Università e città. I termini di una possibile sinergia

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Si registra oggi una rinnovata attenzione sul ruolo che le città grandi e medio grandi possono assolvere per promuovere la crescita del territorio. La sedimentazione – a scala adeguata – di risorse intellettuali e sociali diventa "brodo di coltura" dell'innovazione e della sua condivisione. Ciò nella misura in cui le città sono in grado di manifestare una capacità di visione strategica; di essere snodo nell'ambito delle grandi reti materiali (le infrastrutture) e immateriali (la produzione e la distribuzione della conoscenza); di proporsi come sede di funzioni pregiate  con effetti tanto attrattivi quanto diffusivi.
 
Il contesto urbano metropolitano (è prossima nel nostro Paese l’istituzione di dieci città metropolitane) rappresenta l'ambito privilegiato per attivare una circolarità virtuosa tra ricerca, formazione, tecnologia, industria e servizi, qualità di lavoro e di vita. Una circolarità virtuosa che può fertilizzare il  territorio, suscitare energie interne ed esterne, posizionare il contesto nei circuiti dell’economia globale.
 
Orbene tutto ciò senza una Università creativa, dinamica, aperta, in grado di fare rete e sistema è piuttosto difficile, vorrei dire impossibile. In particolare l'Università può porsi come partner sia delle realtà produttive e di servizio che si posizionano sulle fasce alte delle tecnologie, delle professionalità, dei mercati sia delle istituzioni che operano per una migliore qualità della vita e per un ambiente aperto all'innovazione sia della società civile nelle sue molteplici manifestazioni.
 
Con altre parole le nostre Università possono essere un fondamentale fattore di sviluppo per la società e l'economia  dei territori in cui sono insediate. Un fattore di sviluppo:
  • per i giovani che formano. In un Paese sempre più anziano l'innovazione sta nel ricambio generazionale;
  • per l'impegno nella ricerca e per le idee che producono  potenzialmente in grado di fertilizzare il territorio e di tradursi anche in opportunità imprenditoriali. In molti Atenei la partecipazione ai programmi quadro dell'Unione Europea ha notevoli ricadute sul tessuto sociale ed economico in termini di nuovi brevetti e di spin off realizzati;
  • per i circuiti che generano a livello nazionale, europeo, mondiale nei quali le città, con le loro attività, potrebbero utilmente inserirsi.  In questa prospettiva le convenzioni, i rapporti di collaborazione con paesi e atenei stranieri rappresentano una grande opportunità da cogliere con intelligenza;
  • per il valore economico, sociale, artistico-culturale che producono e mettono a disposizione delle comunità di appartenenza. Valore economico. Per una media Università, come Genova, l'effetto reddito – applicando la metodologia elaborata dal Prof. Alberto Cassone per l'Università del Piemonte Orientale -  non è lontano dai 500 milioni di euro. Del pari i posti di lavoro riconducibili direttamente e indirettamente all'Ateneo possono stimarsi in 13000 unità. Valore sociale. Le Università con i loro flussi di persone, di idee, di iniziative, con i loro insediamenti specie se radicati nel tessuto urbano, possono fare da collante per l'intera città contribuendo anche, in non pochi casi, alla valorizzazione e al rilancio dei centri storici. Valore artistico culturale. Numerosi Atenei si caratterizzano per i loro edifici storici, per le opere d'arte in essi contenute. Si è in presenza di un patrimonio artistico di grande importanza che concorre ad arricchire l'intera città anche sul piano turistico.
 
Le Università, nel nostro Paese, possono essere e fare tante cose a patto che ci siano le condizioni adeguate e, ancor prima, che si abbia la consapevolezza dei molti ostacoli e difficoltà che si frappongono al pieno dispiegamento delle loro potenzialità. Alcuni vincoli vengono da lontano e fanno parte del DNA dei contesti territoriali in cui le Università hanno sede. Altri hanno natura più congiunturale e si legano alla crisi che il Paese sta vivendo da troppo tempo con un impatto pesantissimo sul sistema universitario nazionale.
 
Vorrei soffermarmi brevemente sui condizionamenti ascrivibili a quello che ho chiamato il DNA del contesto territoriale di cui il singolo Ateneo è solidale. Ne indico quattro che ritengo particolarmente incidenti:
  • Il primo. In molti sistemi socioeconomici sono presenti punti di eccellenza, episodi significativi,  personaggi eminenti nei diversi campi. Ciò che è largamente carente è il discorso complessivo capace di andare oltre. Tutto questo incide negativamente  sul possibile ruolo unificante e integrativo assolvibile dall'Università che finisce sovente per essere risucchiata nella spirale delle separatezze e dei compartimenti stagni;
  • Il secondo è la logica conseguenza del primo. Manca la sinergia di forze e di risorse in ordine a grandi obiettivi condivisi. Si riscontrano viceversa chiusure paralizzanti o generiche "ammucchiate" che finiscono con l'azzerare o perlomeno ritardare ogni possibilità di scelta. Sempre con riferimento al caso genovese, le difficoltà incontrate nelle realizzazione del parco scientifico tecnologico, con il trasferimento della Facoltà di Ingegneria, si collocano in questo ambito;
  • Il terzo. La struttura delle attività produttive  sovente spiazza l'Università. Da un lato la grande industria, le grandi realtà di servizio pensano di poter fare a meno dell’apporto dell'Ateneo locale sia ritenendo di avere al proprio interno le conoscenze e le competenze necessarie sia preferendo rivolgersi, in caso di necessità, ad altre sedi ritenute più prestigiose (sul piano dell'immagine). Dall'altro lato le piccole e piccolissime imprese, ad elevato ricambio, legate a produzioni e a tecnologie tradizionali, orientate al mantenimento del loro status quo, con poche risorse, non sentono la necessità di rivolgersi all'Università in quanto tale, bastando poche consulenze di tipo meramente professionale;
  • Il quarto. E' difficile - salvo in alcuni grandi dipartimenti di solito di area scientifica - poter realizzare economie di scala, attivare masse critiche , processi autopropulsivi per cui da iniziativa nasce nuova iniziativa, da ricerca scaturisce nuova ricerca. Le capacità produttive delle singole strutture universitarie sono presto saturate.
 
Queste ultime considerazioni meritano un minimo di approfondimento. A mio avviso ciò che più condiziona negativamente le possibilità  di molti Atenei è la scarsa efficacia delle politiche di raccordo, delle strutture di interfaccia tra quanto l'Università produce e offre a livello di formazione e di ricerca e quelle che sono le esigenze di sviluppo del contesto, le domande del territorio, esigenze e domande che richiederebbero di essere suscitate, sostenute, organizzate, con specifiche politiche di intervento. Come l'esperienza insegna l’incontro non è  mai automatico. Le conseguenze di questo gap  sono molteplici. Ne richiamiamo soltanto una, oggi di drammatica evidenza.
 
Molti giovani talenti formati nelle nostre Università non vedono altra alternativa che emigrare  altrove o essere sotto utilizzati in soluzioni di ripiego. Non sono cioè una risorsa su cui investire per un salto di qualità a livello tanto locale quanto nazionale. Del pari, quanti potenziali imprenditori ci sono nei nostri laureati? Soltanto non sanno da che parte cominciare.  In questa ottica occorre rilanciare con forza e con mezzi adeguati l'attività di intermediazione al lavoro che la legge assegna alle Università. Occorre altresì puntare sull’apprendistato per l’alta formazione coinvolgendo con l'Università la responsabilità delle imprese.
 
Tutto questo però non basta. Migliorare il sistema universitario è certamente indispensabile, ma da solo – come affermato in una recente ricerca della Fondazione CRUI –  non porterà alla soluzione dei problemi relativi alla presenza di un apparato produttivo che non riesce adeguatamente ad innovarsi e ad investire nei settori portanti dell'economia.  Occorre  quindi attivare a livello di politica industriale una sinergia tra sistemi formativi e base produttiva del nostro Paese. L'Italia, per essere competitiva, non deve costare di meno ma valere di più
 
Dai molti bloccaggi nei rapporti tra città, territori e Università, occorre passare a una comune visione strategica. In questa prospettiva le Università dovrebbero sfruttare l'opportunità che è data loro dalla riforma statutaria in applicazione della legge Gelmini. Il superamento delle facoltà con la creazione delle  scuole, la rifondazione dei dipartimenti, l'integrazione tra didattica e ricerca, i nuovi assetti di governance  possono rappresentare l’ occasione per una profonda innovazione culturale. Occorre pertanto vincere la tentazione di gestire la riforma statutaria in un’ottica burocratica, nella salvaguardia delle posizioni acquisite, con gli occhi rivolti al passato e non al nuovo che va costruito. Le carte hanno da essere profondamente rimescolate. Sotto questo profilo la riforma dello statuto non è una questione di bottega ma riguarda l'intera comunità di cui il singolo Ateneo fa parte. E ciò per il fatto che l'Università e la società territoriale di appartenenza hanno bisogno l'una dell’altra nell’ambito di un patto per il futuro.
 
La città, nelle sue molteplici dimensioni, deve vedere nella sua Università un bene comune, una risorsa preziosa da salvaguardare, stimolare, sviluppare. L'Università a sua volta deve confrontarsi e darsi carico, per la sua parte, della crescita culturale, sociale, economica della città. L’Università può fare molto per allargare i giochi dal locale al globale. Allargare i giochi saldando progresso economico e sviluppo civile, collocando i problemi scientifici e tecnologici nelle loro più ampie coordinate culturali, arricchendoli di contenuti capaci di andare al di là della sola competitività, per altro indispensabile, per investire i grandi temi della qualità della vita e di assetti sociali più giusti.
 
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Un ampio e diversificato ventaglio di argomenti, molti dei quali presentati da giovani studiosi, caratterizza  questo nuovo numero di Impresa Progetto. Electronic Journal of Management. Per Gianfranco Rusconi, il cui studio apre la sezione saggi della Rivista, la cultura economico aziendale italiana può dare un contributo originale in tema di stakeholder management. In questa prospettiva è indispensabile chiarire lo statuto epistemologico della teoria sottostante  in rapporto sia all'intersezione tra etica e business sia alle molteplici dimensioni della funzione obiettivo dell’impresa sia alla visione di capitalismo che discende dal managing for stakeholders.
 
Il saggio di Clementina Bruno si misura con il problema della valutazione economica dei processi di integrazione vertiale e orizzontale nell'ambito dei servizi di pubblica utilità. La rassegna della letteratura e delle ricerche empiriche, condotta in maniera puntuale ed efficace, evidenzia diversità di approfondimento da comparto a comparto e soprattutto non sembra assumere adeguatamente il rapporto tra integrazione e qualità del servizio – di cui sono evidenziati i possibili indicatori – reso al consumatore. Aspetto questo di cruciale importanza e sul quale concentrare l’attenzione nel prossimo futuro.
 
Rimanendo in tema di servizi pubblici il contributo di Canonico, De Nito, Mangia, Mercurio, Pezzillo Iacono affronta la questione dei modelli di governance nell’ambito del trasporto pubblico locale. La griglia interpretativa utilizzata per analzzare i rapporti tra ente pubblico e fornitore del servizio è quella dell'economia dei costi di transazione. Dall'applicazione di tale griglia a tre specifiche differenziate situazioni locali (Roma, Genova, Trieste) risulta confermato l'allineamento tra il disegno organizzativo dei sistemi di trasporto locale e i modelli che discendono dall’approccio dell'economia dei costi di transazione.
 
Annalisa Cocchia e Renata Paola Dameri, nel loro saggio, affrontano una tematica di grande attualità viste le misure di “spendig review” prese dal Governo Monti. Il miglioramento della qualità dei servizi offerti dal Sistema Sanitario Nazionale  congiuntamente alla razionalizzazione e contenimento della spesa possono trovare nell’investimento in ICT uno strumento fondamentale, a patto che l'investimento venga adeguatamente valutato. Al riguardo gli Autori, dopo averne richiamato le basi teoriche, presentano una specifica metodologia, adottata con successo, che tiene conto sia  della molteplicità degli obiettivi perseguiti sia dell’eterogeneità dei portatori di interessi coinvolti.
 
Il trade off tra integrazione verticale e accordi strategici tra imprese risulta cruciale nel settore delle biotecnologie. In tale settore la gestione dell’innovazione, caratterizzata da complementarietà e modularità, si pone come fattore fondamentale di competitività. Il saggio di Alessandro Basile va al cuore della questione analizzando, anche attraverso il confronto tra la situazione statunitense e quella europea, il ventaglio delle opzioni strategiche e i relativi parametri di valutazione. Monica Cugno, a sua volta, applica una specifica metodologia quantitativa (local indicator of spatial association) allo studio del distretto dei vini delle Langhe, Roero e Monferrato con l’intento di approfondire il legame tra competitività, governance, valorizzazione delle vocazioni locali. Le implicazioni  che ne discendono in tema di collaborazione tra imprese e istituzioni per lo sviluppo del territorio appaiono  di sicuro interesse.
 
Gli interventi di Dario Velo e di Giovanni Padroni aprono e qualificano la sezione “contributi e working paper” della Rivista. Dario Velo propone una lettura del processo di integrazione europea nell'ottica della crisi e delle opportunità. Trattasi di due elementi, tra loro strettamente connessi, sui quali si sta oggi giocando il futuro politico ed economico dell'Unione. In questa prospettiva la politica industriale può favorire sviluppo e coesione. Di tutto ciò il settore dell’energia costituisce una fondamentale cartina di tornasole.
 
Per Giovanni Padroni l’ambiente fisico e quello immateriale, l'estetica e l'etica  costituiscono una unità con al centro la persona che fa procedere insieme l'uomo "faber" e l'uomo "ludens" in un progetto nel cui ambito la bellezza assume anche un grande valore economico perché il bene e il bello sono potenti leve di successo per lo sviluppo, non solo turistico ma anche integrale, di tutto il territorio. Il tema del turismo nel quadro della crescita sostenibile viene ripreso da Paola Paniccia nel suo paper che analizza il fenomeno dell'albergo diffuso, inteso come nuovo e originale modello di ospitalità alberghiera, coerente con la valorizzazione del territorio, la responsabilità dell'impresa, l'emergenza di modalità di consumo innovativo in sintonia con l'ambiente naturale e storico.
 
Per Silvano Guelfi una misura esaustiva del rendimento di un investimento di impresa deve integrare creazione di valore corrente e creazione di valore strategico, proiettato nel futuro. Nel paper l'assunto viene suffragato con un'appropriata verifica empirica. Il contributo di Irena Bakanauskiené e di Mindaugas Ubartas, muovendo da una ricerca svolta in una delle maggiori imprese di telecomunicazioni lituane, si concentra sui cambiamenti nelle dinamiche motivazionali dei lavoratori in situazioni caratterizzate da crisi e recessione valutando altresì il loro atteggiamento nei confronti dell’equità retributiva.
 
Meritano infine di essere segnalate le due interviste che compaiono in questo numero di Impresa Progetto. La prima intervista, condotta da Angelo Gasparre, è con P.Christie S.J. direttore del Loyola Institute of Business Administration di Chennai, una delle più importanti business school indiane. P.Christie è membro del comitato scientifico della Rivista. La seconda intervista, condotta  da Andrea Caputo, è con Wafa Abou-Zaki, direttore esecutivo del programma di ricerca sull'apprendimento sociale e organizzativo nell’ambito della George Washington School of Business di Washington DC. Entrambi gli intervistati, operanti in realtà profondamente diverse, affrontano il tema dell’educazione economica e manageriale in questo tempo di crisi e nell’ottica della globalizzazione. Gli stimoli che ne discendono ci sembrano particolarmente significativi.