La rendicontazione sociale/di sostenibilità: terminologia e sostanza

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10.15167/1824-3576/IPEJM2024.1.1608

Introduzione

Veramente sorprendente è stata la grande diffusione che hanno avuto negli ultimi decenni i bilanci sociali/di sostenibilità, in connessione con la diffusione della Corporate Social Responsibility[1] (da ora in poi CSR).

Questo sviluppo, inaspettato nella sua diffusione da chi scrive e se ne occupa dagli anni Ottanta del secolo scorso, ha sempre dovuto però premunirsi da un uso non univoco, talvolta poco chiaro e/o distorto, dei suoi termini fondamentali; anche rischiando di ridurre tutto ad un mero adempimento burocratico, la cui utilità sarebbe assai limitata, e diventando potenziale strumento di manipolazione dell’informativa aziendale.

Un problema, tutt’altro che secondario come potrebbe apparire a prima vista, è infatti quello della “terminologia”, che implica soprattutto il rischio di confusioni e fraintendimenti che possono diffondersi anche nella pratica.

Un contributo ad eliminare alcuni usi distorti del definirsi “socialmente responsabili e sostenibili” viene specificamente da come è proposta la rendicontazione sociale/di sostenibilità a tutto il pubblico interessato, riferito in letteratura usualmente agli stakeholder coinvolti nell’attività dell’azienda (Rusconi, 1988).

Questi utili strumenti di rendicontazione hanno peraltro presentato, sin dagli anni Settanta del secolo scorso, una grande differenza di terminologie e proposte, talora dovute a differenze nella visione della CSR/sostenibilità e in altri casi a semplici confusioni terminologiche.

È pertanto importante contribuire alla chiarezza terminologica di una rendicontazione che si presenta, più o meno esplicitamente, come finalizzata all’accountability verso tutti gli interessati.   

Questa criticità del rapporto fra terminologia e sostanza nella rendicontazione sociale/di sostenibilità è, del resto, rintracciabile sin dalla sua prima, relativa e limitata, diffusione negli anni Settanta e Ottanta (per approfondimenti storici vedi: Matthew, 1997; Rusconi, 1988; Schreuder, 1979) continuando anche dopo la grande diffusione di standard, studi e applicazioni dalla seconda metà degli anni Novanta.

Questo importante sviluppo dei bilanci sociali/di sostenibilità ha infatti spesso presentato la caratteristica di essere molto “pluralistico” (più che plurale), contribuendo ad accentuare i rischi di confusione, aggiungendosi alla pluridimensionalità di questo tipo di documenti, che utilizzano: dati contabili, statistiche, valutazioni non di mercato, osservazioni e dichiarazioni qualitative, ecc.

 

Responsabilità dell’impresa o dell’imprenditore?

Prima di affrontare direttamente il tema della terminologia, occorre comunque prestare un poco di attenzione a cosa si intende per CSR.

All’inizio i primissimi precursori si riferivano all’imprenditore o al manager (Bowen, 1953), in sostanza rinviando la responsabilità alle scelte e doveri di una singola persona; poi il discorso si è allargato e soffermato non tanto sulla persona, quanto sul complesso aziendale, cioè l’impresa o, più in generale, l’azienda.

Parlare però di responsabilità di un istituto comporta una serie di problemi:

1) si può pensare filosoficamente ad un’istituzione come un soggetto morale o bisogna riferirsi solo alle singole coscienze personali?

2) sul piano giuridico si ha il problema del rapporto tra legge ed etica, visto che il mondo moderno rifiuta un’identificazione assoluta tra etica e legge; 

3) se poi ci si riferisce al campo penale, vi è il principio base che fissa in modo chiaro che la responsabilità penale è sempre delle singole persone. 

Per evitare attribuzioni ingiustificate di responsabilità o, al contrario, degli “scaricabarile”, forse conviene partire dalla definizione del cosiddetto “Green Paper” della Commissione Europea del 2001, evidenziando poi cosa è cambiato in questi oltre vent’anni nell’Unione Europea:

“La maggior parte delle definizioni della responsabilità sociale delle imprese descrivono questo concetto come l’integrazione volontaria [grassetto dello scrivente] delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate” (versione in italiano, p.7).

In questo modo si delimita con chiarezza che la CSR è una scelta volontaria, cioè “oltre la legge e la regolamentazione” e che ci si riferisce non ad una persona, ma ad un’unità organizzativa in senso operativo, cioè si rimanda ad una responsabilità specifica di un’entità che può essere vista come un’istituzione sistemica complessa (concordando quindi in modo indiretto con la tradizionale visione tedesca e italiana della “Betribswirthshatslehre” e dell’”Economia aziendale”) e non solamente ad un “artifact”, che rappresenta un insieme di contratti individuali, seguendo alcune diffuse visioni sorte nel mondo anglosassone.

Non va dimenticato del resto che:

a) il concetto di responsabilità sociale è stato interpretato in vario modo: dalla visione strumentale al profitto sostenibile, al ruolo di cittadinanza o politico delle imprese, fino a quella del dovere etico (vedi la bella mappatura di Garriga e Melé, 2003);

b) in alcuni casi rispettare la legge può già avere un significato etico forte (basti pensare a contesti degradati o corrotti in cui potrebbe operare un’azienda);

c) l’”asticella legislativa” è differente in vari Paesi (si pensi al diritto UE ed extraUe), per cui in vari casi ciò che è responsabilità volontaria sociale in alcuni contesti è dovere legale in altri.

Il concetto di responsabilità sociale è quindi definibile solo in prima approssimazione partendo dal cosiddetto “Green Paper” dell’Unione Europea del 2001, occorre infatti inevitabilmente anche riferirsi sia alle visioni etico-sociali ed al loro rapporto con le singole legislazioni e contesti, sia a quali risultati si intende raggiungere applicando la CSR nel “core business” aziendale.

In questo quadro appare quindi assai importante la “misurazione”, cioè, rendicontare su ciò che si è attuato: ciò, infatti, può fornire una base di chiarezza e trasparenza, al di là delle diverse motivazioni per cui la CSR viene attuata.

A monte della “misurazione”, stanno peraltro problemi terminologico-concettuali molto importanti, tra i quali, in primo luogo, vi è quello del termine “sociale”, ora molto spesso sostituito con “sostenibile”.

 

Cosa si intende con “sociale”: azioni e programmi sociali o responsabilità della gestione in quanto tale nel suo core business?

Un quesito fondamentale sorge prima di tutto in relazione a cosa si intende per “responsabilità sociale”: la CSR riguarda solo la promozione di utili, lodevoli iniziative e programmi sociali (visione che si potrebbe definire “residuale”[2]) o va a fare parte del core business dell’impresa[3], che non “fa” opere sociali, ma “è” sociale intrinsecamente[4], anche quando resta impresa che agisce sul mercato e consegue un profitto?

Tutto ciò comporta questioni interpretative sul termine “social”, con la confusione aggravata dal fatto che in inglese “social” è assai spesso inteso in senso riduttivo, rispetto a “societal”. Solo quest’ultimo riguarderebbe la società civile, la comunità, includendo quindi anche gli aspetti ambientali (nel senso più ampio del termine) ed economici (non riconducibili al solo bilancio d’esercizio, ma anche alle cosiddette “esternalità economiche”).

La riduzione del significato di “responsabilità sociale” a programmi sociali non è chiaramente solo un semplice equivoco linguistico, ma ha comportato molte confusioni:

a) l’identificazione della responsabilità come un insieme di spese sociali, magari da porre in atto quando vi è un profitto più che sostenibile, suscitando la famosa critica di Friedman (1970), secondo cui i manager, dipendenti degli azionisti proprietari, sosterrebbero in questi casi costi che riducono i profitti dei loro “datori di lavoro” (riducendo altresì le risorse per aumenti salariali);

b) la visione riduttiva della responsabilità socio-ambientale si espone più facilmente al rischio di varie forme di uso strumentale, potendosi mescolare, sia impropriamente con la pubblicità ed il marketing, sia con il greenwashing (che non è solo ambientale), sia con la vera e propria manipolazione dell’informazione.

 

Responsabilità sociale e sostenibilità: cosa cambia?

Se si considera, diversamente dalla visione “riduttiva”, l’ambito della responsabilità verso la società civile nel suo insieme, ciò comprende non solo il “sociale” in senso stretto, ma anche gli aspetti economici e quelli ambientali, comportando spesso una stretta interdipendenza fra questi momenti della gestione, ancor più se si guarda al lungo periodo.

Anche in considerazione di quanto considerato in precedenza, si ribadisce che è essenziale che nascano strumenti adeguati per “misurare” la CSR: sin dagli anni settanta ne vengono proposti di diversi, che si potrebbero in generale chiamare bilanci o report sociali: dal “social audit” di Bauer e Fenn (1972, 1973) o di Medawar (1976, 1978), a vari tipi di bilanci ambientali, bilanci sociali (vedi come un primo esempio, rivolto in particolare alle spese volontarie, Linowes, 1973), bilanci socio-ambientali, fino al bilancio “social-financial” (vedi Epstein et al., 1976 sulla società Abt di Boston). Su questa diffusione di documenti vedi: De Santis e Ventrella (1981), Matthew (1997) e Rusconi (1988, 2013, 2019, 2021).

In particolare, sorge una certa quantità di documenti del genere in Germania negli anni Settanta, anche sul piano applicativo (vedi in Schreuder, 1979) – includendo la diffusione di importanti linee guida o quasi standard, come quelli del gruppo di imprese Praxis (1978)[5] o del sindacato unitario tedesco Deutsche Gewerkschaftsbund (DGB) nel 1979[6].

In tutto questo nascono diversità e incertezze terminologiche, che possono confondere studiosi e operatori, si pensi anche:

a) alla legge francese sul “bilan social” del 1977, che si limita a dati e informazioni sul personale nelle grandi imprese, collegandosi ad un filone, ora non diffuso, che identificava il bilancio sociale con il bilancio sul personale o comunque come qualcosa che ha a che fare con il “sociale” in senso riduttivo[7];

b) al fatto che, con il passare degli anni, viene abbandonato l’uso del termine “social audit”, che, utile nell’inizio pionieristico degli anni Settanta, genera confusione tra rendicontazione e auditing.

Dalla fine degli anni Novanta si ha poi una forte ripresa della CSR e della sua rendicontazione, che si traduce nella diffusione di standard, linee guida e tentativi di applicazioni pratiche.

Nel 1987 viene in particolare diffuso dalle Nazioni Unite il rapporto Brundtland (UNWCED, 1987), che definisce con precisione il concetto di sviluppo sostenibile come quello che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.

La CSR viene allora durante gli anni Novanta gradualmente inserita e interpretata con il concetto di sostenibilità, evidenziando la cosiddetta Triple Bottom Line (da ora in poi TBL), puntando al raggiungimento di una piena sostenibilità ambientale, sociale ed economica: nasce quindi nel 1997 (fondata da un’ organizzazione non governativa statunitense che si occupava di rapporto fra economia e ambiente), e si diffonde, il Global Reporting Initiative (d’ora in poi GRI), standard che si propone come guida alla rendicontazione TBL[8].

I contenuti della rendicontazione sociale come definita nei lavori menzionati in precedenza sono comunque per lo più i medesimi di quelli dei bilanci di sostenibilità.

 

La diffusione degli standard/linee guida e lo sviluppo negli ultimi decenni: nuova pluralità di terminologia e recenti iniziative e direttive dell’Unione Europea

Riguardo alle varie forme di rendicontazione sull’insieme dei tre aspetti economico, sociale e ambientale, l’importanza della terminologia si nota in particolare esaminando proposte, linee guida  e standard che sono stati via via proposti, tra cui si ricorda in particolare: Gruppo di Studio per il Bilancio Sociale (da ora in poi GBS, che di recente ha cambiato titolo), GRI, Integrated Reporting (da ora in poi IR) e indici Environment Social Governance (da ora in poi indici ESG), riguardanti questi ultimi valutazioni complessive su ambiente, socialità e governance, che in prima istanza servono per informare gli investitori, ma che in ogni caso possono fornire informazioni utili, anche se non esaustive, a tutti gli stakeholder interessati.

Sorge a questo punto, ancora come alle origini, l’esigenza di avere chiarezza su vari punti ritenuti fondamentali, evitando di utilizzare definizioni inadeguate o fuorvianti[9]:

1) rischi di equivoca e fuorviante contrapposizione fra bilancio sociale e bilancio di sostenibilità;

2) rapporto non chiarito con il bilancio d’esercizio;

3) come definire la sostenibilità economica;

4) il rapporto tra indici ESG e TBL;

5) la relazione fra i tre aspetti della sostenibilità.

Riguardo al primo punto, i contenuti potenziali della documentazione di bilancio sociale e di sostenibilità sono gli stessi, occorre pertanto evitare:

a) di pubblicare documenti chiamati “bilancio sociale” nella visione riduttiva, in cui si trascurino gli aspetti ambientale ed economico, che pure sono essenziali per la rendicontazione al pubblico interessato;

b) di fare riferimento predominante all’aspetto ambientale nei bilanci che sono definiti come di sostenibilità.

Questi due rischi si spera che possano essere definitivamente superati, almeno nel contesto dell’Unione Europea (da ora in poi UE), con l’applicazione graduale nel tempo della direttiva CSRD del 2022

Per quanto riguarda il rapporto con il bilancio d’esercizio, sembra chiaro che, quando si parla di integrazione fra i documenti, si può intendere al massimo che vengono pubblicati insieme, magari inserendo il bilancio sociale/di sostenibilità nella relazione sulla gestione o nelle, come sono indicate in alcuni contesti internazionali, “note al bilancio”.

Appare invece del tutto fuorviante pensare di “espandere” il bilancio d’esercizio fino ad avere un unico bilancio social-finanziario, in particolare sarebbe fonte di confusione utilizzare impropriamente l’IR come un documento che possa in qualche modo includere in esso anche le valutazioni del “financial statement” (nota integrativa inclusa). Le motivazioni sono chiare:

a) il bilancio d’esercizio rappresenta un’insostituibile valutazione del risultato aziendale dal punto di vista degli scambi di mercato e dei loro riflessi sulla sostenibilità economica dell’azienda;

b) in questo contesto il bilancio d’esercizio è doverosamente sottoposto a principi contabili specifici, tra cui figura il principio di prudenza nelle valutazioni incerte su costi e ricavi presunti.

Quanto osservato non implica comunque una conflittualità tra i due documenti, anzi il bilancio d’esercizio è uno strumento fondamentale per osservare la sostenibilità economica dell’impresa e anche la distribuzione del valore aggiunto prodotto tra alcuni suoi fondamentali stakeholder (azionisti, dipendenti e finanziatori).

Nell’ambito della sostenibilità economica, sicuramente un bilancio d’esercizio che “sta in piedi” è condizione necessaria, anche se non sufficiente, ai fini della trasparenza dei bilanci sociali/di sostenibilità. La sostenibilità economica dovrebbe anche riferirsi all’indotto ed alle economie e diseconomie esterne, cioè a quei costi e ricavi per la collettività quando non sono riflessi direttamente nello scambio di mercato.

Come quarto punto è assai importante attualmente considerare, data la diffusione degli indicatori ESG, il rapporto fra la definizione e il ruolo degli indici ESG e i bilanci sociali/di sostenibilità.

Gli ESG predispongono delle valutazioni e rating, per cui in particolare gli investitori interessati all’aspetto etico possono: sia valutare il grado di responsabilità delle imprese in cui intendono investire le loro risorse finanziarie, sia considerare i legami fra questi indici e la redditività finanziaria.

Gli ESG, tenendo però adeguatamente conto delle differenze di valutazione fra gli enti che li diffondono, possono essere utili anche dal punto di vista di chi gestisce le imprese per elaborare politiche di sostenibilità economico-finanziaria, in quanto utili a prevenire rischi ambientali, sociali e di governance.

Gli ESG, dunque, non sono un documento di rendicontazione e non vanno confusi con i bilanci sociali/di sostenibilità, anche se questi ultimi sono essenziali per la predisposizione, da parte delle varie agenzie, di questi indicatori ESG.

Un limite degli ESG è che, se sono presi isolatamente, non possono fornire un quadro completo della sostenibilità aziendale, perché non considerano l’aspetto economico, sia sul piano produttivo che distributivo, né direttamente (tramite il bilancio d’esercizio) né indirettamente (tramite, per esempio, il valore aggiunto lordo prodotto e distribuito (Signori et al. 2021)).

Rispetto ai bilanci di sostenibilità, gli ESG hanno comunque anche la caratteristica di considerare a fondo una variabile essenziale della gestione quale è la Governance e di conseguenza di evidenziare, direttamente e/o indirettamente, la necessità di informare bene su di essa nei rendiconti sociali/di sostenibilità: un’organizzazione con una governance inadeguata come struttura e persone difficilmente potrebbe infatti soddisfare una sostenibilità TBL.

Riguardo al quinto punto, parlare in modo un po' semplicistico di bilanci di sostenibilità al posto di bilanci sociali potrebbe, oltre a quanto osservato in precedenza, indurre a pensare a “compartimenti stagni”, con il rischio di far dimenticare i rapporti e le sinergie che possono sussistere fra economico, ambientale e sociale.

Dopo queste considerazioni, sono degni di nota i fondamentali recenti interventi dell’UE, fino all’avvio della legislazione anche su obblighi e contenuti di rendicontazione. Ci si riferisce in particolare alla Not Financial Reporting Directive (NFRD 2014) ed alla sua revisione e miglioramento con la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD 2022). Quest’ultima, presentando un dettagliato quadro normativo, collegato ad un preciso standard predisposto dall’organismo regolatorio dei bilanci in UE, dovrebbe nei prossimi anni contribuire parecchio a chiarire i dubbi ed evitare confusioni terminologiche. 

 

Conclusione

In conclusione, si può affermare che il grande sviluppo della rendicontazione sociale/di sostenibilità, di cui chi scrive ha potuto essere con piacere testimone, porta e potrà portare beneficio a tutte le tre componenti della sostenibilità aziendale. Il raggiungimento di questo risultato è tuttavia esposto a rischi già evidenziati alle origini (uso per pubbliche relazioni, greenwashing, adeguamento passivo ad una “moda”, ecc.). Vedi in proposito, per esempio, Rusconi (1988) e Owen et al. (2000): un atteggiamento corretto nella presentazione e spiegazione dei documenti (oltre alla loro applicazione pratica) richiede pertanto un uso preciso e univoco dei termini e dei concetti.

Gli standard più diffusi e controllati e, soprattutto, una legislazione come quella UE possono fornire un grande contributo in questa direzione. 

 

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Questo numero di Impresa Progetto presenta, congiuntamente a Sviluppo e Organizzazione, i due Manifesti Illuminare le organizzazioni e L’impresa che vogliamo (quest’ultimo già anticipato dal n.3/2023 della Rivista). Per la presentazione e la discussione dei due Manifesti sono stati inoltre programmati alcuni eventi pubblici: alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa il 29 maggio 2024, alla Università Statale di Milano il 19 giugno 2024 ed alla LIUCC di Castellanza il 24 settembre 2024.

I due Manifesti sollecitano una riflessione sul ruolo delle Organizzazioni e delle Imprese nella trasformazione dei sistemi economici e sociali, sull’esigenza di restituire senso alla loro progettualità, sulla loro natura di comunità capaci di concorrere ad uno sviluppo sostenibile ed inclusivo nella ricerca del bene comune. Essi sono introdotti da un documento di Pier Maria Ferrando e Gianfranco Rebora: Due Manifesti per una riflessione congiunta sulle Organizzazioni e sulle Imprese, che ne richiama gli snodi e le finalità scientifiche e culturali comuni motivando così la decisione di farne soggetto di presentazioni e discussioni congiunte.

Seguono quattro interventi che approfondiscono i temi dei due Manifesti:

  • Marco Frey (Illuminare e governare l’impresa che vogliamo) richiama i principi alla base di un’ impresa protagonista di un’economia trasformativa, capace di favorire la “reintegrazione tra dimensione sociale e dimensione economica” in un modello di sviluppo orientato al bene comune: la responsabilità rispetto alle transizioni ambientale, sociale ed economica, la centralità delle relazioni nell’ambito di una governance trasformativa, il purpose come missione aziendale declinata in chiave di sostenibilità, la trasparenza nelle relazioni con gli stakeholder, la leadership e la partnership in chiave trasformativa;
  • Mario Minoja e Silvana Signori (La funzione civile dell’aziendalista) sottolineano come la funzione civile sia connaturata all’Economia aziendale, che si sviluppa nel solco della tradizione della Scuola italiana che ha sempre riconosciuto il ruolo sociale dell’impresa, e si soffermano su come gli aziendalisti possono valorizzare tale funzione diffondendo il proprio patrimonio di idee e di conoscenze;
  • Tonino Pencarelli (Dal capitalismo degli azionisti al capitalismo degli stakeholder: l’esigenza di una leadership umanistica per una transizione efficace) osserva come il superamento dello shareholder capitalism comporti l’esigenza di nuove prospettive culturali e valoriali. Occorre quindi innovare l'approccio alla leadership adottando una visione antropocentrica secondo le logiche del management umanistico.
  • Luigi Maria Sicca e Teresina Torre (A margine del Manifesto “L’impresa che vogliamo. Una nuova impresa in una nuova economia” – On the Sidelines of the Manifesto “The Enterprise We Want. A New Enterprise in a New Economy”) si interrogano con un contributo in italiano e in inglese sul senso del parlare di una impresa che vogliamo. “Abbiamo – come accademici – la legittimazione per suggerire al mondo delle imprese come vorremmo che fossero? …possiamo ipotizzare che le nostre categorie siano scevre da desideri e immaginari, i nostri, in nome di un presunto principio di neutralità nel decostruire e decodificare l’organizzare?” “Suggerire di approfondire queste domande, da un lato [ri]apre la centenaria questione (…) sulla natura positiva o normativa delle discipline economico-aziendali; dall’altro, problematizza il rischio di sponsorizzare una sorta di gerarchia tra “chi pensa” e “chi fa” impresa (…)”. E così via… Questioni non banali, se ci si propone di “ripensare l’aziendalismo”.

Altri approfondimenti sono previsti sul prossimo numero di Impresa Progetto.

 

Nella Sezione dei Saggi referati questo numero ospita alcuni lavori legati ai temi della sostenibilità, dell’employee engagement e della digitalizzazione:

  • Ilenia Ceglia (Integrazione dei temi di sostenibilità dell’Agenda 2030 nelle strategie aziendali: Literature Review e Content Analysis con NVivo) analizza la letteratura per verificare come le attività di ricerca abbiano registrato le strategie delle imprese nel misurarsi con gli SDGs della Agenda 2030 dell’ONU. Si segnalano le aree tematiche prese in esame ma si analizza anche come queste tematiche vengono affrontate dalle imprese (in quali i settori, con quali strategie, con quali risultati). Emergono così non solo i gap esistenti in letteratura ma anche i “vuoti” nelle strategie attualmente poste in essere dalle imprese;
  • Alice Canavesi e Eliana Minelli (The Critical Role of Organizational Leaders in Fostering Employee Engagement in the Time of Pandemic) affrontano il tema, particolarmente rilevante nei contesti sempre più frequenti di tipo VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity), delle competenze richieste ai leader per gestire efficacemente situazioni di crisi. Sono prese in esame sia le competenze richieste ai leader (intelligenza emozionale, sociale e cognitiva) sia le reazioni dei follower;
  • Roberto Albano e Ylenia Curzi (Digitalizzazione del lavoro e cambiamenti del controllo manageriale) delineano l’evoluzione delle relazioni tra digitalizzazione del lavoro e controllo manageriale a partire dagli anni ’90, discutendone anche le prospettive future. Una particolare attenzione è dedicata agli effetti della digitalizzazione nell’attenuare le differenze tra lavoro manuale e intellettuale, e tra lavoro industriale e nei servizi. L’evoluzione del controllo manageriale sembra riflettere una continua dialettica tra autonomia e controllo, al di fuori di relazioni di tipo deterministico.

Per la Sezione Recensioni e Riflessioni, Terry Torre presenta Nulla impresa per huom si tenta invano, di Maria Laura Frigotto e Luigi Maria Sicca (Editoriale Scientifica, Napoli, 2023). Il titolo è mutuato dal terzo atto dell’Orfeo di Monteverdi. Il libro parla dell’opera lirica, esaminata nella prospettiva organizzativa utilizzando come chiavi di lettura il cambiamento, la resistenza e la resilienza, con il tema della resilienza che rinvia a quelli dell’identità, della stabilità e del cambiamento. Ce n’è abbastanza per interessare i cultori del teatro musicale ai temi organizzativi e quelli delle scienze organizzative all’opera lirica.

L’Ospite di questo numero è Claudia Parzani, Presidente di Borsa Italiana e Vicepresidente de “Il Sole 24 Ore”. Nell’intervista di Giorgia Moretti (Oltre il soffitto di cristallo) vengono ripercorsi i momenti principali della sua carriera mettendoli in relazione con la prospettiva della parità di genere.

Infine, per la Sezione Segnalazioni e Aggiornamenti, Francesca Serravalle propone due paper dedicati agli effetti delle nuove tecnologie sullo shopping e Pier Maria Ferrando indica due libri dedicati alle “buone imprese “del quarto e quinto capitalismo.

 

Bibliografia

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[1] Si usa questo termine inglese che ormai è divenuto patrimonio comune della letteratura internazionale.

[2] In una tesi di laurea specialistica seguita di recente da chi scrive, si parla della CSR in India, dove una legge obbliga le imprese con determinate caratteristiche a devolvere una parte dei loro profitti in iniziative di rilievo sociale e per il territorio. L’iniziativa, se attuata correttamente, implica delle conseguenze sociali che possono essere piuttosto rilevanti, soprattutto per un paese emergente BRIC che, malgrado una notevole crescita economica, presenta ancora forti squilibri economici e sacche di povertà. Ridurre la CSR solo a questo implica però attuarne una visione “residuale” rispetto alla gestione nel suo complesso ed al suo “core business”, rischiando di lasciare spazio a vari rischi di equivoci e abusi, oltre che a trascurare le interazioni, spesso anche economicamente favorevoli, tra responsabilità sociale e gestione in generale.

[3] Nelle sue proposte sullo stakeholder management, Freeman, temendo un’impostazione riduttiva delle responsabilità d’impresa e volendo sottolineare la sinergia tra business ed etica, preferisca parlare di responsabilità verso gli stakeholder.

[4] Vedi in proposito Coda (1985, 1989).

[5] Interessante osservare che in Germania in quel periodo si parla di “Sozial-bilanz” (vedi Praxis, 1978) e di “Gesellschafsbezogene Unternehmensrechnung” (Eichhorn 1974), termine quest’ultimo che sarebbe traducibile in italiano con responsabilità sociale d’impresa, intendendo il “sociale” non nel senso riduttivo.

[6] Citato in Rusconi (1988), ivi ripreso da Hemmer (1981).

[7] Senza dimenticare definizioni del bilancio sociale che si trovano sul web e in documenti vari, che, a parere di chi scrive, confondono le idee:

a) bilancio sociale come certificazione etica;

b) bilancio sociale rivolto agli stakeholder sociali e bilancio di sostenibilità triple bottom line;

c) bilancio di sostenibilità che informa gli stakeholder e dichiarazione non finanziaria dell’UE, che è volta a raccogliere finanziamenti.

[8] Sulla diffusione e valutazione delle applicazioni del GRI non ci si sofferma in questo editoriale, rinviando alla diffusa letteratura esistente in proposito in libri e riviste internazionali e nazionali.

[9] Sul punto si veda l’interessante contributo di Turzo et al. (2022). Gli autori hanno riscontrato che sono stati utilizzati termini diversi per definire documenti contenenti informazioni molto simili ovvero lo stesso termine per identificare rapporti aventi contenuti divergenti, il che ha portato ad una proliferazione di nomenclature, risultando in un alto rischio di misinterpretazione, tanto in ambito accademico quanto in ambito professionale.