L'Europa in stand by

Editorials
On issue: 
Authors: 

1. Per molti l'Europa va bene così com'è. Un'Europa che oscilla tra il ricordo ormai rituale dei grandi obiettivi formulati a Lisbona nel 2000, obiettivi invero conseguiti in misura molto modesta, e la piatta quotidianità dei piccoli interessi di bottega. La moneta unica, la Banca Centrale Europea tengono uniti i vagoni di un treno che non sa bene dove andare. Fitoussi parla di "bateau ivre" ovvero di una nave senza rotta e protezione.
E' esemplare al riguardo la situazione di impasse in cui versano due grandi progetti europei: il progetto Galileo e il progetto Airbus. Il primo riguarda la realizzazione di un sistema satellitare di avanguardia. Ottime intenzioni ma pessima realizzazione. Rivalità, conflitti di interesse tra i partners bloccano da oltre due anni ogni decisione in seno al consorzio europeo. Con la conseguenza che aumenta la nostra sudditanza nei confronti del sistema americano GPS nel mentre stanno entrando in campo i cinesi. Molto probabilmente si troveranno i fondi necessari per far ripartire il progetto, tuttavia il rischio di arrivare troppo tardi non va sottovalutato. Per quanto riguarda il secondo, il consorzio industriale EADS, che in pochi decenni era riuscito a scalzare la supremazia dell'americana Boeing, è oggi in crisi con pesanti tagli occupazionali e cospicue perdite finanziarie Forse c'è un parallelismo tra l’Unione a 27 incapace di darsi un'efficace governance politico-istituzionale e la scommessa dei quattro Paesi promotori di Airbus (Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna) caduti nella trappola dei nazionalismi, delle rivalità che scoppiano nel consiglio di amministrazione del consorzio. La coesistenza difficile tra Francia e Germania a Tolosa è la stessa che si manifesta a Bruxelles quando si parla di energia, di liberalizzazioni, di costituzione, ecc. Ha scritto qualche tempo fa il direttore di Le Monde: "Il ciascuno per sé sostituisce lo spirito comunitario che aveva permesso il progresso dell’Europa".

2. Con riferimenti agli ultimi venti anni l'Europa si caratterizza per alcune significative storie di successo: - il completamento del mercato interno con le sue quattro libertà di circolazione (persone, merci, capitali, servizi); - l'unione monetaria e la moneta unica Euro; - i progressivi allargamenti dell'Unione sino a raggiungere, con Romania e Bulgaria, quota 27 Paesi. Tre grandi storie di successo ma anche molte contraddizioni, molti nodi non risolti dai quali non si può prescindere se si vuole procedere verso l'unione economica e l'unione politica dell'Europa. Diciamo qualcosa con riferimento a questi nodi e contraddizioni. Ruolo dell'economia in rapporto alla politica. L'economia da sempre ha scandito i tempi dell'unificazione. Ciò è un punto di forza ma anche di debolezza. Un punto di forza. Il mercato unico è stato fattore di grande prosperità e ha fatto dell'Europa una delle zone più avanzate del mondo. L'unione monetaria, a sua volta, si è rivelata garanzia di stabilità. Un punto di debolezza. L'Europa non è soltanto un mercato nel quale ci si può muovere liberamente e comodamente. Anzi il mercato ridotto a ideologia finisce per diventare un paravento per la "non politica". Rapporto tra sovranità nazionali e sovranità dell'Unione. La realizzazione di una federazione di cittadini e di stati non è dietro l'angolo. Gli stati nazionali sono una realtà dalla quale non si può prescindere sia per costruire l'unione economica e politica sia per non costruirla ovvero per bloccarla. In questa ottica il principio di sussidiarietà può rivelarsi un comodo alibi. Sussidiarietà per avvicinare l'Europa ai cittadini? Oppure sussidiarietà per depotenziare i processi di integrazione salvaguardando interessi e prerogative particolari? Rapporto tra approfondimento e allargamento dell'Unione. L'aumento del numero degli stati membri rende quanto mai attuale la questione. Fatto uguale a 100 il reddito medio procapite dell'Unione, la banda di oscillazione va da 130 a 40. Impostare discorsi in termini di riequilibrio e di solidarietà non è indubbiamente facile. Cito ancora il direttore di Le Monde laddove si interroga se "l'allargamento è ancora compatibile con un progetto integratore che non sembra più capace di creare un sentimento di appartenenza". Così stando le cose credo che una Europa a due velocità ovvero meccanismi di "cooperazione rafforzata" tra i padri fondatori costituiscano un passaggio obbligato se non si vuole restare impantanati. L'Europa e la competizione globale. Per Gordon Brown, succeduto a Tony Blair, il mercato europeo non può più essere l'orizzonte delle grandi imprese del continente, confrontate ormai con il mercato mondiale. Per Jacques Delors solo una grande impresa europea può essere globale. Condivido pienamente questa seconda impostazione. Occorre pertanto saper coniugare una nuova politica industriale europea con l'esistenza e lo sviluppo di grandi campioni continentali. 3. La questione dianzi richiamata è di grande attualità. Ricordo al riguardo il dibattito di inizio estate sul caso di Telecom e sulle diverse cordate che l'avrebbero potuta acquisire (cordate europee, americane, messicane). Orbene sostenere, come taluno in allora faceva, che tutte le proprietà sono uguali e che occorre lasciare agire il mercato con la sua mano invisibile è una grande ipocrisia. Numerosi studi pongono in evidenza il ruolo cruciale della proprietà per indirizzare le strategie delle imprese e gestire le ricadute di tali strategie sui diversi ambiti territoriali. Del pari, come sottolineano Gianni Cozzi e Antonio Gozzi (Economia e politica industriale n. 4/2006), occorre essere consapevoli di cosa è oggi il mercato globale. La competizione dell'Europa industriale avviene con due sistemi – quello statunitense e quello asiatico (sino indiano) – segnati da una forte presenza dello stato, seppure con connotati diversi nei due sistemi, e anche del ricorso a misure protezionistiche pur di difendere l'industria nazionale. Il presidente della Fed, Bernanke, ha di recente dichiarato: "E' nostro compito sostenere e difendere l'industria e i lavoratori per effetto della troppo rapida apertura al commercio internazionale di settori fino a oggi protetti". Così stando le cose, non può destare eccessiva meraviglia l'intendimento del governo tedesco di adottare opportune misure per impedire che le nuove potenze economiche con i loro fondi sovrani possano impadronirsi di aziende rilevanti per la tecnologia e la sicurezza nazionale. Certamente sarebbe meglio che discorsi siffatti, anziché a livello di singolo paese (Germania e Francia), fossero impostati e gestiti a livello comunitario. Ma qui l'Europa si trova in una evidente situazione di impasse. Viviamo in contesti che si caratterizzano per le interazioni tra economia di mercato e regolazione pubblica. Perché l'Europa ha paura di evocare il ruolo di una incisiva "statualità comunitaria" e quindi della politica? Una politica che prenda atto che in una costruzione federale gli equilibri tra i vari paesi e le varie economie non si costruiscono con astratti riferimenti al mercato ma con una faticosa negoziazione di ruoli, perseguendo l'obiettivo di "giochi cooperativi" all'interno dell'Unione per meglio reggere i "giochi competitivi" all'esterno dell'Unione. In quest'ottica i connotati di una nuova politica industriale, mi rifaccio a Dario Velo (L'Europa dei progetti, Milano, 2007), dovrebbero essere i seguenti: - Riportare al centro delle dinamiche decisionali la prospettiva di medio-lungo termine. Oggi prevale la finanziarizzazione di breve periodo; - Impostare su basi nuove il rapporto tra pubblico e privato proponendosi l'obiettivo di dar vita a una imprenditorialità europea; - Perseguire l'interesse generale (il bene comune europeo) nel rispetto e nella valorizzazione delle regole di mercato senza però confondere il fine con il mezzo; - Approntare adeguate "masse critiche" a livello di risorse finanziarie, infrastrutturali e sopratutto umane e intellettuali nei settori strategici per lo sviluppo (si pensi soltanto all'energia). A questo proposito, poche settimane fa, Carlo De Benedetti parlando agli studenti del prestigioso Penboke College di Cambridge ha affermato che l'Europa "smarrita di fronte al cambiamento che trasforma il mondo" può difendere la sua centralità solo in un modo: puntando sulla conoscenza, sulla ricerca, sulle università che "devono tornare a essere come avveniva alle loro origini medioevali, una rete del sapere senza barriere tra stati". 4. Tiro le somme dei ragionamenti fin qui condotti. All'Europa manca la visione di ciò che deve essere nel mondo. Manca cioè la comprensione del ruolo strategico che potrebbe essere giocato e della sua stessa dinamica. La zona dell'Euro, seconda potenza economica del mondo, continua a dubitare di se stessa a un punto tale da precludersi l'uso dei suoi potenti strumenti di gestione macroeconomica. Strumenti di gestione macroeconomica che potrebbero consentire all'Europa una politica moderatamente espansiva anche in termini occupazionali rivisitando Keynes nell'era della qualità, della conoscenza, del post fordismo. Strumenti che potrebbero fare dell'Europa un soggetto di governo dei mercati e dei processi di globalizzazione in un'ottica non soltanto economica. La questione di fondo è dunque la seguente. L'Europa può essere soggetto di governo della globalizzazione in grado anche di attivare meccanismi di "contaminazione" democratica? Può legare qualità e quantità del suo sviluppo a una globalizzazione più equa e solidale? La risposta sarà affermativa nella misura in cui si riuscirà a superare il bloccaggio di una Europa che ha limitato le sovranità nazionali ma non può ancora contare su una convinta, consapevole, robusta sovranità comunitaria capace di guardare al mondo intero. L'Europa cosa può dunque fare per gli altri? Il futuro dell’Unione Europea dipende e dipenderà sempre più dal futuro di quelle realtà umane, sociali, economiche che oggi si trovano al di fuori dell'Unione, ma dalle quali essa è drammaticamente interpellata. La grande scommessa è quella di un'Europa dialogante che ha qualcosa da dire e da proporre agli altri. Affinché affermazioni del genere non restino nell'ambito delle mere esortazioni occorre individuare alcuni momenti di verifica, alcuni passaggi nei quali l'Europa possa dimostrare la propria credibilità e capacità di governance democratica e solidale dei processi di globalizzazione. Ne indico sinteticamente alcuni. Primo passaggio. Lo scandalo della politica agricola comune. La Pac costa alle famiglie europee oltre 100 miliardi di euro. Uno spreco insostenibile che mette fuori gioco gli agricoltori dei Paesi più poveri che non possono competere contro prezzi artificiosamente bassi. Secondo passaggio. Il persistere, nei fatti, di barriere all'importazione dai Paesi poveri. I Paesi più poveri del mondo devono poter esportare verso l'U.E. qualsiasi genere di merce, senza condizioni, eccetto armi e droga. Il principio della reciprocità, ovvero l’obbligo per i paesi ACP (Africa, Carabi, Pacifico) di aprire i loro mercati ai prodotti europei onde continuare a esportare, rappresenta una trappola molto pericolosa. Terzo passaggio. Il problema delle delocalizzazioni. L'Europa deve incentivare le proprie imprese a non delocalizzare o deve piuttosto incentivarle a una delocalizzazione diversa, orientata a una crescita sostenibile? Quarto passaggio. La proposta da parte dell'Europa di un modello originale di cooperazione allo sviluppo o meglio di un modello cooperativo di sviluppo, coerente con i suoi valori e la sua cultura. Un modello che attraverso un rapporto dialogico aiuti le soggettività locali (sociali, economiche, istituzionali) a essere protagoniste della loro crescita. Ripeto: l'Europa cosa può fare per gli altri? Occorre investire in consapevolezza globale e in responsabilità collettiva. Responsabilità e progettualità dei molteplici soggetti e istituzioni europee, che a vario titolo, possono dare il loro contributo. Pochi flash al riguardo. Le grandi imprese europee. Si parla di "corporate social responsibility", si parla di legittimazione sociale. I paesi poveri, i paesi in via di sviluppo devono essere assunti come stakeholders della grande impresa. I sindacati europei. All'interno delle grandi imprese hanno acquisito diritti di consultazione e di partecipazione. Potrebbero usare tali opportunità per ottenere da parte delle filiali delle multinazionali europee operanti nei Paesi in via di sviluppo comportamenti coerenti con i diritti fondamentali delle persone e delle comunità coinvolte, rapportandosi e collaborando con le organizzazioni locali dei lavoratori, favorendone la nascita e la crescita. La società civile europea (nelle sue varie articolazioni, associazioni, movimenti, ecc.). Si pensi soltanto alle grandi opportunità del consumo critico in sinergia con lo sviluppo del commercio equo e solidale. Un'osservazione conclusiva. L'estensione della democrazia e della partecipazione verso ambiti sociali ed economici è oggi costretta a fare i conti con l'irriducibile discriminante rappresentata dalla dicotomia tra integrati ed esclusi, insita nei vari ambiti. Non si farebbe molta strada se il progetto democratico considerasse soltanto il "dentro" e ignorasse il "fuori". Riflettere sulla democrazia e sulla partecipazione nell'impresa comporta la necessità di prendere in carico la "non impresa", dei senza lavoro. Riflettere sull'Europa come spazio di governance democratica, comporta l'obbligo di aprire questo spazio sulla "non Europa", sul sud del mondo, sul sottosviluppo così come si esprime attraverso i flussi migratori. E' lì che si gioca la nostra credibilità. Ha scritto Stiglitz, premio Nobel dell’economia (La Repubblica 12 aprile 2007): "Oggi, soltanto l'Europa può parlare in termini credibili di diritti umani universali. Per il bene di tutti noi, l'Europa deve continuare a farsi sentire, a parlare a favore dei diritti umani, se possibile con ancora maggiore intensità che in passato. Un altro mondo è possibile, sì, ma spetta all'Europa assumere il comando e mostrare come renderlo possibile". * * * Questo nuovo numero di Impresa Progetto affronta, come di consueto, un ventaglio ampio di argomenti di cui vengono colti sia aspetti teorici sia aspetti applicativi aprendo nel contempo interessanti prospettive di sviluppo futuro. Il tema della responsabilità sociale d'impresa continua a caratterizzare la nostra rivista. Dopo il saggio di Gianfranco Rusconi, proponiamo ora le riflessioni di un altro profondo conoscitore della materia, Mario Molteni. L'approccio del suo intervento potrebbe essere definito dinamico-evolutivo. L'integrazione della Corporate Social Responsibility nella strategia aziendale non è data una volta per tutte. Occorre ragionare nell'ottica del processo, articolato in fasi, nell'ambito delle quali la CSR progressivamente si specifica e si qualifica in termini di incidenza sulla struttura d'impresa fino a diventare l'elemento fondativo della sua identità. Anche le questioni europee rappresentano per noi un argomento guida. Il saggio di Salvatorangelo Loddo sviluppa una problematica di grande attualità: quella relativa alla definizione del ruolo ottimale della Banca Centrale Europea all'interno del progetto di costruzione dell'unità economica europea. Tale ruolo va definito sulla base dei diversi compiti potenzialmente attribuibili alla stessa: vigilanza, politica monetaria, sostegno del sistema creditizio. Alla luce dell'analisi di esperienze estere significative (Giappone e USA in primis), l'Autore riconosce l’utilità della separazione tra funzioni di politica monetaria e di vigilanza, proponendo però una ridefinizione della mission dell'istituzione che preveda un allargamento dei suoi compiti nel campo del rifinanziamento del sistema bancario, del monitoraggio della sua performance, del concorso al raggiungimento del livello adeguato di liquidità bancaria nell'economia. Teresina Torre trae da una ricerca empirica, condotta in Liguria sulle prassi di inserimento lavorativo di persone disabili, gli elementi per prospettare un più generale quadro concettuale volto a cogliere i possibili legami tra disabilità e strategia di "diversity management" consapevolmente perseguita nell'ottica della valorizzazione di tutte le risorse personali. A certe condizioni, che sta all'ente pubblico creare, il vincolo della disabilità e il conseguente obbligo di assunzione previsto dalla legislazione vigente, può trasformarsi – questa è la conclusione del saggio – in una opportunità. La comunicazione è connaturale all'essere e fare impresa. L'impresa "esiste" in quanto realtà comunicante. Ma cosa e come comunicare? Bruno Buzzo, imprenditore del settore e docente universitario, con il suo saggio si propone di approfondire la strategia del mix di comunicazione. Gli strumenti sono infatti molteplici: vanno scelti, ponderati, temporalizzati, valorizzati. Ciò può efficacemente avvenire nella misura in cui si è in grado di contestualizzare ciascuno strumento in rapporto al settore in cui l'impresa opera, al ciclo di vita del prodotto, agli obiettivi che si intende perseguire. La sezione working papers evidenzia numerose linee di ricerca. Le poche pagine del contributo di Gianni Cozzi aprono stimolanti prospettive sulle quali sollecitiamo l'apporto di altri studiosi. Il capitale relazionale così come si manifesta in un'area urbana caratterizzata dalla presenza di imprese innovative e del terziario avanzato, il ruolo della conoscenza quale fattore produttivo e competitivo che può essere potenziato da strategie di marketing territoriale concorrono a definire un ventaglio di ipotesi interpretative e normative di economia e politica industriale di notevole spessore teorico e applicativo. I contributi di Francesca Querci e di Giovanni Lombardo prendono l'avvio da ricerche condotte in ambito genovese dalle quali traggono riflessioni più generali e di grande interesse. L'integrazione, del tutto originale, delle reti commerciali bancarie e assicurative, realizzate dal Gruppo Carige, costituisce l'oggetto dello studio di Francesca Querci nel mentre, per Giovanni Lombardo, una indagine sulle piccole e medie imprese regionali è occasione per riflettere sul ruolo che la finanza innovativa (private equity, venture capital, prestiti partecipativi, azioni di sviluppo, MAC, ecc.) può avere per favorirne la crescita e l'internazionalizzatione. Il tema della CSR, sviluppato nel saggio di Mario Molteni, è oggetto anche di un paper specifico presentato dal giovane ricercatore tedesco Peter Seele. La CSR viene vista come strategia di marketing finalizzata ad incrementare la reputazione, l'immagine e l'identità dell’impresa in rapporto ai suoi stakeholders. A comprova dell'assunto, viene illustrato il caso della esposizione a Berlino del Museum of Modern Art, sponsorizzata nel 2004 dalla "Deutche Bank" nella sua duplice veste di banca multinazionale e locale. Mauro Bini (esperienze universitarie prima, Olivetti poi, consulente di organizzazione oggi) chiude questo numero di ImpresaProgetto. L'impresa e la sua organizzazione possono essere rappresentati in tanti modi. L'importante è capire, entrare dentro processi ove conta – come sottolineano Gasparre e Giorgetti nella loro presentazione – il "lato umano" dell'azione organizzativa fatto di scontri, mediazioni, antagonismi, successi, sentimenti, sconfitte. Il ragionamento scientifico non coglie tutto; per imparare – penso a una didattica innovativa – può servire la narrazione, la poesia, il teatro. I racconti di impresa, appunto, così come ce li propone Mauro Bini, con una forma e uno stile del tutto inusuali, ma sicuramente suggestivi. Segnalo, infine, il nuovo ospite, il dott. Alberto Guidotti, responsabile Ricerca e Sviluppo ICT del Gruppo Intesa Sanpaolo. La sua intervista apre prospettive oltremodo stimolanti sul ruolo delle più innovative tecnologie di rete. Si intravedono nuovi paradigmi in ordine all’essere e fare banca, in un’ottica di crescente relazionalità interna ed esterna. * * * Con l'uscita di questo numero si conclude il terzo anno di Impresa Progetto. Chiediamo ai lettori, agli amici e colleghi di aiutarci a fare un primo bilancio dell'esperienza. Nata per offrire, in special modo, ai ricercatori del Ditea (Dipartimento di tecnica e economia delle aziende dell'Università di Genova) uno strumento per socializzare le proprie ricerche e prendere parte tempestivamente al dibattito scientifico e culturale, la rivista ha registrato da subito l'interesse di una platea progressivamente più ampia di studiosi italiani e stranieri che ci hanno inviato contributi di grande spessore e originalità. La sezione working papers, a sua volta, ha accolto le risultanze – anche provvisorie – di progetti di ricerca originali e suscettibili di ulteriore sviluppo. Nel complesso la rivista ha ospitato una sessantina di contributi tra saggi e working papers nel mentre con gli editoriali ho voluto richiamare tematiche più "valoriali" o fondative: dal ruolo dell'aziendalismo italiano in rapporto alla società civile, all'etica di impresa, al senso del lavoro e dello sviluppo, ecc. Del pari significativa ci sembra la rubrica dedicata all'"ospite". Dalle interviste a personalità dell'economia e della società, quali Stiglitz, Profumo, Castellano, Garrone, ecc. sono infatti derivate suggestioni e provocazioni di grande efficacia. Segnalazioni di libri e di eventi hanno infine completato ogni numero della rivista. Ribadiamo pertanto la nostra volontà di contribuire, con Impesa Progetto, al dibattito sull'aziendalismo italiano che molto può dare e fare per la crescita del nostro Paese. Siamo aperti ai contributi e ai suggerimenti degli studiosi e degli operatori che ci seguono con attenzione e simpatia e che – in un'ottica interdisciplinare – vedono nell'impresa un fattore di modernizzazione, un soggetto e uno strumento per il bene comune.