Corsi e ricorsi della teoria della creazione del valore

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Venerdì 15 luglio 2016 si è tenuto presso la sede di Milano dell’Università Cattolica un workshop su “La misurazione e valutazione delle performance nelle imprese: stato dell’arte e tendenze evolutive in atto”. Il workshop è stato organizzato nell’ambito del percorso di approfondimento intrapreso da Impresa Progetto su “Le performance dei sistemi organizzati ed il loro monitoraggio” ed approfondisce temi sul cui sfondo sta l’evoluzione della Teoria della Creazione del Valore, nel suo intreccio con le problematiche della responsabilità sociale dell’impresa e della sostenibilità dello sviluppo.

 

L’impresa oggi deve rispondere a sfide rese non eludibili dai processi che hanno reso sempre più complessi, a livello globale, i sistemi economici e sociali, e da questo punto divista la Teoria della Creazione del Valore può rappresentare un’efficace cartina di tornasole dei suoi percorsi evolutivi. Inizialmente concepita come funzione monodimensionale di un’impresa strumento degli interessi del capitale finanziario, la Creazione del Valore si è andata configurando come processo multidimensionale, evolutivo, interattivo, e sociale per la varietà dei suoi impatti oltre che per la mobilitazione di risorse e di attori che la rendono possibile.

 

Nella versione inizialmente proposta da Alfred Rappaport (1986), in sintonia con Milton Friedman per il quale l’unico compito del management era quello di generare profitto a favore dei proprietari, la Teoria della Creazione del Valore era stata declinata in termini di creazione di shareholder value secondo logiche di carattere finanziario e di breve termine. Il contesto era fortemente condizionato dai processi di finanziarizzazione dell’economia scatenati dai provvedimenti di deregulation con cui, nella seconda metà del secolo scorso, erano stati rimossi prima i limiti alla mobilità internazionale dei capitali stabiliti con gli accordi di Bretton Woods (1944) e poi la separazione, risalente al periodo della grande crisi degli anni ’30, tra le attività delle banche commerciali e quelle delle banche d’affari: una duplice rimozione che aveva aperto al capitale finanziario la possibilità di muoversi liberamente a livello globale alla ricerca delle più convenienti condizioni di impiego.

 

Di fronte alla caduta dei livelli di redditività di public companies legate a vecchie logiche di standardizzazione produttiva e di crescita conglomerale, il nuovo verbo indicava una strada per recuperare profitto e rispondere alle pressioni dei mercati finanziari.

 

Da allora tuttavia la Teoria della Creazione del Valore ha progressivamente ampliato i propri orizzonti, misurandosi via via con nuovi interessi e prospettive.

 

Il perseguimento esasperato dello shareholder value, giocato spesso in chiave speculativa e con esiti di distruzione di risorse, aveva messo in luce la dimensione irresponsabile (Gallino, 2005) di un’impresa legata ai soli obiettivi di creazione di valore azionario, magari anche senza profitto. Ma al di là di tali effetti degenerativi in quella fase, accanto ai processi di finanziarizzazione, se ne stavano diffondendo altri legati allo sviluppo di nuovi saperi, tecnologie, conoscenze capaci di supportare i percorsi innovativi delle imprese in un nuovo orizzonte di varietà e variabilità produttiva.

 

La Teoria della Creazione del Valore sì è così arricchita affiancando a quella di Rappaport un’altra versione, attenta alla creazione di valore sostenibile (Donna, 1999) attraverso processi di competence building e di competence leveraging (Sanchez Heene Thomas, 1996). Allo sviluppo di questa seconda versione ha concorso una pluralità di contributi principalmente focalizzati sul ruolo giocato dalle risorse e dagli stakeholder nel funzionamento di imprese portate a configurarsi come sistemi progettuali, cognitivi ed evolutivi, aperti a relazioni interaziendali di carattere collaborativo.

Nell’ambito della Resouce Based View le risorse aziendali sono state esaminate con riferimento alla loro natura da un lato composita, frutto della combinazione di elementi tangibili ed intangibili, e dall’altro evolutiva, per effetto dei continui processi innovativi; se ne è inoltre sottolineato il ruolo di determinanti della creazione del valore, quando capaci di risolversi nella formazione di competenze distintive e di vantaggi competitivi. Alla presenza di risorse intangibili ed al loro ruolo nel determinare possibili gap tra market value e book value si è inoltre data evidenza attraverso modelli quali l’Intangible Asset Monitor (Sveiby, 1997) e l’ Intellectual Capital (Edvinsson e Malone, 1997).

 

Per quanto riguarda invece gli stakeholder, se ne è riconosciuta la capacità di giocare un ruolo significativo nel successo delle iniziative imprenditoriali contribuendo con i loro apporti alla formazione delle risorse aziendali o assicurando all’impresa consenso e legittimazione sociale (Freeman, 1994). La creazione di stakeholder value ha incominciato quindi ad essere considerata come condizione per la creazione di shareholder value.

 

Il capitale finanziario ha così cessato di essere visto come l’unica risorsa costitutiva dell’impresa: tra le risorse hanno incominciato ad essere annoverati il capitale umano, le tecnologie, il know how gestionale, l’immagine, e gli shareholder hanno cessato di essere considerati gli unici attori titolati ad avere interessi sull’impresa.

 

Tutto ciò non è stato privo di conseguenze sul versante sia dell’accounting che del reporting.

 

Per quanto riguarda l’accounting la crescente divaricazione tra valori economici e contabili del capitale e del reddito ha limitato la capacità delle tradizionali misure contabili di supportare i processi di controllo ed ha determinato la sperimentazione di nuovi indicatori di performance economica come l’Economic Value Added (Stewart G.B. III, 1991) e di nuovi modelli multidimensionali di controllo come la Balanced ScoreCard  (Kaplan and Norton, 1996).

 

Il rilievo assunto dagli stakeholder come attori coinvolti nella creazione e distribuzione del valore ha comportato invece lo sviluppo di nuovi strumenti di comunicazione, finalizzati al consolidamento delle loro relazioni con l’impresa; sono stati così proposti e sperimentati modelli di bilancio sociale multistakeholder tra i quali può essere ricordato, per quanto riguarda il nostro paese, il bilancio sociale GBS.

 

Il primo quindicennio di questo secolo è stato poi caratterizzato dal crescere di attenzione e di iniziative intorno ai temi della responsabilità sociale dell’impresa e della sostenibilità dello sviluppo, cui hanno concorso le ricadute delle attività produttive in termini di deterioramento dell’ambiente e di depauperamento delle risorse naturali e gli effetti dei processi di globalizzazione sul piano dell’aggravamento delle disuguaglianze economiche e sociali. Infine la crisi incominciata nel biennio 2007/2008 ha resa chiara la portata devastante di forze di mercato e di logiche finanziarie sottratte ad ogni momento di regolazione e di controllo.

 

Il clima culturale, le preoccupazioni socialmente diffuse e le attese nei confronti delle imprese sono rimasti così profondamente influenzati dall’esigenza di rispondere congiuntamente a problemi di sostenibilità dello sviluppo, di equità sociale e di razionalità economica. 

 

E’ in questo quadro che il Rapporto Bruntlandt (1987) ha posto il problema della sostenibilità dello sviluppo, definito come “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere le possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”, seguito nel 1999 dal Global Compact come iniziativa dell’ONU volta ad incoraggiare le imprese ad adottare politiche sostenibili e rispettose della responsabilità sociale; che la Commissione delle Comunità Europee (2001 e 2011) ha proposto alle imprese la Responsabilità Sociale prima come “integrazione volontaria delle problematiche sociali ed ecologiche” nelle proprie politiche e nei rapporti con gli stakeholder, e poi tout court come “responsabilità delle imprese per i loro impatti sulla società”; che vengono elaborate e presentate proposte alternative al PIL, dal Better Life Index dell’OECD al BES dell’ISTAT, più appropriate per monitorare un fenomeno multidimensionale e qualitativo come lo sviluppo.

 

A livello teorico-accademico e operativo-professionale non sono mancate infine riflessioni e proposte che hanno investito il ruolo dell’impresa nell’economia e nella società ed hanno finito per mettere in relazione i temi della responsabilità sociale, della sostenibilità dello sviluppo e della creazione del valore.

 

Basti pensare al modello della creazione di Shared Value con cui Porter e Kramer (2011) hanno proposto una nuova frontiera per il ruolo delle imprese nella società, ipotizzando come l’utilizzo delle nuove tecnologie per rispondere ai bisogni emergenti possa dare spazio alla riconfigurazione ed allo sviluppo di business capaci di generare congiuntamente valore economico e valore sociale.

 

Ma prima ancora il modello della triple bottom line (Elkington, 1997) aveva dato evidenza al fatto che le attività delle imprese generano ricadute non solo sul piano economico ma anche su quello sociale ed ambientale, ispirando l’impostazione che sarebbe poi stata data allo sviluppo del non financial reporting.

 

In questa sede vale la pena di ricordare la Norma ISO 26.000 “Guida alla Responsabilità Sociale” che sul tema rappresenta un fondamentale punto di riferimento, per poi confrontare rapidamente il Bilancio di Sostenibilità GRI, che è il modello più diffuso a livello internazionale, e l’Integrated Reporting Framework, emesso nel 2013 dall’International Integrated Report Council. Va peraltro ricordato che la Direttiva 2014/95/UE prevede a partire dal 2017, pur non legandola all’utilizzo di particolari modelli, la pubblicazione obbligatoria da parte di imprese e gruppi di grandi dimensioni di non financial information in tema di sostenibilità.

 

Le Guidelines e gli Standards del Global Reporting Initiative forniscono alle “organizzazioni” impegnate a redigere Bilanci di Sostenibilità (non solo quindi imprese ma più generalmente “organizzazioni” di varia natura: profit e not for profit, private e pubbliche) un quadro di criteri ed un repertorio di indicatori di performance economiche, sociali ed ambientali ampio, con l’obiettivo di fornire agli stakeholder un quadro informativo capace di consentire loro scelte e  comportamenti più consapevoli nei confronti delle “organizzazioni”.

 

La preoccupazione che ispira questi criteri di redazione è quella di garantire una elevata qualità (completezza, rilevanza, verificabilità, comparabilità) delle informazioni fornite dal Bilancio di Sostenibilità, a supporto della comunicazione dell’impresa con gli stakeholder, con la società e con le istituzioni.

 

L’Integrated Reporting Framework si propone invece l’obiettivo più ambizioso di esplicitare come l’’”organizzazione” crea valore nel breve, medio e lungo termine, documentando il business model e le determinanti della creazione del valore con riferimento a strategia e governance, opportunità e rischi, performance e prospettive, e soprattutto alle connessioni ed alle interdipendenze tra questi elementi.

 

L’Integrated Report colloca gli shareholder sullo stesso piano degli stakeholder e si propone di fornire loro informazioni utili per valutare il loro rapporto con l’”organizzazione”, ma è soprattutto agli investitori che l’Integrated Reporting si rivolge con l’obiettivo di supportare più razionali scelte di allocazione delle risorse.

 

Il carattere integrato dei Reports proposti dal Framework riguarda non solo e non tanto il fatto di conglobare in un unico documento informazioni financial e non financial; esso infatti presuppone un modo integrato di progettare (Integrated Thinking) ed implementare i business (Integrated Management). La novità più rilevante del Framework riguarda tuttavia l’assunzione di un concetto “allargato” di creazione del valore.

Il Framework infatti concepisce la creazione di valore come un processo che vede l’”organizzazione” utilizzare in input una pluralità di “capitali”, ovvero di risorse e relazioni non circoscritte al capitale finanziario ed agli asset materiali ma  estesi a ricomprendere capitale intellettuale, capitale umano, capitale sociale e relazionale, capitale naturale. Le attività dell’”organizzazione” si risolvono poi nella formazione non solo di output (beni e servizi) ma anche di outcome, cioè di impatti su questi “capitali” ed  Il processo (allargato) di creazione del valore viene ricondotto agli effetti di arricchimento/depauperamento di questo insieme di “capitali”.

 

Si vengono così a saldare le problematiche della creazione del valore, della responsabilità sociale e della sostenibilità dello sviluppo, e la circolarità delle relazioni tra management e reporting si qualifica per il supporto che il reporting fornisce al management assicurando un quadro informativo utile per perseguire l’equilibrio tra gli impatti economici, sociali ed ambientali dei business.

 

Non è questa la sede per valutare i problemi, peraltro non banali, che il Framework presenta dal punto di vista della solidità sul piano scientifico e della praticabilità su quello operativo. Basti pensare ai trade off che vengono a configurarsi tra impatti economici, sociali ed ambientali dei business, tra esigenze di disclosure e preoccupazioni di protezione della competitività, tra shareholder e stakeholder dal punto di vista della distribuzione di vantaggi e rischi e di ruoli e relazioni nella governance delle imprese; e non si tratta neppure qui di valutare i problemi di monitoraggio delle determinanti e delle interdipendenze da cui dipende la creazione del valore ed a quelli di misurazione e valutazione delle variazioni del valore dei diversi capitali.

 

Il Framework rappresenta tuttavia oggi un importante termine di confronto su cui misurare tanto le risposte delle imprese ai problemi dell’economicità, della responsabilità sociale e della sostenibilità dello sviluppo quanto la capacità esplicativa e prescrittiva della Teoria della Creazione del Valore.

 

Da questo punto di vista i corsi ed i ricorsi della Teoria della Creazione del Valore confermano il carattere storicamente determinato dell’impresa, in quanto attore della funzione di produzione in continua e dinamica interazione con il processi evolutivi dell’economia e della società.

 

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Abbiamo appena ricordato il workshop di venerdì 15 luglio 2016 su “La misurazione e valutazione delle performance nelle imprese: stato dell’arte e tendenze evolutive in atto”, che si è svolto a Milano presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica. Impresa Progetto ringrazia la “Cattolica” per l’attenzione e per la cortese ospitalità.

Il workshop è stato animato dalle presentazioni di Alberto Bubbio, Stefano Zambon, Marco Frey, Lino Cinquini che hanno delineato l’evoluzione della problematica in tema di misurazione e valutazione delle performance delle imprese facendo riferimento ai principali modelli proposti dalla dottrina e dalla pratica professionale (Balance ScoreCard, Intellectual Capital, GRI, Integrated Reporting); da Anna Piantoni e Lucrezia Songini che hanno fatto il punto, in base ad una analisi empirica, sui problemi di implementazione dell’Integrated Reporting; da Andrea Gasperini, Giovanni Grasso, Alessia Sabbatino e Raffaele Trivellato che hanno documentato lo stato di diffusione del non financial reporting.

I risultati del workshop, con riferimento ai contributi che possono derivarne per il percorso di approfondimento che stiamo svolgendo su “Le performance dei sistemi organizzati ed il loro monitoraggio”, saranno presto resi noti agli amici della Rivista.

 

Il Collega Prof. Roberto Cafferata, dopo aver cessato il suo servizio presso l’Università, ha ritenuto di porre termine anche alla sua collaborazione  ad Impresa Progetto, del cui Comitato di Direzione è stato membro fin dall’inizio. L’avventura della Rivista è stata possibile grazie anche alle idee, ai contributi ed agli stimoli che Roberto non ci ha mai fatto mancare, e di questo lo ringraziamo con affetto.

Entra invece a far parte del Comitato di Redazione il dott. Domenico Berdicchia, ricercatore dell’Università di Ferrara, cui rivolgiamo un caloroso benvenuto.

 

Il numero 1/2016 di Impresa Progetto ospita cinque saggi e due working paper.

In proposito segnaliamo che il Comitato di Direzione di Impresa Progetto ha deciso di chiudere questa sezione a partire dal prossimo numero, e di sostituirla con un’altra dedicata alla pubblicazione di documenti di lavoro e di ricerca.

 

Per quanto riguarda i saggi, Mara Zuccardi Merli, Elisa Bonollo ed Elisabetta Arato presentano i risultati di un’indagine empirica sulla rendicontazione di brevetti e spin off generati dalle Università italiane nell’ambito del loro impegno nelle attività di “terza missione”. Si tratta di una disclosure rilevante non solo dal punto di vista della accountability delle Università rispetto all’assolvimento dei loro compiti istituzionali, ma anche da quello del possibile rafforzamento delle loro relazioni col mondo delle imprese e con gli attori impegnati nei processi di trasferimento tecnologico.

Il lavoro prende in esame diversi possibili modelli di monitoraggio di brevetti e spin off e le informazioni effettivamente diffuse nei documenti di rendicontazione delle Università, rilevando una elaborazione e diffusione di indicatori di natura quantitativa o accessoria in genere non in grado di fornire una rappresentazione adeguata dell’impatto di tali attività. Vengono infine fornite alcune indicazioni di policy.

 

Paolo Tenuta e Domenico Rocco Cambrea esaminano sulla base di un’ampia osservazione empirica l’impatto della composizione del Consiglio di Amministrazione sul valore di mercato delle società italiane quotate.  Sono studiate il particolare le caratteristiche del board che dovrebbero essere più appropriate per assicurare il controllo del management ed il supporto ai processi decisionali: CEO duality, presenza di consiglieri indipendenti e con incarichi in altri board, numerosità del CdA e presenza femminile.

I risultati dell’indagine segnalano un impatto positivo della presenza nel board di consiglieri con altri incarichi e della numerosità dell’organo, mentre ininfluenti sembrano essere la CEO duality, la presenza di consiglieri indipendenti e la presenza femminile. Si tratta di conclusioni rilevanti in quanto alcune di esse non avvalorano convinzioni autorevolmente accreditate.

 

Marco Minciullo, con riferimento ad una letteratura peraltro finora poco attenta a questo tema e ad un progetto ricerca relativo ad iniziative di microassicurazione nei paesi in via di sviluppo, propone di riconsiderare il ruolo delle Fondazioni aziendali in termini di integrazione tra filantropia e business, con lo sviluppo di attività in grado di generare sinergie. Ciò che in sostanza si ipotizza è il recupero da parte di queste Fondazioni della prospettiva della creazione di share value di Porter e Kramer, capace di allineare obiettivi economici ed obiettivi sociali.

 

Ruota intorno ad un’altra esperienza, questa volta di coworking, il contributo di Fulvio Fortezza, Domenico Berdicchia, Giovanni Masino e Simone Moriconi. Nel coworking si può ritrovare la compresenza di diverse dimensioni: la condivisone di spazi e servizi tra freelancer, professionisti, startupper che cercano di minimizzare costi di tipo logistico, l’offerta di servizi professionali a valore aggiunto, la circolazione di informazioni, esperienze, conoscenze utili per stimolare creatività, progettualità, idee innovative. Secondo gli Autori l’interazione delle PMI con spazi di questo tipo, la relazionalità con quanti vi sono insediati e con gli operatori che con essi vengono a contatto, può rappresentare un fattore capace di abilitare l’interconnessione di queste imprese con i mercati: una condizione che la letteratura in tema di marketing ritiene necessaria per promuovere l’orientamento al mercato delle imprese di dimensioni minori.

 

Tema nuovo è anche quello del disability management, affrontato nel saggio di Veronica Mattana. Pochi studi se ne sono finora occupati, anche in conseguenza del ritardo con cui le imprese italiane lo hanno affrontato con specifiche iniziative. L’autrice se ne occupa attraverso un esame di ricerche evidence based, da cui emerge la rilevanza della formazione e del coinvolgimento di manager e di specialisti nell’ambito di politiche, di procedure, di modelli relazionali appropriati. E’ anche questo un terreno dove l’innovazione organizzativa e le nuove tecnologie possono consentire di perseguire congiuntamente obiettivi aziendale ed obiettivi sociali.

 

I working paper di questo numero della Rivista sono presentati da Antonio Meles, Stefano Monferrà, Claudio Porzio e Vincenzo Verdoliva che affrontano il tema dell’impatto del Private Equity sull’impresa target e da Marco Taliento che fornisce un contributo in tema di value relevance dei risultati di bilancio delle società quotate ad alta capitalizzazione, nel periodo successivo alla crisi.

 

Anche in questo numero sono presenti due interviste. Nella prima Clara Benevolo ha raccolto da Vasco De Cet, Marina Manager di Marina di Portisco spa, alcune indicazioni di particolare interesse a proposito del business model sperimentato con successo da questo prestigioso Marina della Costa Smeralda. L’ottica dell’operatore portuale è stata abbandonata per adottare quella del gestore di servizi di ricettività turistica, e sono state adottate le politiche aziendali: dal pricing all’utilizzo di servizi di prenotazione on line, coerenti con un approccio fortemente customer oriented.

Domenico Berdicchia ha invece ascoltato da Mico Rao la storia di Lab 121: uno spazio di coworking a base associativa e non profit che operando in un’area di provincia come quella di Alessandria mobilita un gran numero di associati pronti a supportarsi in termini di scambio di servizi e promuove iniziative di vantaggio per il territorio.

 

Lo spazio dedicato alle recensioni ospita infine la ri-lettura, da parte di Lorenzo Caselli e Roberta Scarsi, del volume del Mulino curato da Maurizio Rispoli e pubblicato in due successive edizioni nel 1984 e nel 1989, su “L’impresa industriale. Economia, tecnologia, management”.

Il volume viene esaminato nei suoi contenuti e ne viene sottolineata la funzione di rivisitazione dell’impresa, della sua natura e delle sue interazioni, svolta in un momento cruciale in cui si trattava di fare i conti da un lato col superamento di un “fordismo” ormai esaurito e dall’altro con le prime avvisaglie della nascente fase post-industriale.

Ci è sembrato che il modo migliore per ricordare il Collega, che ci ha lasciato nel gennaio scorso, fosse proprio quello di riproporre alla comunità scientifica un passaggio importante della storia dell’aziendalismo italiano, che ha visto Rispoli contribuire ad un recupero dell’impresa come attore storicamente determinato, da studiare per come concretamente vive la propria funzione distintiva nell’economia e nella società.