Business Ethics ed etica aziendale

Editoriali
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10.15167/1824-3576/IPEJM2018.3.1157

In questo editoriale si presentano alcune riflessioni sulla diffusione, avvenuta negli ultimi decenni, di studi, discorsi e applicazioni della business ethics. Si considera in estrema sintesi il suo sviluppo come disciplina specifica, partita dagli Stati Uniti d’America, da dove si è diffusa gradualmente al resto del mondo accademico e aziendale, a cominciare dall’Europa.

Fondamentale è l’esame delle caratteristiche più generali di questa nuova disciplina e delle principali opportunità e criticità connesse alle sue ricerche ed applicazioni.

Si analizzano poi le relazioni tra lo sviluppo della business ethics internazionale e quello dell’etica dell’economia aziendale in Italia: quest’ultima, pur senz’altro collegata e in parte ispirata dalla prima, presenta alcune caratteristiche specifiche che possono concorrere a valorizzare le opportunità e ridurre le criticità della business ethics di matrice nordamericana.

In particolare si evidenzia:

  1. la presenza da circa un secolo nella tradizione italiana di studi aziendali ispirati da una visione unitaria dell’azienda;
  2. la considerazione esplicita dell’etica come uno dei fattori essenziali di sopravvivenza e sviluppo aziendale da parte di alcuni autori italiani.

Il ruolo dell’etica nell’economia aziendale potrà contribuire a migliorare il dialogo della tradizione aziendale italiana con studi ed esperienze provenienti da altre culture, il tutto entro un quadro di feconda internazionalizzazione.

 

Storia, natura e sviluppo della business ethics: cenni

Prima di tutto va evitato l’equivoco di ritenere che l’interesse esplicito per l’etica sia entrato negli studi e nella pratica aziendale con la nascita della business ethics; non è fondata neppure l’idea, più stereotipo che teoria, della gestione imprenditoriale come amorale. Quest’ultimo concetto è stato confutato nei primi testi universitari USA di business ethics degli anni ’80 e ’90: l’etica in qualche modo è sempre stata presente e la a-moralità del business, cioè il suo essere “fuori” (né morale, né immorale), non è fondata sulla realtà. Anche chi (come Carr, 1968, riprodotto 1993) contesta l’applicazione dell’etica al business, parla di rifiuto della morale privata personale, sostenendo che il business per dare ricchezza e benessere deve avere le regole proprie di un gioco duro e senza scrupoli morali, con adozione di comportamenti che in altro contesto potrebbero essere definiti non amorali, bensì immorali, e riconoscendo che ciò provoca conflitti di coscienza, sensi di colpa e disturbi psicosomatici.

Nell’ambito del pensiero economico l’etica è sempre stata presente, magari in forma embrionale o implicita, anche in relazione al modo di “commerciare e produrre” nelle varie epoche storiche ed alle priorità date dagli studiosi del tempo. Aristotele accenna alla gestione economica nell’Etica Nicomachea, mentre S. Tommaso dedica varie pagine di una delle sue Summae all’etica nell’economia, per non parlare degli ammonimenti morali religiosi di Luca Pacioli al futuro mercante. Del resto Adam Smith auspica per il benessere collettivo il libero mercato in un contesto di soggetti che perseguono il proprio self-interest, ma scrive anche la teoria dei sentimenti morali, che potrebbe fornire una cornice etica all’azione di business.

Tra i contemporanei il liberista radicale, premio Nobel per l’Economia, Milton Friedman scrive che unico dovere sociale del manager di un’impresa societaria privata è massimizzare il profitto per i suoi azionisti, ma nel rispetto della legge e dei costumi correnti (Friedman, 1970).

La cosiddetta teoria dell’amoralità del business sembra pertanto derivata prima di tutto da un fraintendimento del processo di autonomia dell’economia e del business dalla filosofia morale avvenuto nell’età moderna, come del resto è avvenuto quando, all’epoca di Galileo e Newton, la fisica stessa si è resa autonoma dal pensiero filosofico: l’idea dell’amoralità del business e dell’economia in genere confonde l’autonomia nella ricerca e nella competenza disciplinare specifica con la separazione assoluta dall’etica.

Al nascere di ricerche e studi sulla business ethics (e sulla connessa responsabilità sociale d’impresa), vi è negli Stati Uniti d’America anche chi teme che la business ethics sia in realtà un modo di contrastare il capitalismo e il business da parte chi non può più sostenere visioni alternative dal punto di vista politico ed economico dopo il successo mondiale del sistema di mercato capitalistico (Stark, 1993).

Ai tempi attuali lo sviluppo della business ethics (e della connessa Corporate Social Responsibility, da qui in poi CSR) sembra comunque avere superato, anche nel più comune esprimersi di molti studiosi e manager/imprenditori, sia la teoria dell’amoralità, che la negazione o il ruolo sovversivo della business ethics.

La nascita e la diffusione della business ethics come disciplina specifica, con cattedre, riviste scientifiche, associazioni di ricerca, è stata molto stimolata da alcune situazioni critiche, come lo scandalo Lockeed (tangenti pagate da questa impresa aeronautica statunitense ad importanti leader politici stranieri in relazione all’acquisto di aerei militari da trasporto C130) avvenuto all’inizio degli anni ’70, che, unitamente ad altre operazioni, stavano facendo calare a picco, proprio negli USA, la fiducia nel mondo delle imprese di grandi dimensioni.

Dagli anni ’80, note business school e università USA hanno inserito la business ethics come disciplina specifica: si pensi al Dipartimento di Legal Studies and Business ethics della Wharton Business School di Philadelphia ed all’Università San Thomas di Minneapolis, che dispongono di un notevole numero di full, associate e assistant professor di questa disciplina.

Anche l’Europa istituisce in seguito cattedre universitarie sull’etica d’impresa: in Italia ciò si verifica a partire dalla riforma universitaria del 2000, che ha inserito esplicitamente “etica aziendale” nell’ambito delle materie aziendali.

A questo punto sono necessarie alcune riflessioni sui risultati della diffusione di questa nuova disciplina.

 

Opportunità e criticità degli sviluppi della business ethics

Opportunità

  1. propone un pensiero di base che previene le possibili confusioni sulla responsabilità sociale d’impresa e sulla sua rendicontazione sociale/di sostenibilità;
  2. contrasta la “frammentazione” di vita e coscienza della persona e dei gruppi umani nelle loro attività di business.

 

Più in dettaglio:

  1. a prescindere dalle diverse visioni sugli obiettivi e le modalità della gestione, appare chiaro che, via via che un’azienda introduce etica e responsabilità sociale tra i suoi obiettivi/vincoli, l’etica esce dal ruolo di “limite esterno” al perseguimento dell’obiettivo economico-finanziario, fino a venire considerata un fattore di sopravvivenza/successo (Coda, 1989 e 2010);
  2. qualunque sia la ragione, anche puramente opportunistica, per cui un manager/imprenditore decide di porre in modo esplicito e consapevole l’etica nell’ambito delle variabili da considerare nelle sue decisioni, ciò lo aiuta anche sul piano competitivo, perché tende a migliorare la sua conoscenza del mondo in cui opera, a comprendere più a fondo il modo di pensare ed agire dei suoi attuali o potenziali clienti e finanziatori e di tutti gli stakeholder in genere, che sarebbe miope ridurre unicamente alla figura dell’”homo oeconomicus”, utilizzato per costruire modelli astratti con il preciso compito di approssimare la realtà per poterne analizzare alcuni aspetti.
  3. La CSR è sovente definita ed attuata in modo non univoco, soprattutto nelle motivazioni e basi concettuali, ed oscilla tra visioni più o meno filantropiche e, all’opposto, puramente burocratiche di conformità a regole, magari non condivise interiormente. In entrambi i casi il rischio è di attuare una possibile copertura del bad management, circostanza enfatizzata da Friedman (1970) nella sua critica alla CSR. L’approfondimento dei fondamenti etici della CSR e delle reali motivazioni di chi dichiara di essere socialmente responsabile rappresenta un essenziale contributo della business ethics ad un suo corretto e fruttuoso sviluppo.

Una considerazione integrata di etica e business contribuisce anche ad evitare quella “scissione etica” della personalità del manager/imprenditore che Carr (1968 e 1993) considera un doloroso ma inevitabile prezzo da pagare nel business.

 

 

Criticità

  1. le vicende degli ultimi due decenni mostrano che, nonostante la business ethics si sia sviluppata anche come reazione agli scandali degli anni ’70, non si sia riusciti ad evitare gravi problemi;
  2. incombe il rischio dell’(ab)uso dell’etica soprattutto come puro strumento d’immagine e di vantaggio concorrenziale;
  3. è possibile una strumentalizzazione per operazioni di greenwashing;
  4. ci si può trovare in presenza di diverse visioni etiche;
  5. va tenuto presente il rapporto tra etica e legge;
  6. la natura interdisciplinare della business ethics comporta il rischio di visioni irrealistiche o superficiali, con conseguente possibile inefficace incidenza operativa, dato che la conseguenza è una perdita di contenuto, sia per l’etica che per la gestione (in proposito vedi Elms et al., 2010).

 

Più in dettaglio:

  1. la diffusione di corsi, ricerche ed applicazioni di business ethics e CSR non ha impedito che dagli anni ’80 in poi si verificassero gravi casi di illegalità o di gestione poco responsabile anche da parte di aziende che erano state solerti a predisporre codici etici. La stessa crisi finanziaria nata negli USA (poi divenuta crollo industriale in alcuni Stati, Italia in particolare) è stata in buona parte legata ad avventurismo (quando non peggio) nelle gestioni finanziarie: non vi è da stupirsi che chi si fosse avvicinato alla business ethics solo dal nuovo secolo potesse erroneamente pensare che tale disciplina si fosse sviluppata come reazione a casi come Enron o Worldcome;
  2. la reale attuazione delle finalità della business ethics viene travisata dall’ uso strumentale che di essa può essere fatto. Il già citato lavoro di Carr aveva evidenziato che il rifiuto dell’applicazione dell’etica privata al business non comporta la negazione di comportamenti fedeli all’etica corrente privata se ciò conviene al successo di business nel breve o lungo periodo. Con chiarezza esemplare Carr ha dichiarato che ciò non è etica nel senso corrente, ma puro rispetto delle regole del gioco del business.
  3. più sottilmente subdole sono le operazioni di greenwashing, letteralmente “lavaggio verde”, in base alle quali si scegliere un comportamento etico (o coerente con la CSR) verso un determinato stakeholder per “coprire” scorrettezze, anche gravi, verso altri interlocutori. Gli stessi Sustainable Development Goals (da ora in poi SDGs) del Global Compact delle Nazioni Unite potrebbero diventare fonte di greenwashing se rispettati in modo parziale e squilibrato nei riguardi dei diversi stakeholder convergenti nell’attività d’impresa. La business ethics, soprattutto in certe sue versioni come lo Stakeholder Management o la stessa applicazione della Dottrina Cattolica del Bene Comune, evidenzia come chiave del ruolo etico, non tanto le meritevoli (e criticate da Friedman (1970) come tassazione impropria e illegittima imposta agli stakeholder) azioni e programmi di responsabilità sociale (dalla filantropia a progetti comuni contro alcolismo e povertà), quanto il comportamento dell’impresa verso “tutti” gli stakeholder. Ciò mette indirettamente in guardia dall’uso d’immagine e/o greenwashing dell’impegno solo verso alcuni degli SDGs rispetto ad altri più direttamente implicanti doveri etici della specifica attività d’impresa;
  4. la presenza di differenti visioni etiche (connesse più o meno direttamente a diverse concezioni religiose e di politica economico-sociale), unita alla globalizzazione economica e finanziaria, implica un confronto fra posizioni diverse, che ovviamente complica le decisioni manageriali/imprenditoriali;
  5. il Green Paper della Commissione Europea del 2001 afferma che la CSR inizia dove finisce l’obbligo di legge. Conseguentemente in uno Stato in cui il controllo della legalità funziona adeguatamente, il rispetto della legge potrebbe essere assicurato anche in assenza di principi etici: questi ultimi sarebbero necessari solo per applicare in modo volontario la CSR.

L’impossibilità di regolamentare tutto per legge, il rifiuto di uno stato totalitario che impone una certa etica per legge togliendo ogni spazio a scelte private, la possibilità che in alcuni contesti il controllo di legalità non funzioni adeguatamente, portano a due conclusioni importanti per la business ethics:

-il valore etico in sé del rispetto della legalità;

-l’esistenza di una “zona grigia” in cui l’etica individuale (e aziendale) si esprime come dovere anche al di là della legge.

  1. L’ultima criticità riguarda la natura interdisciplinare dell’etica d’impresa, disciplina verso cui convergono in primo luogo filosofi, studiosi dell’area economico-aziendale e di economia politica, ma anche sociologi, giuristi, teologi morali e altri.

Negli USA, e in parte in Europa, la business ethics fu affrontata dall’inizio soprattutto da filosofi, con il rischio di avere un’etica fuori dal business per i filosofi puri ed un business senza solide basi etiche negli altri. Negli ultimi anni questo divario si sta in parte colmando, anche grazie alla teoria/e degli stakeholder.

 

Concludendo si può affermare che, nonostante le criticità sopraesposte che vanno tenute presenti, lo sviluppo della business ethics e della connessa CSR ha portato ad una maggiore consapevolezza generale da parte di istituzioni e aziende. Ciò è testimoniato:

- in campo istituzionale e pubblico, dai vari documenti presentati sin dall’inizio del secolo dalla Commissione Europea e dalla nascita, sviluppo e influsso delle proposte del Global Compact delle Nazioni Unite sugli SDGs, oltre che dalla direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2014, recepita nell’ordinamento italiano dal decreto legislativo sulla comunicazione non finanziaria n.254 del 2016 (entrato in vigore dal 1 gennaio 2017);

- in campo privato e non profit, dalla diffusione dei bilanci sociali/di sostenibilità e dei loro standard proposti da vari centri di ricerca, a cominciare dal Global Reporting Initiative (GRI), internazionale e diffuso tra le grandi imprese, e dal lavoro del Gruppo di Studio per il Bilancio Sociale (GBS), in Italia.

 

Rimane da considerare il rapporto della business ethics con l’economia aziendale italiana, soprattutto per mostrare i contributi che la seconda può offrire alla prima.

 

 

Discipline aziendali italiane e business ethics: i contributi attuati e possibili della tradizione italiana di economia aziendale ai fondamenti e sviluppi della business ethics

Se si pensa ai Maestri italiani dell’economia aziendale non si trova una qualche idea precisa sull’amoralità del business (vedi in proposito nella letteratura internazionale: Coronella e altri, 2018; Signori e Rusconi, 2009 e Rusconi, 2018). Alcuni “classici” dell’economia aziendale hanno peraltro inserito nel loro discorso un preciso inquadramento etico (Masini, 1964 e 1974).

Da vari studiosi italiani di economia aziendale l’etica non solo è vista come indicazione di limiti morali da non violare, ma anche come un fattore di equilibrio e successo imprenditoriale (Coda, 1989 e 2010).

Da quando chi scrive iniziò ad occuparsi di etica aziendale nella prima metà degli anni ’90 sono nati e si sono sviluppati anche nel nostro Paese diversi eventi interessanti.

Nel mondo accademico e del business si tengono corsi, convegni, pubblicazioni e conferenze sull’argomento e soprattutto la responsabilità sociale d’impresa è diventata tema molto dibattuto

Fondamentale è stata la riforma universitaria del 2000, che ha inserito nella declaratoria del settore disciplinare Economia aziendale “Etica aziendale e bilancio sociale”; ciò ha permesso l’avvio di insegnamenti specifici nei corsi di laurea triennale e magistrale, di master e di dottorato di ricerca.

I codici etici aziendali non solo sono diffusi dagli anni ‘90, ma sono divenuti di diritto o di fatto obbligatori in molte istituzioni, profit e no, private o pubbliche.

Il già citato decreto legislativo italiano sulla comunicazione non finanziaria, lo sviluppo dei bilanci sociali/di sostenibilità e degli integrated report presentano un grado di implicita accettazione di alcuni principi di etica d’impresa, nonostante talora si rapportino fra loro in modo un po’ diverso, sia per contenuto, sia per quanto riguarda gli stakeholder di riferimento finale dal punto di vista dell’informativa.

Tutto ciò ha contribuito ad aumentare la consapevolezza delle responsabilità e opportunità che sono connesse allo studio ed applicazione dell’etica aziendale; va inoltre riconosciuto il grande merito degli studi internazionali di business ethics di avere fornito alla nascente etica aziendale una grande quantità di spunti di discussione, materiali di approfondimento, proposte e modelli su cui riflettere, a cominciare dalle teorie sviluppate dal pensiero economico, filosofico e religioso, in particolare dallo Stakeholder Management come idea per meglio collegare e rendere sinergici etica e business.

 

L‘etica aziendale italiana può dare un forte contributo allo sviluppo solido e ben fondato agli studi e applicazioni internazionali di business ethics.

La concezione unitaria dell’azienda, che emerge in modo più o meno marcato dalla tradizione di studi economico-aziendali italiani da Zappa in poi, può efficacemente evitare l’adozione di visioni riduttive (fino al greenwashing). Se si parla infatti di etica dell’intero sistema aziendale, non è possibile ridurre business ethics e CSR a singole “iniziative di azione sociale”. La visione sistemica dell’economia aziendale italiana si può avvicinare così al concetto di “valore condiviso” molti anni prima dello “shared value” di Porter e Kramer (2012) e un po’ prima dello “stakeholder value” di Freeman e altri (2010).

Tale impostazione unitaria può contribuire ad allargare l’impianto concettuale degli studi di business ethics, in particolare di una delle sue scuole come lo Stakeholder Management, coinvolgendo in essa in modo più attivo tutti gli stakeholder.

Già una decina di anni fa si metteva in luce nell’ambito della business ethics, ma limitatamente al comportamento dei dipendenti verso l’azienda (Goodstein e Wicks, 2007), che esiste anche una responsabilità dei singoli stakeholder verso l’insieme dell’istituzione. Questo spunto di riflessione si può estendere al più generale senso di responsabilità dei singoli stakeholder verso gli altri che convergono, in modo diretto o indiretto, nell’azienda.

La maggiore responsabilizzazione etica degli stakeholder, ciascuno in relazione al suo peso e dimensione qualitativa (qualità della vita lavorativa, ambiente di lavoro e naturale, ecc.) e quantitativa (dividendi, salari, redditività, imposte ecc.), può essere utile anche in termini di competizione e sviluppo dell’azienda, comportando sia una maggiore consapevolezza della propria situazione e delle interrelazioni ad essa connesse, sia una più ampia conoscenza da parte dei manager/imprenditori di ciò che accade in modo esplicito, implicito o latente nel sistema molto complesso che devono guidare.

 

Bibliografia

Carr, A. (1993). Is Business Bluffing Ethical? In Beauchamp and Bowie (eds.), Ethical Theory and Business. Englewood Cliffs: Prentice Hall. Riproduzione di Carr, A. (1968). Is Business Bluffing Ethical. Harvard Business Review, 143, 155.

Coda, V. (1989). Etica e impresa: il valore dello sviluppo. Rivista dei dottori commercialisti, 789-800.

Coda, V. (2010). Entrepreneurial Values and Strategic Management. Essays in Management Theory. Basingstoke: Palgrave, Macmillan.

Coronella, S., Caputo, F., Leopizzi, R. and Venturelli, A. (2018). Corporate Social Responsibility in Economia Aziendale Scholars’ Theories: A Taxonomic Perspective. Meditari Accountancy Research, 26(4), 640-656.

Elms, H., Brammer, S., Harris, J. and Phillips. R. (2010). New Directions in Strategic Management and Business Ethics. Business Ethics Quarterly, 20:401-425.

Freeman, E., Wicks, A., Parmar, B. and De Colle, S. (2010). Stakeholder Theory. The state of the art. Cambridge, UK: University Press.

Friedman, M. (1970, September 13). The Social Responsibility of Business is to Increase Its Profits. The New York Times Magazine.

Global Reporting Initiative (GRI). https://www.globalreporting.org.

Gruppo per il Bilancio Sociale (GBS). http://www.gruppobilanciosociale.org/

Goodstein, J. and Wicks, A. (2007). Corporate and Stakeholder Responsibility: Making Business Ethics a Two-Way Conversation. Business Ethics Quarterly, 17: 375-398.

Masini, C. (1964). La struttura dell’impresa. Milano: Giuffrè.

Masini, C. (1974). Lavoro e Risparmio. Torino: UTET.

Nazioni Unite, Global Compact. https://www.unglobalcompact.org/what-is-gc/our-work/sustainable-development.

Porter, M. and Kramer, M. (2011). Creating Shared Value. Harvard Business Review, January-February.

Rusconi, G. (2018). Ethical Firm System and Stakeholder Management Theories: A possible Convergence. European Management Review, early view in internet: 1-20. DOI: 10.1111/emre.12162.

Signori, S. and Rusconi, G. (2009). Ethical Thinking in Traditional Italian Economia Aziendale and the Stakeholder Management Theory: the Search for Possible Interactions. Journal of Business Ethics, 89: 303-318.

Stark, A. (1993). What's the Matter with Business Ethics? Harvard Business Review, 71(3), 38-40.

 

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Sommario del numero

Questo numero di Impresa Progetto si caratterizza per la presenza, accanto ai saggi referati, di un consistente numero di contributi di varia natura, con spunti di significativo interesse per la comunità degli aziendalisti.

Più in dettaglio, la sezione dedicata propone tre saggi referati. Nel primo Alessandro Danovi e Alberto Falini presentano una valutazione dell’efficacia della procedura di Amministrazione Straordinaria, finalizzata a recuperare condizioni di continuità aziendale nel caso di grandi imprese in crisi laddove ci siano concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico. Danovi e Falini individuano tutte le procedure attivate nell’ambito della nuova normativa nel periodo 1999-2016 e risoltesi con la cessione di ramo d’azienda a società di nuova costituzione, e quindi esaminano i risultati che tali newco hanno conseguito nei cinque anni successivi sul piano della tutela occupazionale e dei livelli di redditività. Sulla base di tali risultati gli Autori esprimono un giudizio “cautamente positivo” sulla procedura e sottolineano alcuni fattori da cui dipende la sua efficacia.

Paola Paniccia, Matteo Cristofaro, Silvia Baiocco e Luna Leoni partono invece da un caso di studio avente per oggetto il network inter-organizzativo della “Convenzione delle Alpi” per valutare come le istituzioni possono promuovere uno sviluppo sostenibile dei territori a destinazione turistica. Secondo il framework utilizzato l’innovazione turistica è il risultato di processi di co-evoluzione che coinvolgono una molteplicità di soggetti (imprese turistiche, territori di riferimento, turisti) e implicano l’operare di specifici meccanismi di adattamento. Lo studio mette in evidenza il supporto che le istituzioni possono fornire all’operare di questi meccanismi, con riferimento particolare alla decisionalità multi-stakeholder e al trasferimento inter-organizzativo di conoscenza. Il saggio valorizza sul piano teorico le potenzialità dell’approccio co-evolutivo all’esame dei rapporti impresa-ambiente, e fornisce importanti indicazioni utili sia per le imprese che per i policy makers attivi nel settore turistico.

Infine Marco Remondino si occupa dei potenziali applicativi delle “tecnologie immersive” e tra queste della Realtà Aumentata che, più che sostituirsi come fa la Realtà Virtuale all’ambiente reale, stimola nuove interazioni tra utente e ambiente. Remondino osserva che mentre tale tecnologia è stata oggetto di studio dal punto di vista tecnologico e della Information Technology, una minore attenzione ha avuto dal punto di vista del management nonostante i vantaggi che può apportare ad un ampio ventaglio di funzioni gestionali. Fatte queste premesse Remondino si concentra sulle possibili applicazioni delle Realtà Aumentata nell’ambito della logistica e dei suoi diversi processi, soffermandosi sulle implicazioni manageriali, sui possibili KPI e sugli impatti sulla creazione del valore.

 

La sezione dedicata ai “Contributi” apre con una riflessione di Giorgio Donna sulla rilevanza che il concetto di azienda, se propriamente inteso, potrebbe avere nell’orientare la attività economiche nell’interesse del bene comune. La riflessione nasce a margine del Seminario che il Dipartimento di scienze economiche e aziendali dell’Università di Padova ha dedicato a Francesco Favotto in occasione del suo pensionamento. La Direzione e la Redazione di Impresa Progetto colgono l’occasione per associarsi al plauso tributato a Francesco, con la certezza che la sua voce non cesserà di animare il dibattito della comunità scientifica.

Ancora Giorgio Donna è protagonista dell’ampio Dialogo con il Direttore Emerito ed il Direttore Scientifico di Impresa Progetto, intorno al libro da lui recentemente dedicato a “L’Università che crea valore pubblico”. Donna utilizza gli strumenti concettuali ed i modelli analitici dell’Economia Aziendale come chiave di lettura per decifrare i problemi e le prospettive dell’Università italiana: un sistema complesso e peculiare, frenato da limiti e contraddizioni esterni (il definanziamento e l’incertezza normativa) ed interni (autoreferenzialità e comportamenti di corto respiro) ma insostituibile per progettare il futuro del paese. Nel Dialogo sono ripresi e commentati alcuni degli snodi più significativi dell’analisi sviluppata nel libro.

Seguono due interventi di Adalberto Alberici e di Renato Fiocca che ruotano, sia pure su temi diversi, intorno al gioco delle continuità/discontinuità determinate dall’innovazione. Alberici parte dalle sfide attuali  al “mestiere del banchiere” per trarre indicazioni che vanno al di là “della banca” e riguardano più generalmente le esigenze di discontinuità nella cultura manageriale: il cambiamento oggi non riguarda solo il/i business ed i modelli di business ma l’intero tessuto socio-economico, ed i processi di cambiamento vanno affrontati a partire dalle persone e dal ridisegno delle relazioni tra le persona e l’organizzazione, tra interno ed esterno, tra capitale economico e capitale sociale. Fiocca invece mette a nudo le trappole legate alla convinzione che l’intangibilità rappresenti sempre e comunque una discontinuità decisiva nel determinante il successo delle imprese. All’indicazione di casi che segnalano una “continua oscillazione” tra tangibile e intangibile nel comportamento di produttori e consumatori fa seguito la convinzione che il peso tra le due componenti deve essere filtrato caso per caso tenendo conto degli orientamenti del mercato e delle strategie aziendali.

Carlo De Matteo, Paolo Cova e Alessandra Fissore, con riferimento al risk management come componente dei processi di pianificazione strategica e come leva per la creazione di valore, presentano in proposito l’esperienza sviluppata nell’ambito di IREN.

 

Il numero del Journal è poi completato dalle consuete sezioni dedicate alle Recensioni, alle Interviste e alle Segnalazioni. La Recensione di questo numero riguarda il libro di Barbara Czarniawska: “La narrazione nelle scienze sociali”. La crescente complessità e instabilità degli oggetti di ricerca rende sempre più spesso necessario approcciare la ricerca facendo ricorso all’analisi narrativa, di cui quindi è particolarmente interessante conoscere l’origine, la natura e gli obiettivi. Teresina Torre ci introduce al testo, descrivendone i contenuti e ricollocandolo nelle appropriate coordinate di riferimento teoriche e metodologiche.

Per la sezione dedicata agli Ospiti Daria Sarti ha intervistato Simone Siliani, Direttore di Fondazione Banca Etica. Nell’intervista Siliani ci parla della finanza etica e del ruolo attivo della Fondazione nel promuovere un diverso approccio alla finanza attraverso percorsi di “educazione critica”.

Infine la sezione Segnalazioni presenta una selezione di notizie bibliografiche, note su Convegni scientifici, annunci di Call for Papers.

 

Buona lettura!