Il lavoro nella crisi globale

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La globalizzazione non è un qualcosa di neutrale o asettico. Essa si esprime attraverso un insieme di processi sia di inclusione (per pochi) sia di esclusione (per molti). Trattasi di processi che attribuiscono e tolgono potere, che producono effetti positivi e negativi variamente distribuiti tra le diverse realtà sociali ed economiche tanto a livello locale quanto internazionale.

Grandi contraddizioni connotano gli odierni processi di globalizzazione. Questi non avvengono secondo modalità lineari ed inequivoche. Le loro velocità sono, a ben vedere, molto differenziate, più accentuate a livello finanziario-speculativo, rallentate a livello culturale e civile. La produzione di beni privati sopravanza la produzione di beni pubblici, con il conseguente fallimento nella distribuzione del reddito e delle chances di vita a scala mondiale. Ne conseguono processi di integrazione asimmetrici, con marcati dislivelli nelle posizioni relative dei diversi soggetti coinvolti. Per alcuni la globalizzazione rappresenta una grande opportunità, per altri può costituire una minaccia cui rispondere attivando forme di difesa, richiedendo misure di salvaguardia e di protezione. Nel giro di breve tempo siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi economico produttiva che si è trasformata in crisi occupazionale. Questa è diventata crisi umana e sociale in grado di incidere pesantemente sui fondamenti stessi della vita civile.

Nei processi di globalizzazione segnati dalla crisi la condizione del lavoro assume connotati di grande drammaticità. I costi umani sono enormi e continuano a crescere. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) fornisce al riguardo dati e valutazioni oltremodo significativi. In un momento in cui il futuro dell’economia e della società sembra discendere dall’andamento degli indici di borsa e dei tassi di interesse nonché dal giudizio – più o meno interessato – delle agenzie di rating, vale veramente la pena richiamarli anche per non cadere nella trappola di una globalizzazione intesa a senso unico.

Le fonti statistiche internazionali stimano la disoccupazione mondiale in oltre 200 milioni di unità di cui quasi 80 milioni giovani. Dati largamente sottovalutati in quanto prendono in considerazione soltanto i soggetti che hanno perso il lavoro o lo stanno attivamente cercando ed esclude i cosiddetti scoraggiati per i quali non esiste alcuna possibilità di trovare un’occupazione. I timidi segnali di ripresa congiunturale, verificatisi tra il 2009 e il 2010 in alcuni paesi, non hanno prodotto nuova occupazione. A ciò si aggiunga che i margini di manovra per creare lavoro o per mettere in campo adeguati ammortizzatori sociali si sono considerevolmente ridotti in quanto le esigenze di risanamento finanziario, di salvataggio delle banche, di aggiustamento dei conti pubblici hanno falcidiato le poche risorse disponibili.

In questi ultimi quattro anni la disoccupazione nei paesi industrializzati è considerevolmente aumentata (oltre 40 milioni di unità) come conseguenza del drastico rallentamento del tasso di crescita dell’economia e anche per le profonde modifiche intervenute nella specializzazione produttiva. Gli effetti della globalizzazione sul mercato del lavoro di tali paesi sono riconducibili da un lato allo spostamento dell’occupazione verso settori e attività a maggiore intensità di capitale e anche di lavoro qualificato con la constatazione che i nuovi posti creati sono di molto inferiori a quelli cancellati e che comunque la compensazione non è affatto automatica; dall’altro lato si è assistito alla frammentazione dei processi produttivi con fenomeni di outsourcing e di delocalizzazione nonché alla crescita di servizi a bassa produttività, con un elevato tasso di precarietà.

A tutto ciò ha contribuito il convincimento, di stampo neo-liberistico, che per guadagnare in competitività, in un quadro di globalizzazione, le cose più importanti da fare fossero ridurre l’ welfare, tagliare il costo del lavoro e, in particolare, non tassare i ricchi grazie a sistemi impositivi sempre più regressivi, da qui il ridimensionamento della quota spettante al lavoro sul prodotto interno lordo. L’economia reale, la sola in grado di produrre benessere, occupazione e sviluppo, che sono le precondizioni per una maggiore equità, è risultata bloccata. Il gioco perverso della moltiplicazione artificiosa di una ricchezza che non cresce sta giungendo al capolinea e sta trascinando con sé banche, stati, istituzioni e in modo significativo la vita di miliardi di persone.

Problematiche occupazionali sono altresì presenti nei paesi di capitalismo emergente (BRICS) non ostante che in alcuni di essi la crescita del reddito sia di poco inferiore al 10%. In Cina a fine 2010 si calcolava che quasi 25 milioni di lavoratori avessero perso il posto che avevano ottenuto nelle città e che di conseguenza fossero ritornati nelle campagne da cui erano partiti senza peraltro trovare possibilità di lavoro nell’agricoltura. Quanto sinteticamente osservato con riferimento alle economie avanzate e alla Cina può essere generalizzato a scala globale. In tutto il mondo – seppure con intensità e connotazioni diversificate – si registrano i contraccolpi crescenti del peggiore dei modelli di globalizzazione, quello che bada soltanto ai profitti finanziari speculativi di breve termine e che allarga la forbice tra ricchi e poveri, generando conflitti sociali sempre più marcati nonché l’esodo dei lavoratori dai loro paesi di origine.

Gli oltre 200 milioni di disoccupati, cui abbiamo dianzi accennato, sono a ben vedere la punta dell’iceberg di situazioni particolarmente pesanti. La crisi e la recessione aprono nuove strade all’ingiustizia sociale, alle disuguaglianze, alle discriminazioni, alla violazione dei fondamentali diritti umani. Avvalendoci dei rapporti elaborati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro forniamo al riguardo alcuni flash, emblematici:

  • Su 3 miliardi di lavoratori coloro che godono di un contratto formale sono meno del 30%. Del pari non superano il 15% i lavoratori coperti da qualche forma di protezione sociale;
  • La precarietà del lavoro sfocia nella povertà vera e propria. La quota di lavoratori che con le loro famiglie vivono con meno di 2 dollari al giorno è stimata in 1,5 miliardi di unità. Le famiglie impoverite non mandano i figli a scuola, cercano piuttosto di trovare loro un’occupazione qualsiasi pur di accrescere il reddito disponibile. In questo modo milioni di ragazzi sono destinati - nell’ambito di una spirale perversa - a ritrovarsi adulti del tutto privi di istruzione senza la possibilità di una vita decente;
  • Il lavoro minorile riguarda ben 215 milioni di bambini nel mondo, di questi almeno 8 milioni sono schiavi, soldati, lavoratori del sesso;
  • Il lavoro forzato riguarda 21 milioni di persone (di cui più di 11 milioni donne);
  • I soggetti con qualche forma di disabilità sono circa il 10% della popolazione mondiale. Di questi, oltre 470 milioni si trovano in età lavorativa. Il loro tasso di occupazione è mediamente molto modesto, pressoché nullo in numerosi paesi in via di sviluppo ove l’80% dei disabili vive nella povertà più assoluta.

Potremmo ulteriormente continuare nell’elencazione di situazioni che ripugnano alla nostra coscienza. Reagire a questo stato di cose non è tuttavia facile. In contesti di crisi pesante, di condizionamento delle politiche dei singoli governi da parte della finanza internazionale e del “big business”, la violazione degli standard internazionali, delle convenzioni in tema di sicurezza, ambiente, diritti e libertà sindacali sono all’ordine del giorno. Nel 2010 - ultimo dato disponibile -sono stati assassinati 90 sindacalisti (in America Latina, Asia, Medio Oriente), 75 sono stati minacciati di morte, 2500 arrestati, 5000 licenziati in funzione della loro attività di tutela e difesa dei lavoratori. In ben 143 paesi (non tutti in via di sviluppo!) si sono registrate violazioni di diritti civili e sindacali.

Quali vie intraprendere per fronteggiare tale situazione? L’Organizzazione Internazionale del Lavoro in un documento fondamentale di qualche tempo fa evidenziava la necessità di un patto globale per il lavoro (A Global Jobs Pact). Un patto che si proponga l’obiettivo di un lavoro decente e retribuito per tutti nel pieno rispetto delle convenzioni internazionali. Un patto che preveda la generalizzazione della sicurezza, della protezione sociale e delle pari opportunità. Un patto capace di esprimersi attraverso la partecipazione e il dialogo sociale. Un patto che , prendendo atto dell’aumento spettacolare nei livelli di istruzione dei giovani si riveli in grado di creare posti di lavoro coerenti con i livelli di formazione raggiunti, aggredendo con determinazione i processi crescenti di mismatch tra occupazione e competenze.

Il lavoro e, attraverso di esso, la riduzione delle disuguaglianze e della povertà, è la via obbligata per uscire dalla crisi e avviare una crescita sostenibile nel cui ambito la finanza si pone al servizio dell’economia reale, alimentata da investimenti socialmente responsabili. Il sistema capitalista, lo ha ricordato Fitoussi non può sopravvivere in un contesto con grandi sperequazioni. L’esperienza dimostra che i paesi a più alto indice di eguaglianza sono quelli che, coniugando rigore, equità e sviluppo, stanno superando meglio la crisi. E’ il caso dei paesi del nord Europa. A sua volta un’indagine della World Bank evidenzia che i paesi più ricchi per prodotto interno lordo pro-capite sono anche i paesi con minori squilibri al loro interno.

Tutto ciò è stato recentemente dimostrato da Stiglitz attraverso la famosa formula che lega indice di Gini, propensione al consumo, moltiplicatore. Se cresce la diseguaglianza nella distribuzione del reddito (in oggi l’1% più ricco della popolazione si appropria del 25% del prodotto) si abbassa – con la perdita di peso della middle class – la propensione marginale al consumo e conseguentemente diminuisce il valore del moltiplicatore degli investimenti. La diseguaglianza – afferma Stiglitz – è il vero killer del Pil e dell’occupazione, non solo per la caduta dei consumi, ma anche perché il sistema è inefficiente se prevale la caccia ai profitti finanziari e alle rendite.

Il patto globale per il lavoro è un ponte tra i diritti delle persone a un lavoro e a una vita dignitosa e le esigenze dello sviluppo economico e sociale nella prospettiva di una globalizzazione equa, solidale, imperniata su un sistema di beni pubblici destinati alla comunità di tutti gli uomini. Nell’ultima edizione del Rapporto ILO sul mondo del lavoro c’è un passaggio che merita di essere evidenziato. “E’ fondamentale superare gli ostacoli che impediscono di collocare l’occupazione in cima all’agenda delle riforme, in particolare: la convinzione radicata sull’impatto negativo degli interventi pubblici sulla competitività e sulla crescita economica; l’idea che affrontare il problema della ripartizione del reddito e rafforzare i diritti dei lavoratori possa rallentare gli investimenti produttivi e la creazione di posti di lavoro; il coordinamento internazionale insufficiente, che è particolarmente importante in materie come la fiscalità, e in periodi di debolezza della domanda aggregata globale.”

Con un prodotto interno lordo globale che, nonostante la crisi, supera i 60.000 miliardi di dollari, il mondo dispone di mezzi economici, tecnologici, organizzativi che sarebbero largamente sufficienti per assicurare una vita decorosa all’intera sua popolazione. In questa ottica i poveri non sono un peso bensì una risorsa. L’elevazione degli esclusi è una grande occasione per la crescita morale, culturale e anche economica dell’intera umanità. Più della metà del mondo deve essere conquistata alla dignità umana che è anche dignità economica, possibilità di intraprendere, di mettere a frutto le proprie capacità. Una grande sfida per il social business! Yunus, muovendo dall’assunto che ogni persona non utilizzata è una chance perduta per produrre benessere, ci invita ad immaginare cosa vorrebbe dire per l’economia mondiale se ciascuno di questi tre miliardi e mezzo di persone potesse acquistare una camicia l’anno e un paio di scarpe ogni due anni. Sarebbe un boom e di recessione non si sentirebbe più parlare!

Occorre dunque allargare il campo, occorre ragionare per futuri possibili. E ciò a partire dalla responsabilità e progettualità di molteplici soggetti e istituzioni europei che, a vario titolo, potrebbero fornire un contributo non marginale. Le grandi imprese europee. La responsabilità sociale delle imprese costituisce ormai un dato acquisito a livello comunitario. Orbene, i paesi poveri, i paesi in via di sviluppo devono essere assunti come stakeholder della grande impresa. I sindacati europei. All’interno delle grandi imprese hanno acquisito diritti di consultazione e di partecipazione. Potrebbero usare tali opportunità per ottenere da parte delle filiali delle multinazionali europee operanti nei paesi in via di sviluppo comportamenti coerenti con i diritti fondamentali delle persone e delle comunità coinvolte, rapportandosi e collaborando con le organizzazioni locali dei lavoratori, favorendone la nascita e la crescita. La società civile europea (nelle sue varie articolazioni, associazioni, movimenti, ecc.). Si pensi soltanto alle grandi opportunità del consumo equo e solidale in sinergia con lo sviluppo delle esperienze di microcredito. Infine al scuola europea come luogo ove giovani di diversa provenienza e appartenenza imparano a vivere insieme, ad accogliersi reciprocamente, a costruire nel dialogo una cittadinanza comune e un progresso condiviso.

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La sezione saggi si apre con il contributo ad invito di Claudio Baccarani, direttore di Sinergie. E ciò nella prospettiva – ce lo auguriamo – di possibili collaborazioni e scambi tra le riviste accreditate Aidea. L’argomento trattato è invero suggestivo: “L’impresa tra crisi, lentezza, bellezza”. Il mondo reale è drammaticamente diverso da quello assunto nei manuali di management e proposto nelle business school. Occorre pensare a qualcosa di diverso che possa aprire la strada verso un modo nuovo di intendere il mercato e l’impresa. Molti miti richiedono di essere sfatati. Tra questi, quello della velocità. In azienda il procedere di corsa sembra essere diventato un valore: ma chi corre non necessariamente arriva primo. Per Baccarani ciò che conta è invece la rapidità legata alla capacità di cogliere i segnali deboli, di scegliere il tempo giusto per pensare e per agire, di alternare con intelligenza lentezza e velocità. Il caso di una azienda del Nord Est, ignota al grande pubblico, la Bonotto di Molvena, viene portata a dimostrazione del fatto che il “ritmo giusto” consente nuove alternative. Nella fabbrica lenta il “maestro artigiano” con il suo pensiero, la sua esperienza interagisce con la macchina piuttosto che subirla. Sorgono pertanto spazi inediti di creatività e innovazione.

Nel saggio c’è un altro passaggio che merita di essere sottolineato. Non si può pensare all’agire, al produrre, al lavorare senza tenere conto del bello, del bene, del buono. Per creare bellezza anche l’impresa deve essere bella. Deve poter vivere in armonia, progettando e diffondendo benessere nel complesso sistema delle relazioni interne ed esterne. E proprio sulla base dell’esperienza dell’azienda Bonotto, vengono individuate ben 34 caratteristiche che concorrono a definire la bellezza dell’impresa: dalla vivacità alla accoglienza, alla diversità, alla generosità, alla fiducia… La conclusione cui perviene l’Autore è che alla crisi che stiamo attraversando non si può rispondere solo con la crescita secondo desuete categorie economiche, ma accettando la sfida insita nell’assumere il progresso come motore di un sistema economico che si muove in una prospettiva di sostenibilità.

Continuando nella presentazione dei saggi di questo numero di Impresa Progetto, due affrontano – muovendo da ottiche diverse – l’argomento di grande attualità delle reti di impresa. Il saggio di Silvia Vernizzi e Martina Martini approfondisce il contratto di rete, inteso quale strumento di aggregazione flessibile per accrescere la capacità competitiva e innovativa delle imprese. Lo strumento – introdotto da poco nella legislazione del nostro Paese – consente alle piccole imprese di superare il vincolo dimensionale mediante l’attivazione di molteplici forme di collaborazione di cui gli Autori esaminano le potenzialità e le criticità. Sulla tematica della cooperazione tra imprese mediante la costruzione di network si soffermano anche Anna Romiti e Daria Sarti che, dopo una preliminare riflessione critica sulla letteratura in materia, conducono uno studio esplorativo riferito al settore della meccanica con l’intento di mettere a fuoco – in un’ottica sistemica – i fattori determinanti e le molteplici dimensioni coinvolti nelle fasi iniziali e nella evoluzione di una rete di piccole e medie imprese.

L’analisi della qualità e del contenuto strategico della comunicazione verso l’esterno da parte delle medie imprese italiane quotate costituisce l’oggetto dell’interessante ricerca condotta da Lara Penco, Giorgia Profumo, Giovanni Satta. Dopo aver evidenziato il limitato ricorso di tali imprese a moderne forme di comunicazione, gli Autori, avvalendosi di appropriati strumenti statistici, misurano l’impatto che sull’efficacia e chiarezza della comunicazione hanno la diffusione dell’azionariato e la presenza di investitori istituzionali nel capitale delle imprese indagate.

All’economia dell’impresa alberghiera è dedicato il saggio di Giampaolo Viglia. Vengono presentate alcune tecniche di massimizzazione dei profitti, basate sull’allocazione variabile delle stanze a diverse tipologia di clienti praticando prezzi differenziati. L’Autore dopo aver approfondito le strategie di discriminazione di prezzo si sofferma, teoricamente e praticamente, sulla questione dell’ overbooking con l’intento di determinarne la dimensione ottimale.

Passando alla sezione working paper, il contributo di Lucia Marchegiani, Luca Giustiano, Enzo Peruffo, Luca Pirolo intende contribuire a una migliore sistemazione teorica del fenomeno dell’outsourcing come pratica strategica. Ciò sulla base di una significativa indagine empirica avente per oggetto le principali caratteristiche delle operazioni di esternalizzazione effettuate negli ultimi 15 anni.

Di fronte ai comportamenti poco trasparenti di molti istituti finanziari, la rendicontazione sociale può rivelarsi antidoto salutare contro il rischio reputazionale. Il tema della CSR – come emerge dal paper di Nicola Rappazzo – riveste nelle banche etiche del nostro Paese un valore emblematico, Ciò emerge chiaramente dall’analisi che l’Autore effettua – anche mediante interviste – dei contenuti informativi dei bilanci sociali redatti dai principali istituti di credito che fanno riferimento alla finanza etica.

Il paper di Giulia Parodi si interroga sulla posizione che le donne ricoprono e potranno ricoprire nel mondo del lavoro e delle imprese con particolare riferimento, da un lato, agli ostacoli e, dall’altro, alle misure e alle strumentazioni che potrebbero agevolare la partecipazione femminile. Si pensi soltanto al tema della conciliazione lavoro e famiglia. L’Autore, dopo un iniziale approfondimento torico, procede a una verifica sul campo riferita a un gruppo di piccole e medie imprese operanti in Liguria.

Di grande interesse è infine l’intervista di Pier Maria Ferrando all’Ing. Sergio De Luca, Amministratore Delegato di Ansaldo STS, azienda leader a livello internazionale nel settore dei sistemi ferroviari.