Ora lo si chiama lavoro "ibrido"

Editoriali
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10.15167/1824-3576/IPEJM2022.2.1489

È oramai una tradizione, per chi scrive, dedicare lo spazio di questo editoriale al tema del lavoro. La sua oggettiva rilevanza (per la vita personale e per il sistema socioeconomico) e le trasformazioni che lo accompagnano (che necessitano di essere capite ed approfondite) lo rendono argomento troppo importante per non tornarci su, ogni tanto, con qualche riflessione, utile (sperabilmente) al dibattito che (giustamente) lo circonda.

Per questa continuità vale la pena richiamare brevemente le puntate precedenti. Il focus è sullo smart working: ad esso era dedicato l’editoriale n. 3 del 2015 – intitolato “Tutto è smart … anche il lavoro”, che prendeva spunto dalle previsioni di un significativo sviluppo che questa modalità avrebbe avuto da lì a poco, in forza della crescente pervasività degli strumenti mobile e cloud e della digitalizzazione di un numero in costante incremento di applicazioni professionali, per ragionare sulle caratteristiche e sulle aspettative che stava aprendo. Ma anche per segnalare quanto fosse ancora argomento di nicchia e prassi per pochi.

L’editoriale n. 3 del 2016, che aveva come titolo “CONNESSI O NON CONNESSI? THAT IS THE QUESTION….”, vi era collegato, in quanto andava a toccare una questione ancora oggi all’ordine del giorno nella gestione di questa modalità lavorativa. Esso era infatti incentrato sul tema del diritto alla disconnessione, una delle possibili criticità nel ricorso a forme di organizzazione del lavoro che si possono ricondurre allo smart working (tanto da essere infatti uno dei punti specificamente richiamati nella normativa in argomento emanata poi nel 2017, la legge n. 81 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato”), che da subito si è manifestata e che ancora oggi costituisce nota dolente delle esperienze fatte mettendo a rischio la possibilità di un necessario distacco dal lavoro svolto con il supporto delle tecnologie.

Infine, l’editoriale del n. 1 del 2020 rifletteva sul ruolo che lo smart working stava giocando all’interno del contesto pandemico per tentare qualche considerazione su cosa avrebbe potuto caratterizzare il “dopo” (e titolava infatti “SMART WORKING: SOLUZIONE AD OGNI EMERGENZA? PROSPETTIVE OLTRE L’EMERGENZA”). Se le valutazioni sulla sua utilità e sull’ efficacia, durante il lockdown e nelle fasi più difficili della gestione del Covid-19, potevano e dovevano essere misurate rispetto alla specifica situazione (dove il riferimento era al poter lavorare nonostante tutto, anche se spesso in condizioni difficili, minimizzando i contatti a rischio contagio), si sottolineava come nel percorso verso il dopo occorresse capire bene cosa fare per far sì chi le potenzialità (indubbiamente presenti nel modello organizzativo) potessero tradursi in benefici effettivi per tutti i soggetti coinvolti.

 

Ora quel “dopo” sta arrivando, con molte incertezze, ma ci siamo. E ci si sta abituando a definire quel “dopo” come new normal, dove l’aggettivo new ci ricorda che la ‘normalità’ così (comprensibilmente) desiderata sarà comunque diversa da quella cui eravamo abituati. Infatti, si dà per scontato da più parti che in questo new normal modi di lavorare “non convenzionali” (pur variamente etichettati) dovranno avere uno spazio (maggiore che nel passato pre-pandemico), non solo perché lo smart working (o meglio il lavoro agile) viene richiamato da numerosi provvedimenti governativi emanati per fronteggiare la situazione ed è stato più volte rilanciato nella direzione di facilitarne l’utilizzo, ma soprattutto perché ad esso hanno fatto ricorso (stanno facendo ricorso o stanno pensando di normalizzarne il ricorso nel prossimo futuro) realtà produttive di ogni tipo e dimensione - alleata una narrazione (diffusa e rilanciata sui media di ogni genere, a riprova di quanto il tema tocchi la quotidiana vita delle persone) che prospettava facili e rapide soluzioni e che ne ha esaltato benefici (sicuramente evidenti nella situazione di emergenza, un po’ meno nel prosieguo) forse troppo semplicisticamente descritti alla portata di tutti. Queste realtà ora si interrogano sul se e come ripartire, su come imparare dalle esperienze avute, su come correggere il tiro laddove queste apparissero non proprio esaltanti (fatto reale e frequente), su come migliorare comunque anche quelle che poi tanto male non hanno funzionato (ma che potrebbero farlo ancora meglio, se opportunamente preparate e gestite).

 

Insomma, sul fatto che non si torni tout court al modello organizzativo “del prima” (che sinteticamente si può definire quello del lavoro in presenza), sembrerebbe che di dubbi ne restino pochi. O forse no? Se si esce dai salotti buoni delle note aziende che fanno tendenza e dai convegni nei quali si rilanciano le best practices e ci si addentra nel vario ed affollato mondo di quelle che costituiscono l’ossatura del sistema produttivo italiano, ci si accorge che il panorama è davvero a luci ed ombre. Ad aziende nelle quali l’utilizzo dello smart working è stato apprezzato, se ne affiancano altre nelle quali problemi e criticità hanno superato di gran lunga i benefici. Ed in queste che molti dubbi permangono, sullo sfondo uno scetticismo non facile a smontarsi.

 

Certo, sul fronte degli scettici, qualche presenza autorevole ed ingombrante è apparsa a dare voce, in maniera certamente provocatoria, a chi, i dubbi, li ha. All’inizio dell’estate è stato Elon Musk, il CEO di Tesla e di SpaceX, ad esternare quello che – non pochi, a dire il vero - pensano di questa modalità lavorativa e del suo uso per così dire spinto. Lo ha detto alla sua maniera, senza “peli sulla lingua” con il consueto stile che oramai ben si conosce. In sintesi: Musk ha ribadito che “si lavora in ufficio”, nella sede in cui i compiti di ciascuno sono realmente efficaci (e non in una qualsiasi sede aziendale, dove in molti casi è consentito andare in modalità smart working), per almeno 40 ore alla settimana (anche se, magnanimamente, nella sua comunicazione veniva precisato che “se ci sono collaboratori particolarmente eccezionali per i quali questo è impossibile, esaminerò e approverò direttamente queste eccezioni"). Alla richiesta di chiarimenti su questa indicazione, a partire dalla premessa che lavorare in ufficio viene oramai ritenuto “antiquato”, Musk ha replicato che coloro che la pensavano in questo modo avrebbero dovuto iniziare a considerare di andare lavorare da un’altra parte. E per completare il proprio punto di vista, il nostro ha anche sottolineato che più è alto il livello occupato in azienda, più la presenza deve essere visibile.

Insomma, messaggio molto chiaro - quello dell’imprenditore canadese - cui dubbiosi e scettici si sono accodati per rilanciare le perplessità che questo modo di lavorare suscita, spesso cogliendo l’occasione per evitare la fatica di cercare di capire da dove nascano i problemi e se invece non possa essere una strada da seguire ed a quali condizioni. Peraltro, ad inizio di questo 2022 Microsoft ha svolto una ricerca intervistando oltre 31.000 lavoratori, da cui è emerso che circa il 50% delle organizzazioni per le quali lavorano ha previsto di far tornare in presenza a tempo pieno i propri collaboratori per il prossimo anno (mentre il 52% degli intervistati ha affermato di preferire una soluzione che preveda alternanza tra luoghi di lavoro), a conferma del fatto che la convinzione che i lavoratori siano fisicamente presenti in azienda abbia un significativo rilievo, convinzione che sarebbe troppo semplice liquidare come espressione di una cultura superata.

 

È anche vero che, sul lato opposto occupato dai sostenitori dello smart working, le perplessità troppo spesso sono state velocemente silenziate, cavalcando l’onda dell’entusiasmo che il solo riferimento allo smart working assume. C’è infatti un filone mainstream, che lo considera una prospettiva non solo ineluttabile (in primis per il ruolo abilitante della tecnologia, il cui progresso rapido viene interpretato come il segnale forte a sostegno del cambiamento nel lavoro), ma assolutamente desiderabile verso questo modo di lavorare che per definizione è “migliore”. Non a caso, il richiamo è alle riflessioni di Clapperton e Vanhoutte, che nel loro best seller del 2014 “Il manifesto dello smarter working”, lo proponevano come ‘la’ risposta alle domande su “dove, come e quando lavoro meglio?”, sottovalutando il fatto che forse anche altre riposte possono essere date dai lavoratori - che magari, come alcuni studi segnalano, possono preferire il lavoro in presenza.

 

Non si deve quindi dimenticare che dietro all’approccio un po’ rozzo e sensazionalistico di Musk, che tanta eco ha avuto sui media proprio per la posizione estrema e provocatoria che esprime, si celano questioni importanti che potrebbe essere utile approfondire nel percorso verso l’agognato ritorno alla ‘normalità. Quella nuova, da immaginare, costruire e far funzionare, a partire dall’ambito lavorativo.

 

Sicuramente, l’introduzione dello smart working nei primi anni ha seguito un andamento meno dirompente di quanto i suoi antesignani avessero previsto, anche a legge emanata. In questa fase, lo smart working funzionava più o meno così: qualche giorno a settimana (uno, due, raramente tre) poteva essere lavorato in un luogo diverso dalla sede di assegnazione (prevalentemente la propria abitazione, ma anche altra filiale), a valle della formalizzazione - obbligatoria per legge - di un accordo tra lavoratore ed azienda, che presupponeva in primis l’approfondimento della natura ‘telelavorabile’ delle attività da svolgere e quindi la ridefinizione delle modalità organizzative alla base di queste (obiettivi, procedure, strumenti e relazioni, insomma). Dietro al suo utilizzo, c’era quindi un lavoro di analisi dei contesti e dei contenuti del lavoro che aveva suggerito le modalità organizzative e le condizioni da predisporre in maniera da favorirne un uso positivo.

 

L’arrivo della pandemia e la spinta (supportata da semplificazione burocratica) a ricorrere allo smart working in maniera massiccia ne hanno favorito la sperimentazione in moltissime aziende che, in condizioni normali e per loro stessa ammissione, si sarebbero avvicinate con cautela (spesso per una aprioristica diffidenza). Certo, il ricorso a questa modo di lavorare è stato fatto in modalità spinta (tutti i giorni), per cui ciascun lavoratore si è creato il proprio ambiente di lavoro dove poteva (negli spazi più o meno limitati di casa, in difficile convivenza con i familiari o in solitudine, oppure in località amene, che fossero luoghi di vacanza o di origine – per i quali cui è stata coniata l’espressione south working) lavorando in condizioni molto diverse quanto a capacità di gestire contenuti e relazioni e quanto a disponibilità di supporti (tecnologici ma soprattutto organizzativi), a seconda del grado di familiarità posseduto con lo smart working. Tutto questo ha portato a risultati assai differenziati. Però è stato provato, anche dai più restii, e non pochi (lavoratori ma anche aziende) hanno potuto apprezzarne le potenzialità, liberandosi almeno di qualche pregiudizio.

 

Ora è pertanto possibile partire dalle esperienze fatte (di qualunque segno siano) per analizzarle, giudicarle e decidere se e come continuare non per un’aprioristica difesa di posizioni preconcette, ma come esito di valutazioni contestualizzate. E pare che, in Italia, molte aziende stiano decidendo di continuare in questa direzione, fatto comprovato, ad esempio, dal numero degli accordi aziendali che si stanno concludendo in questi mesi e che definiscono le ‘regole’ basiche per il suo utilizzo (un censimento svolto dal gruppo di lavoro di AIDP- Associazione Italiana per la Direzione del Personale dedicato a “Innovazione e futuro del lavoro” ne ha collezionati oltre 50). Peraltro, un’indagine - condotta dal Centro Ricerche della stessa AIDP nella primavera del 2022 e a cui avevano risposto 850 direttori del personale - aveva già messo inevidenza l’irreversibilità della strada intrapresa: l’indagine evidenziava come il 90% delle aziende rispondenti consideri questa modalità definitivamente acquisita, anche a partire dal fatto che quasi il 58% tra dipendenti e neo-assunti lo sollecita come parte essenziale delle condizioni lavorative richieste. Dalla stessa indagine si poteva evincere che nel 38% delle aziende del campione i dipendenti avrebbero potuto lavorare da remoto almeno 2 giorni a settimana e nel 14% almeno 1 giorno a settimana. Con percentuali decisamente minori ed a decrescere, l’indicazione dei giorni di lavoro remotizzato andava da 3 ai 5, fino a casi limitati che prevedevano la presenza in azienda per un solo giorno al mese. Per capire meglio lo stato dell’arte di questo orientamento, il sondaggio indagava sulle azioni messe in campo per concretizzare la possibilità: tra queste, la definizione dei requisiti di idoneità dei locali privati per corrispondere alle previsioni sulla tutela della salute e la riorganizzazione degli spazi fisici aziendali, così da renderli maggiormente adeguati ai diversi bisogni della presenza in ufficio, venivano citate come due tra le più frequenti. Certo, la gamma delle questioni da considerare per fare smart working è molto più ampia, ma queste riguardano aspetti di rilievo, comunque necessari (anche se non sufficienti) perché si possa procedere.

 

Insomma, si fa. L’evidenza delle soluzioni che sono praticate dalle aziende italiane (ma non solo italiane, a dire il vero, come documentano molti casi eccellenti di multinazionali) si riconduce alla prassi in voga nel pre-pandemia, quella appunto di una combinazione tra giornate di lavoro in presenza e da remoto. Anche se ora la nuova moda è definirlo ‘ibrido’: questa è infatti l’etichetta che appare con significativa frequenza nella narrazione di ciò che sta accadendo. La letteratura internazionale, in realtà, utilizza da tempo questa espressione e la usa proprio per identificare un modello di organizzazione del lavoro che mixa le due forme ‘pure’, quella del lavoro in presenza (modalità storica, dominante sino a pochi anni fa, in quando coinvolgeva la quota decisamente maggioritaria dei lavoratori ed il cd. smart working era affare per addetti ai lavori) e quella del lavoro da remoto (caratterizzato dall’operare da altro luogo, variamente scelto e alla base di altrettante etichette oggetto di specifica caratterizzazione). E di questo modello si sottolinea in particolare la capacità di tenere insieme in maniera virtuosa gli obiettivi aziendali di incremento della produttività (e di tutto quello che ne consegue) e quelli dei lavoratori di conciliare meglio la propria vita ed il lavoro (la famosa work-life balance, divenuta oramai uno dei temi più ricorrenti nel dibattito tra addetti ai lavori e non solo e tra le richieste che le giovani generazioni in ingresso nel mercato del lavoro formulano pressantemente). È chiaro che questi obiettivi, oltre ad essere esplicitamente citati dalla normativa italiana di riferimento (la già ricordata L. 81 del 2017, all’art. 18), costituiscono il massimo che si possa chiedere sui due lati, azienda e lavoratore. E non vanno poi dimenticate le ricadute positive sul contesto ambientale.

 

Si potrebbe dire che per meno della possibilità di perseguire questi obiettivi ambiziosi non vale la pena mettercisi. Quindi, “che ci si metta”. Ed allora, può avere senso iniziare ad approfondire la questione a partire dalla nuova etichetta e provare a rispondere a qualche domanda. Il lavoro ibrido è un ritorno al passato, che propone un restyling - di intuitivo buon senso - alla luce dell’esperienze del periodo pandemico? O è il tentativo di esprimere un modello potenzialmente diverso, a partire proprio dal giudizio che la full immersion nello smart working pieno e casalingo hai generato?

 

Alcuni studiosi da tempo impegnati su questo fronte ritengono che ciò cui stiamo assistendo sia qualcosa di più che una mediazione sul numero di giorni da distribuire tra le due alternative casa-ufficio (generando così le due opzioni office first o remote first, che suggerirebbero aggiustamenti organizzativi a supporto dell’integrazione delle due forme complementari), ma un cambiamento di respiro ampio destinato a rimettere in discussione ogni aspetto dei contesti organizzativi - processi, spazi, tecnologie, pratiche, comportamenti, dinamiche di socializzazione, modelli di leadership e cultura aziendale - e sostengono che le scelte sul lavoro ibrido determinino scopo, funzione e assetto della sede aziendale, come simbolo dell’azienda in quanto tale, comunicandone così i suoi orientamenti strategici, i valori e le logiche organizzative. In questa prospettiva si schematizza l’esistenza di cinque modelli - mainly physical, activity based, club house, hub and spoke e fully virtual - che rappresenterebbero. in una prospettiva di continuità. una progressione verso modalità lavorative sempre più smart.

Il primo dei modelli (mainly physical) è quello più prossimo alla concezione tradizionale di lavoro; a questo tendono molte aziende che hanno faticato nella fase di massimo ricorso al lavoro a distanza e che quindi mostrano alleggiamenti conservativi: la norma è che si sta in ufficio, la modalità remota è residuale e finalizzata alla conciliazione vita-lavoro dei lavoratori (che ricordi un po’ la richiamata posizione di Musk?). Prevale l’idea che occorra rafforzare il senso di appartenenza e favorire l’aggregazione e la socializzazione che non è stato possibile ricreare in forme nuove nelle modalità a distanza. Il secondo (activity based) potrebbe considerarsi come la traduzione operativa dei principi base dello smart working come lo abbiamo codificato: la scelta tra le due modalità dipende dal tipo di lavoro da svolgere, per cui quelle collaborative, creative ed innovative meglio si adattano ad essere svolte nella sede aziendale, che rafforza così la sua natura di luogo di scambio richiedendo e privilegiando gli spazi comuni. Il modello club house suggerisce che il lavoro sia prevalentemente da remoto, che la sede aziendale sia luogo identitario fondativo per condividere missione e valori; di conseguenza questa deve essere pensata coerentemente con questo scopo, ma soprattutto deve essere presidiata la maggiore complessità organizzativa che comporta e devono essere potenziate nei manager le capacità di coordinamento e di comunicazione. Nella direzione di un crescente ruolo dato al lavoro svolto fuori dalla sede aziendale va il modello hub and spoke: in questo caso, però, entrano in campo più opzioni per lavorare al di fuori (sedi dislocate altrove, spazi di coworking ….), che enfatizzano la necessità di gestire le crescenti criticità organizzative nel gestire una popolazione non attorno alla funzione o al team di appartenenza, ma con logiche mobili. L’ultimo modello (definito fully virtual) è quello che prevede il quasi totale ricorso al lavoro da remoto: l’azienda ‘fisica’ diviene luogo di rappresentanza, che necessita di spazi minori progettati per parlare con l’esterno, mentre la necessità di socializzazione tra lavoratori segue altre piste (prevalentemente outdoor). È forse il modello più vicino all’impostazione Clappertone-Vanhoute, che richiede una cultura aziendali molto spinta verso strategie di empowerment e che punta sul rafforzamento dell’engagement.

 

Come molte ricerche hanno messo in evidenza (basti pensare ad un recente articolo apparso sul numero estivo della Sloan Management Review dal titolo molto eloquente “The Loneliness of the Hybrid Worker”) qualità, frequenza e natura delle interazioni cambiano quando i colleghi sono fisicamente lontani e la loro comunicazione è assai meno dinamica e spontanea. Numerosi studi in ambito neuroscientifico hanno infatti scoperto che solo le interazioni di persona attivano l'intero set di risposte fisiologiche della persona e favoriscono una comunicazione umana ottimale, alla base della creazione di relazioni fiduciarie, mentre i canali digitali riducono la nostra capacità di elaborare informazioni condivise. Il ruolo dei manager è pertanto strategico e non totalmente garantito dall’orientamento alla cura ed alla socialità. Occorre al contrario che si sviluppino pratiche di inclusione critiche – quali il supporto alla relazione lavoro-vita, team building e rispetto reciproco. Un interessante studio sviluppato recentemente segnala che la sfida maggiore per gli odierni modelli di lavoro ibrido è quella di una gestione consapevole ai diversi livelli organizzativi. In questo senso è forse corretto di parlare di un ritorno ad un approccio del passato (che lo smart working andasse progettato, gestito e rivisitato), che dinamicamente si confronta con il salto di qualità che ha segnato gli ultimi anni.

 

Quello che in altri termini va messo in evidenza è che le diverse opzioni sono proposte che richiedono innanzitutto una personalizzazione rispetto alle caratteristiche dell’organizzazione. Ma soprattutto va evidenziato che il lavoro ibrido riafferma la dimensione relazionale del lavoro (per quanto modesta sia la parte fatta anche di fisicità che i giorni in presenza garantiscono), perché occasione preziosa occasione per dare spazio agli elementi strutturalmente umani che la scienza ci ricorda essere tali.

Per questo il tema della progettazione resta centrale: in particolare, ci si riferisce da un lato al contenuto del lavoro e dall’altro alle fondamentali variabili organizzative (in particolare l’attitudine personale, il grado di engagement, le relazioni inter-organizzative e gli stili di leadership). Solo ribadendo l’indispensabile cura di tutto quello che comporta andare nella direzione di sviluppare forme ibride ha senso ipotizzare che il lavoro ibrido funzioni.

 

Ecco che il lavoro ibrido, nato dal ripensamento di uno smart working fatto di estremi, potrà segnare una tappa nel percorso verso modelli lavorativi più adeguati, “figli” di un approccio all’organizzazione del lavoro che continui a ricordare che il lavoro è un bisogno dell’uomo, è parte di quel fenomeno costitutivo della persona viva, dato da una spinta profonda che sta dentro ciascuno. Si ripropone ancora una volta la grande sfida per un lavoro a misura d’uomo. E che sia la volta buona.

 

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Impresa Progetto continua ad esplorare, nelle sue diverse Sezioni, temi vecchi e nuovi (ri)proposti dall’evoluzione delle imprese, dell’economia e della società. In questo numero si parla di sostenibilità e di job satisfaction, di turismo e di politics industry proponendo analisi scientifiche e surveys, case studies e recensioni critiche, interviste e interventi in video.

 

La Sezione “Saggi” ospita sei papers (di cui tre in inglese) differenziati per natura e metodo di analisi (conceptual papers, case studies, surveys) e per tipo di organizzazioni prese in esame (imprese, operatori della logistica, operatori del turismo, cooperative), aventi come oggetto per la maggior parte aspetti legati alla sostenibilità, alla sua misurazione ed alla sua rendicontazione. In particolare:

  • Silvana Revellino e Shahid Ansari presentano un conceptual paper (Accounting Models between Shareholder and Stakeholder Capitalism: State of the art and New Research Perspectives) che, dopo aver sottolineato l’allineamento dei tradizionali metodi di management accounting alla logica dello shareholder value, riflette su come invece incorporarvi quella dello stakeholder value.
  • Ericka Costa e Cesare Dossi (L’approccio dialogico alla Rendicontazione Integrata Cooperativa: il framework Dial-Coore) esaminano i risultati della sperimentazione da parte di alcune cooperative trentine di un sistema di rendicontazione integrata capace di migliorare congiuntamente il dialogo con gli stakeholder, l’individuazione delle priorità strategiche e l’identità “cooperativa” dell’impresa.
  • Morchio, Carozza, Satta e Vottero approfondiscono il tema della trasformazione green in atto nello shipping con specifico riferimento al sub-settore Ferry, Ro-Ro e Ro Pax (Tecnologie e opzioni di investimento “green” nel settore Ferry, Ro-Ro e Ro-Pax). Il lavoro presenta una tassonomia degli impatti ambientali generati da queste imprese ed analizza le scelte di investimento perseguibili, in questo ambito, in chiave di sostenibilità.
  • Satta, Gianoni, Giannoni e Vitellaro (Il CSR reporting per i centri logistici: una dashboard di KPIs per la valutazione della sostenibilità) presentano un’indagine sul monitoraggio degli impatti esterni generati dagli interporti attraverso un modello ispirato alla triple bottom line e articolato su 58 KPIs specifici. Tale modello dovrebbe permettere di migliorare il rapporto con gli stakeholder e le performance di sostenibilità in un settore particolarmente esposto a tale problematica.
  • Il tema della sostenibilità ritorna anche nel contributo con cui Silvia Baiocco e Paola Paniccia (Business models for sustainability: an analisys of religious accomodtions’ evolutionary dynamics) esplorano i processi di elaborazione dei Business Model Sostenibili nell’ambito di quella nicchia del settore turistico rappresentata dalla ospitalità nelle strutture religiose. Centrali risultano i processi coevolutivi promossi da una imprenditorialità attenta ai valori della qualità della vita.
  • Martina Mori e Vincenzo Cavaliere approfondiscono invece il tema delle relazioni tra job satisfaction e performance organizzative (Making employees satisfied by giving them voice through leadership and organisational justice) a partire dal ruolo della giustizia distributiva. Sono messe in luce importanti implicazioni per le politiche organizzative sul piano delle modalità di selezione e di comportamento dei leader, da orientare alla promozione di relazioni di ascolto e fiducia.

 

Nella Sezione “Contributi”:

  • Francesca Culasso, Simona Alfiero e Cecilia Casalegno introducono alla visione di due filmati realizzati durante il Forum dell’Economia Aziendale svoltosi a Torino, tra maggio e giugno, per iniziativa della Scuola di Management ed Economia della locale Università. Il Forum aveva come tema “Merito, diversità, giustizia sociale, innovazione sostenibile”. I due filmati riguardano interviste sulle politiche ed i problemi della sostenibilità nei casi di Fontanafredda (filiera viti-vinicola) e delle attività della distribuzione organizzata (con interventi di Centromarca e di Federdistribuzione).
  • Federico Fontana aggiorna i risultati dell’analisi svolta un anno fa sull’impatto della pandemia nel settore turistico (Covid-19 e performance economiche finanziarie delle imprese turistiche – un anno dopo). Le rilevazioni permettono di confermare i risultati raggiunti in precedenza sul piano tanto dell’intensità quanto della differenziazione degli impatti nei diversi ambiti del settore.

Nella sezione “Recensioni e riflessioni” Giorgio Donna (Politica e management: le discipline manageriali possono contribuire a migliorare la qualità della politica e delle istituzioni?) propone una stimolante riflessione intorno al libro con cui Katherine M. Gehl e Michael E. Porter (The Politics Industry: How Political Innovation Can Break Partisan Gridlock and Save Our Democracy, Harvard Business Review Press, 2020) discutono dell’applicabilità alla vita politica dei principi e delle tecniche del management.  Una analogia tra Usa ed Italia (il comune declino delle capacità di governo dell’economia e della società) e le differenze nei rispettivi sistemi politici sono i punti di partenza della riflessione di Donna sul contributo di Gehl e Porter. C’è qualcuno pronto a riprendere il tema con riferimento alla specifica realtà del nostro paese?

Nella Sezione dedicata a ”L’Ospite” Nicoletta Buratti dialoga con Marco Beltrami, Presidente di AMT Spa, Azienda Mobilità e Trasporti, intorno alle prospettive di questa società che opera nell’ambito della Città metropolitana di Genova. Emerge il profilo di un’azienda che recuperando dal proprio passato il DNA della tecnologia elettrica si riprogetta intorno ai temi della multi-modalità del trasporto, di una innovazione veicolata dall’ampio ventaglio delle nuove tecnologie, della capacità di attrarre talenti e competenze, della risposta ad esigenze sempre più forti di qualità dei servizi e di interconnessione del territorio. In altri termini una azienda pubblica che progetta il proprio futuro in chiave green, nell’ottica della sostenibilità.

Nella Sezione “Segnalazioni ed Aggiornamenti” si suggeriscono materiali e streamings in tema di “Marketing and Retail” (a cura di Francesca Serravalle) e di “Sustainability Corporate Reporting” (a cura di Pier Maria Ferrando).

Buona lettura!!!

 

Bibliografia

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