere per un uso maggiormente intenso (ultima vicenda, solo in ordine di tempo, l’accordo firmato a Roma tra le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e una lunga lista di organizzazioni che raccolgono i datori di lavoro per aumentare le giornate di lavoro da remoto con l’obiettivo di ridurre l’impatto della mobilità lavorativa sul traffico particolarmente caotico per i lavori relativi alle opere in vista del Giubileo). Dall’altro, per qualcuno (i giovani soprattutto, pare) è oramai un elemento talmente ovvio da far sì che non si riesca ad immaginare un modo di lavorare che non lo ricomprenda. E questo, di fatto, costituisce un dato oramai acquisito.

 

In buona sostanza, in questo decennio lo scenario è profondamente cambiato e quella che appariva una timida novità – utile per quote marginali di lavoratori (quelli che sessant’anni fa Drucker aveva definito i “lavoratori della conoscenza”) – occupa ora spazi importanti nel dibattito sul lavoro, coinvolgendo sia i modelli organizzativi (che ancora si stanno aggiustando) sia le attese (e la collocazione di queste nell’immaginario di coloro che lavorano). Proviamo a ripercorrere alcuni passaggi per entrare nel vivo della questione ed evidenziare quello che pare ora accadere.

 

Dal primo editoriale dedicato allo smart working – quello del n. 3 del 2015 ne è passata di acqua sotto i ponti. Allora, lo smart working era la novità di cui alcuni istituti internazionali iniziavano a scrivere (formalizzando un diverso modello organizzativo che si stava sperimentando nelle organizzazioni) e che attirava l’interesse di studiosi e practitioners.  Sull’onda dell’entusiasmo, questi ultimi formulavano previsioni di un significativo sviluppo (mai nei fatti concretizzatosi) che questa modalità avrebbe avuto da lì a poco – in forza della crescente pervasività degli strumenti mobile e cloud e della digitalizzazione di un numero in costante incremento di applicazioni professionali che avrebbero reso possibile lavorare ovunque e comunque. Con maggior realismo, altri studiosi ragionavano sulle caratteristiche dello smart working e sulle condizioni per un suo efficace ed utile utilizzo, alla ricerca di quelle criticità che avrebbero potuto manifestarsi - come poi è accaduto, tanto che per alcuni anni la pratica è rimasta relegata a poche (sia pur rilevanti) aziende e, dentro a quelle, a numeri limitati di lavoratori coinvolti.

 

Se di acqua ne è passata, è passata soprattutto la pandemia da Covid-19 (che a lungo ricorderemo come lo spartiacque tra due mondi, tanto profondo è stato l’impatto che ha prodotto ad ogni livello) durante la quale lo smart working (o meglio, l’uso di questa etichetta) era diventato il modo normale di lavorare (in un contesto che di normale non aveva nulla e che men che meno era smart). Però, di fronte alla drammaticità della situazione, il ricorso alle regole del gioco di questo modo di lavorare ha consentito di lavorare, e non è stato poco. Allo stesso modo, però, ha favorito l’avvio di sperimentazioni che, in condizioni diverse, avrebbero visto la luce molto più lentamente e ha reso familiare, in modo ampio, un insieme di strumenti di facilitazione, avvicinarsi ai quali, in condizioni normali, avrebbe richiesto tempi decisamente più lunghi.

 E così, quando si è iniziato a pensare al “dopo”, ci si è resi conto che lo smart working non sarebbe stato accantonato per tornare tout court al modello organizzativo “del prima” (che sinteticamente si può definire quello del lavoro in presenza), perché era oramai entrato nell’orizzonte lavorativo di molte persone che ne avevano apprezzato i vantaggi e il cui pregiudizio positivo ha rafforzato le fila dei sostenitori. La riflessione verteva, quindi, su cosa e come   nel percorso verso il ritorno alla normalità (o meglio, l’ingresso in un new normal, dove l’aggettivo new rimarcava che la ‘normalità’ così (comprensibilmente) desiderata sarebbe comunque stata diversa da quella cui eravamo abituati fare per far sì che le potenzialità  di questo modo di lavorare (indubbiamente presenti, anche se non da tutti sperimentate) potessero tradursi in benefici effettivi, aiutando la maturazione di un modello organizzativo adeguato alle specificità di ogni singola organizzazione e dei suoi lavoratori.

 

In questa direzione, i nuovi assetti che le organizzazioni stavano provando a sperimentare combinavano giornate lavorative in presenza e giornate a distanza, ricorrendo all’etichetta “ibrido”, soluzione che pareva mediare i punti di forza e di debolezza delle due soluzioni estreme, solo remoto o solo in presenza. Di questa soluzione si sottolineava soprattutto la capacità di tenere insieme in maniera virtuosa gli obiettivi aziendali, che non erano solo quelli di incrementare la produttività (come da proposito dichiarato nel testo normativo in materia) ma anche di favorire le relazioni e lo scambio, di  consolidare  la  cultura (aspetti della cui rilevanza e, al tempo stesso, problematicità si è accresciuta la consapevolezza proprio nello smart working pandemico) e quelli dei lavoratori di conciliare meglio la propria vita ed il lavoro (la famosa work-life balance, divenuta oramai uno dei temi più ricorrenti nel dibattito).

 

Peraltro, già nel 2022 un’indagine condotta dal Centro Ricerche dell’Associazione Italiana Direzione del Personale su 850 direttori del personale evidenziava come il 90% delle aziende rispondenti considerasse questa modalità lavorativa definitivamente acquisita prevedendo a partire dal fatto che circa il 60% di dipendenti (soprattutto i neo-assunti) lo richiedesse e indicando nella maggioranza dei casi due giorni a settimana per il lavoro a distanza.

 

Se così non fosse, non si spiegherebbe il clamore (e le proteste) che le decisioni di cancellarlo provocano e non si spiegherebbe il perché esso sia oramai considerato una “ovvia” parte del pacchetto lavorativo, da parte dei e delle giovani (ma non solo), come gli addetti ai lavori raccontano a partire dalla loro esperienza, ma come inizia ad essere chiaro anche in maniera più strutturata attraverso la ricerca. Insomma, ancora una volta ci sono spunti per riflettere su una questione che, di tutta evidenza, ancora matura non è, nonostante se ne sia scritto molto, parlato ancora di più e pure sperimentato (anche oltre quello che molti avrebbero voluto, in pandemia soprattutto), apparentemente senza essere riusciti a mettere a fuoco bene le condizioni per cui lo si possa utilizzare al meglio (la logica per cui tutti vincono), soprattutto avendo ben chiarito di cosa si tratta.

 

E di cosa si tratta? Di un modello lavorativo “diverso”, rispetto al quale la domanda “quanti giorni in ufficio e quanti a casa?” rischia di assorbire molte (troppe) energie, distogliendole dal tentativo di approfondire quello che fa dell’aggettivo smart (la prima storica etichetta di ciò di cui si parla) la vera connotazione del modo di lavorare, e non riduca questa domanda alla “trattativa” sul numero di giorni da impiegare da una parte o dall’altra. E quindi potremmo chiederci, cosa significa smart nella prospettiva dei giovani? È questo che, a parere di chi scrive, va e andrà approfondito, non fosse altro perché il futuro è loro.

 

Non sono ancora molti gli studi che ci aiutano in questa direzione. Un recente articolo di Osorio e Madero (2024) ci ricorda innanzitutto che oggi la cd. genZ copre circa il 24% della popolazione lavorativa mondiale (e che saranno il 30% nel 2030), utile ricordarlo in contrapposizione al dato del nostro paese dove la percentuale li vede in calo. Ci ricorda anche che i più “agé” di questa generazione iniziano ad occupare posizioni organizzativamente rilevanti (supervisor, middle manager) avendo quindi una crescente influenza nei luoghi di lavoro, influenza che è destinata ad ampliarsi. La loro esperienza lavorativa si connota per un minor senso di fedeltà professionale classicamente  inteso, dovuto proprio alla diffusione dei cosiddetti remote work arrangements (ricordiamo che per loro si usa l’espressione digital innates che è qualcosa di più e di più complesso dei nativi digitali, espressione usata per qualificare i millennials), che da un lato riducono i costi associati al cambio di lavoro facilitandolo e dall’altro favoriscono una maggiore selettività nella definizione delle proprie priorità e di ciò per cui vale la pena impegnarsi, perché interiorizzano una flessibilità che asseconda le esigenze e le preferenze individuali.

In particolare, la ricerca empirica di cui i due autori rendono conto (sviluppata su un campione di 1271 studenti in un’Università americana impegnati in tutte le aree, ad esclusione di quelle medico-sanitarie) evidenzia un forte orientamento alla ricerca del benessere personale, su cui le caratteristiche dell’ambiente di lavoro hanno un rilevante influsso. In questa prospettiva il lavoro ibrido offre un contributo fortemente positivo, soprattutto perché è percepito essere una via più aderente al modo con il quale gli appartenenti a questa generazione si concepiscono (innatamente digitali, non in grado – non per limite ma per oggettiva inesperienza – di concepire un mondo diverso). Il punto sembra quindi essere non tanto il numero dei giorni in cui non si va in ufficio, ma la natura del lavoro che incorpora la mediazione tecnologica per definizione e che quindi non richiede un radicamento fisico, non capito e non ricercato. O meglio, capito e ricercato a quel livello da costituire il collante utile a lavorare poi bene in modalità smart con colleghi e collaboratori un lavoro che deve restare qualitativamente interessante.

 

Se questo è quanto emerge da un contesto culturale ed economico diverso, un contributo ulteriore nella direzione di meglio capire cosa pensino del lavoro le giovani generazioni del nostro paese arriva da un’altra recentissima ricerca da poco presentata. Condotta del Centro di Ricerca OPERA del Dipartimento di Comunicazione e Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia in collaborazione con GATEREI, società leader nella progettazione di spazi collaborativi, l’indagine si focalizza sulle aspettative e i desiderata degli studenti iscritti all’ultimo anno dei corsi di laurea di area sociale e si basa su un significativo campione che copre 27 Atenei italiani. Focalizzando subito l’attenzione su ciò che ci interessa in questa sede, i dati evidenziano che, nella graduatoria sugli aspetti ritenuti più rilevanti nel valutare un’opportunità di lavoro, la possibilità di lavorare in smart working si colloca all’ottavo posto con un modesto 4,5%, appena sopra alla reputazione dell’azienda e ai programmi di welfare. Al vertice della classifica si trovano fattori quali “sviluppo professionale e carriera” (26,5%); al secondo posto piuttosto distanziato dal primo “retribuzioni e incentivi economici” (18,7%) e, con ulteriore significativo distacco, al terzo posto si colloca la “sicurezza del posto di lavoro” (13,7%). La ricerca ci dice anche il lavoro deve essere vario, sfidante, creativo, ma anche occasione di apprendimento e pure di buon bilanciamento tra vita privata e lavoro.

A prima vista sembra tutto così tremendamente ovvio. Ma forse dentro l’ovvietà c’è una confortante attenzione, da parte dei giovani che si avviano alla maturità esistenziale e lavorativa, per quello che può davvero rassicurare nella prospettiva di una vita  di lavoro,  concreta quanto basta (carriera, retribuzione, sicurezza) ma anche desiderosa di sviluppo professionale, vogliosa di non perderla nella routine e nella ripetitività (opzioni contrapposte alle caratteristiche prescelte sopra indicate).

Non è vero allora che lo smart working è così importante per le giovani generazioni? Secondo lo studio di Talent Trend For Europe 2023 condotto da ACCA, l’Association of Chartered Certified Accountants, millennials e generazione Z lo considerano importante. Lo conferma pure un altro studio pubblicato sulla MIT Sloan Management Review (o, meglio, raccontato, visto che la forma narrativa è quella), che fornisce suggerimenti su come gestirlo. Cosa c’è che non quadra? Difficile fornire risposte solide, ma qualche spunto forse sì.

 

Per i digital innates e i digital natives, lo smart working classicamente inteso, come modo di lavorare che usa degli strumenti digitali e che poi diventi ibrido perché alterna presenza fisica a quella virtuale poco rileva appare come modalità scontata. Oggi Herzberg lo inserirebbe forse (ma forse senza forse) tra i fattori igienici e non tra quelli motivanti, come forse in troppi continuano a classificarlo. Se è così, significa che è uno di quei fattori la cui presenza non produce soddisfazione, ma semplicemente riduce l’insoddisfazione, notoriamente troppo poco per dire che le cose vanno bene. Le attese delle new entries nel mercato del lavoro sono, come sempre, volte ai veri fattori motivanti: che il lavoro sia interessante, bello, appassionante e che, ovviamente, consenta di vivere (cioè guadagnare in modo stabile).  Per questo il tema della progettazione del lavoro resta assolutamente centrale: perché questo è un problema di contenuto del lavoro, ma anche di variabili organizzative (in particolare l’attitudine personale, il grado di engagement, le relazioni inter-organizzative e gli stili di leadership).  Solo ribadendo l’indispensabile cura di tutto quello che comporta andare nella direzione di sviluppare forme ibride ha senso ipotizzare che il lavoro funzioni (e che sia ibrido diventa un dettaglio poco rilevante).

Che invece sia smart è condizione sempre più essenziale, benché non nuova. Perché in fondo un lavoro “intelligente”, cioè che usi di tutte le risorse che la persona può mettere in campo, ripropone la vecchia questione del perché vale la pena, del valore del contributo che ciascuno può dare. Che ce lo ricordiamo o meno, che siamo genZ o meno, questo riguarda tutti.

 

§§§

 

Questo numero di Impresa Progetto presenta, nella Sezione dedicata ai “Saggi” referati, cinque lavori che svariano su di una pluralità di temi di notevole attualità e rilevanza.

In particolare:

  • Federico Fontana (Le performance dei principali comuni italiani. Un’analisi critica nella prospettiva del valore pubblico) affronta il tema dell’integrazione del valore pubblico nei documenti di programmazione degli enti locali. L’analisi empirica, condotta sui comuni capoluogo di regione, si focalizza sulle performance prese in considerazione nei relativi sistemi di pianificazione, controllo e valutazione e sul conseguente orientamento al valore pubblico. Ne sono discussi i punti di forza e di debolezza ed i possibili interventi migliorativi.
  • Ahya Javidan, Marco Smacchia, Michele Cipriano e Stefano Za (A Bibliometric Analysis of Artificial Intelligence and Decision-Making) propongono una analisi bibliometrica della letteratura in tema di Intelligenza Artificiale e cambiamento organizzativo, con specifico riferimento ai processi decisionali. Vengono segnalati i temi ed i concetti chiave, individuando sanità, HR management, educazione e formazione come ambiti applicativi particolarmente interessati alle innovazioni.
  • Domenico Napolitano e Luca Marino (Accessibilità e cultura. Il contributo della ricerca artistica agli studi organizzativi), attingendo ad esperienze in campo artistico e culturale, richiamano l’accessibilità come questione legata non solo alla “disabilità”, da gestire attraverso specifiche pratiche e strumentazioni, ma più ampiamente attinente alla “diversità”, implicando la riconsiderazione degli spazi organizzativi e sociali e la rimozione di barriere fisiche, psicologiche e sociali.
  • Martina Mori studia la qualità dei processi di leader-member exchange come determinante delle relazioni tra job satisfaction, comportamenti di cittadinanza organizzativa e “virtù civiche (The impact of Leader-Member exchange on the job satisfaction and civic virtue relationship: insights from Italian service SMEs). L’esame è condotto sulla base di una accurata analisi di dati raccolti presso PMI italiane operanti nel settore dei servizi, pervenendo a risultati utili sia ad una miglior comprensione teorica che ad un miglior governo delle relazioni di lavoro.
  • Applicando il concetto di energy hub, Abdel Ganir Njikatoufon, Fabio Spinelli e Giovanni Satta verificano opportunità e sfide emergenti per i porti italiani sul piano della sostenibilità ambientale, economica e finanziaria (Port as renewable energy hubs: Insights from the Italian case). L‘analisi è stata condotta utilizzando un apposito schema concettuale e gli elementi costitutivi di una esperienza di successo sono stati valutati dal punto di vista dei principali stakeholder portuali.

 

La Sezione dei “Contributi” ospita tre interventi con cui prosegue, tra richiami storici, riferimenti dottrinali e prospettive evolutive, il dibattito intorno al Manifesto “L’impresa che vogliamo”:

  • Gianluca Gionfriddo, Valentina Cucino, Martina Tafuro e Andrea Piccaluga (Purpose, Persone e Impatto: per una Innovazione Rigenerativa) forniscono un quadro ampio ed esauriente delle attività di ricerca, formazione e terza missione da tempo avviate dal gruppo Regenerative Innovation della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Queste attività legano il superamento del paradigma della massimizzazione del profitto ad una innovazione generativa capace di integrare l’adozione di un purpose pro-sociale, la valorizzazione delle persone e la generazione di impatti positivi.
  • Antonio D’Alessio, Leonardo Laterza e Martina Tafuro (Superare la tensione tra profitto e scopo: un Framework Integrato tra Economia Aziendale, Economia Civile e Dottrina Sociale della Chiesa) individuano nel profitto “ragionevole”, nel bene comune, nella cooperazione e relazionalità le caratteristiche che contraddistinguono il ruolo dell’impresa nella visione rispettivamente dell’Economia Aziendale, della Dottrina Sociale della Chiesa e dell’Economia Civile. Gli Autori osservano come si tratti di approcci integrabili in un modello di impresa in cui profitto e scopo risultino bilanciati a vantaggio del bene comune.
  • Silvia Bruzzi (Il ruolo dell’impresa per lo sviluppo socio-economico nel modello liberale italiano: quali prospettive per l’attuale fase storica) ripercorre alcuni momenti fondamentali dello sviluppo industriale richiamando il ruolo del capitalismo e dell’impresa, dello Stato e del mercato, così come si sono intrecciati nell’ esperienza storica del nostro Paese. Il frame che aveva permesso la fioritura delle nostre imprese nella fase del “miracolo economico” è venuto meno e, tra alterne dinamiche della globalizzazione e limiti dei processi di integrazione a livello europeo, esse rischiano di essere risucchiate in una prospettiva di declino. Si tratta quindi secondo Bruzzi di ripensare in modo originale e innovativo non solo l’impresa ma anche il frame nel quale essa opera, attingendo ad un patrimonio di pensiero e di azione maturato nel nostro paese non senza caratteri di originalità.

 

In questa stessa Sezione troviamo poi un contributo di Chiara Cantù (Marketing Innovation: un approccio olistico e trasformativo alla luce della Twin Transition) in cui l’innovazione di marketing viene presa in considerazione alla luce della doppia transizione: digitale e green. Secondo Cantù la twin transition determina in tema di marketing non solo importanti opportunità innovative, ma anche significativi cambiamenti nell’approccio strategico, che deve essere olistico, orientarsi al mercato ed agli stakeholder e qualificarsi in termini di imprenditorialità.

 

Completano questo numero:

  • la Sezione dedicata all’”Ospite”, che presenta una intervista di Pier Maria Ferrando a Camilla Buttà, Sustainability, Diversity, Inclusion and Communication Manager di Vector SpA, Società Benefit. Buttà racconta il caso di Vector: un’esperienza di “innovazione rigenerativa” che ha portato a fare “buona impresa” coniugando approccio manageriale, visione dell’azienda come comunità di persone, attivazione di strumenti gestionali e promozione di iniziative volte alla salvaguardia del territorio ed all’interazione col tessuto sociale;
  • la Sezione dedicata alle “Recensioni e Riflessioni”, in cui Isabella Bonacci e Danila Scarozza propongono la lettura di Narrative in Crisis: Reflections from the Limits of Storytelling (Oxford University Press, 2024) di Martin Dege e Irene Strasser: una rivisitazione critica, utile anche agli aziendalisti, dell’uso dello storytelling come strumento per descrivere la realtà;
  • la Sezione dedicata a “Segnalazioni ed Aggiornamenti”, in cui Francesca Serravalle e Pier Maria Ferrando suggeriscono paper e libri in tema di rapporto uomo-macchina nella customer care e di nuovi paradigmi di impresa.

 

 

Bibliografia

Bloom, N., Han, R., & Liang, J. (2022). How hybrid working from home works out (No. w30292). National Bureau of Economic Research.

Choudhury, P., Khanna, T., Makridis, C. A., & Schirmann, K. (2024). Is hybrid work the best of both worlds? Evidence from a field experiment. Review of Economics and Statistics, 1-24.

Choudhury, P., Khanna, T., Makridis, C. A., & Schirmann, K. (2022). “Is hybrid work the best of both worlds? Evidence from a field experiment”. Harvard mimeo.

Dowling, B., Goldstein, D., Park, M., & Price, H. (2022). Hybrid work: Making it fit with your diversity, equity, and inclusion strategy. The McKinsey Quarterly, April 20.

Gratton, L. (2022). Redesigning Work: How to Transform Your Organization and Make Hybrid Work for Everyone. MIT Press, Cambridge, Massachusetts.

Harari, T. T. E., Sela, Y., & Bareket-Bojmel, L. (2023). Gen Z during the COVID-19 crisis: A comparative analysis of the differences between Gen Z and Gen X in resilience, values and attitudes. Current Psychology42(28), 24223-24232.

Imber, A. (2022). 4 problems: You might be ignoring when it comes to hybrid work. Training & Development49(1), 46-48.

Knight, C., Olaru, D., Lee, J.A., & Parker, S.K. (2022). The loneliness of the hybrid worker. MIT Sloan Management Review63(4), 10-12.

Lund, S., Madgavkar, A., Manyika, J., Smit, S., Ellingrud, K., Meaney, M., & Robinson, O. (2021, February 18). The future of work after COVID-19. McKinsey Global Institute. https://www.mckinsey.com/featuredinsights/future-of-work/the-future-of-w...–19.

Osorio, M. L., & Madero, S. (2024). Explaining Gen Z's desire for hybrid work in corporate, family, and entrepreneurial settings. Business Horizons, in press.

Ro, C. (2020). Companies are looking to the post-Covid future. For many, the vision is a model that combines remote work and office time. BBC Worklife. , August 31, https://www.bbc.com/worklife/article/20200824-whythe-future-of-work-migh....

Vyas, L. (2022). “New normal” at work in a post-COVID world: work–life balance and labor markets. Policy and Society, 41(1), 155-167.