La funzione civile degli aziendalisti

Editoriali
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Non possiamo non fare nostro l’auspicio che il Governatore della Banca d’Italia pone a conclusione della sua Relazione. “E’ necessario ritrovare la fiducia. La politica, le istituzioni, gli imprenditori che sono aperti al futuro, le parti sociali debbono reagire, convergere su obiettivi realistici di interesse generale, operare fattivamente per riprendere, in un contesto economico internazionale che rimane essenzialmente favorevole, la via dello sviluppo economico e civile”.
In questa prospettiva l’Università costituisce un passaggio obbligato. Per i giovani che forma e più in generale per il contributo che dà all’innalzamento del livello qualitativo e quantitativo del capitale umano; per le idee che produce nella misura in cui sono poste in grado di tradursi in capacità di innovazione e di fertilizzazione del contesto; per i circuiti che riesce ad attivare a livello internazionale aprendo opportunità di crescita per la nostra economia e la nostra società.
Tale apporto è essenziale e richiede di essere potenziato in maniera considerevole. La quota di popolazione, di età compresa tra 25-34 anni, in possesso di titolo di studio universitario è pari al 12,5%. La percentuale si dimezza passando alla classe di età 55-64 anni. Siamo ampiamente al di sotto di Francia (36,1% e 15,2%), Germania (21,7% e 20,6%), Spagna (36,7% e 10,5%). Solo l’1,5% dei nostri studenti proviene dall’estero. Tale percentuale si abbassa allo 0,8% nel caso degli studenti di dottorato. Il numero di ricercatori per 1.000 occupati complessivi non raggiunge le 3 unità (dato riferito al 2001) ed è diminuito nel corso del decennio. La media europea si attesta sulle 6 unità.
La comunità degli aziendalisti non può non sentirsi interpellata. E’ in gioco la nostra responsabilità di studiosi e di docenti. Il nostro contributo ad una lettura rigorosa delle strutture e delle dinamiche dell’apparato produttivo italiano, formulando nel contempo proposte operative, è di fondamentale importanza. Del pari siamo chiamati ad attivare processi formativi capaci di fornire, ai vari livelli di studio, conoscenze e competenze di standing internazionale.
Ha scritto qualche tempo fa Giuseppe Turani: “Il nostro capitalismo ha questo di particolare, da qualunque parte lo guardi è sempre un po’ vecchio, un po’ arretrato, un po’ insufficiente. E’ anche molto ansimante e stanco”. In Italia ci sono più di 4 milioni di imprese. Di queste il 93% ha meno di 20 addetti. Secondo Mediobanca e Unioncamere le imprese medie di buona qualità sono circa 4.000; quelle ben piazzate sui mercati internazionali non superano le 400 unità (dato Censis); le imprese manifatturiere medio grandi quotate in borsa si aggirano sulle 200 unità; le imprese multinazionali – rispondenti ai due requisiti della ricerca di R&S (almeno 2 miliardi di Euro di fatturato e almeno il 10% di fatturato all’estero) sono appena 12 contro le 22 di Francia, le 20 di Germania e Gran Bretagna, le 13 dell’Olanda. A ciò si aggiunga che il divario in termini di dimensione media e performance tra le multinazionali italiane e quelle degli altri paesi è notevolissimo e crescente nel tempo.
Credo che nelle nostre ricerche dovremmo tentare di approfondire di più le ragioni dello scollamento tra industria italiana e industria europea. Quanto pesano la inadeguatezza della specializzazione produttiva, il limite dimensionale, la qualità della governance, l’incapacità tanto di produrre progresso scientifico-tecnologico quanto di applicarlo, ecc.?
Molti di noi, nel corso degli anni ’60 e ’70, si impegnarono sul fronte della politica industriale sia a livello nazionale (i piani di settore, la legge 675) sia a livello regionale nell’ambito degli istituti di studi regionali. Oggi occorre parlare non tanto di politica industriale quanto di politica per l’industria con l’obiettivo di intervenire dove maggiore è il deficit di competitività: la ricerca, l’innovazione, la formazione, la promozione dell’imprenditorialità, le reti, il raggiungimento di soglie dimensionali adeguate, attraverso accordi continentali, senza i quali il nostro Paese non riuscirà a stare in settori strategici per il suo futuro quali lo spazio, le telecomunicazioni, la difesa, la chimica, l’elettronica.
Ciò vale anche per l’area finanziario creditizia. La fusione tra UniCredit e HvB dà vita a uno dei più grandi player europei. L’operazione va al di là della specificità del settore per assumere una valenza più generale. L’operazione – come si legge nell’editoriale del Sole 24 Ore – porta alla ribalta un’altra Italia, quella che rappresenta la parte migliore del Paese perché è abituata a confrontarsi senza timori reverenziali sulla scena internazionale. Siamo lieti che in questo numero di Impresa Progetto vi sia la nostra intervista ad Alessandro Profumo. Una sua affermazione sembra prefigurare quello che, di lì a poco, sarebbe successo. “Premesso che trovo piuttosto discutibili alcune polemiche sulla chiusura del sistema italiano, l’unico orizzonte di riferimento possibile può essere solo quello europeo. E quindi da questo punto di vista il problema degli assetti proprietari è relativo. Il tema vero è quello di avere un sistema finanziario efficiente in grado di garantire una corretta allocazione delle risorse”.
Ai fini di una politica per l’industria si richiede sia la progettazione di nuove interazioni tra pubblico e privato, tra stato e mercato sia una incisiva capacità di coordinamento e di concertazione tra i grandi attori dell’economia e della finanza sia il riconoscimento della centralità del territorio trovando nel capitale sociale e nella sussidiarietà i fondamenti di una nuova competitività.
Sviluppo e lavoro richiedono di essere assunti in termini contestuali. Il lavoro non viene “dopo” lo sviluppo, come portato o conseguenza dello stesso. Al contrario, ne costituisce un elemento coessenziale al pari di altri fattori quali l’innovazione, la qualità, la creatività che proprio nelle persone trovano il loro radicamento e la possibilità di piena esplicazione. Il gap tra dinamiche produttive ed esigenze quantitative e qualitative del lavoro richiede di essere ricomposto nell’ambito di una concezione allargata di sviluppo, nella quale la valorizzazione delle risorse umane non è un costo da minimizzare, ma al contrario una grande opportunità, sia per aumentare la qualificazione e la competitività dell’intero sistema-paese sia per ampliare la gamma di beni e servizi ad alto valore aggiunto. Con altre parole potremmo dire che per stare sulla scena mondiale il nostro Paese non deve costare di meno (ci saranno sempre realtà con costi inferiori), ma al contrario valere di più.
Efficienza, efficacia, giustizia, partecipazione non possono più essere separate e in misura crescente si pongono come condizioni per uno sviluppo qualitativamente più ricco, a servizio dell’uomo produttore, consumatore, cittadino. Il ragionamento passa attraverso imprese eticamente e socialmente responsabili. Tutto ciò ci invita a ravvivare la funzione civile della ricerca aziendale e a garantire una circolarità virtuosa tra essenza morale e progresso economico.

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Una rapida presentazione dei contenuti di questo secondo numero di “Impresa Progetto”.
Nella sezione dedicata ai saggi troviamo innanzitutto i contributi di Adalberto Alberici, Claudio Baccarani, Guido Corbetta, Gianfranco Rusconi e Dario Velo in risposta agli interrogativi posti nell’editoriale precedente e riguardanti l’evoluzione delle discipline aziendalistiche e gli spazi che esse occupano nei nuovi assetti delle Facoltà di Economia. Siamo in presenza di un dibattito stimolante, destinato a continuare anche nei prossimi numeri, magari estendendolo alla “funzione civile” della ricerca aziendale.
In tale ottica si colloca da subito il saggio di Giovanni Padroni che, dall’esame dei rapporti tra complessità, etica e organizzazione delle risorse umane, fa discendere la necessità di un allargamento del campo di osservazione con l’assunzione di fattori a lungo trascurati da ipotesi troppo semplificatrici: gli aspetti relazionali, la cultura, la responsabilità sociale. Al saggio di Padroni abbiamo affiancato lo studio di Pierpaolo Andreani (con un puntuale ed efficace commento esplicativo di Nicoletta Buratti) a comprova del fatto che “nostre” tematiche possono costituire oggetto di ricerca da parte di studiosi la cui collocazione scientifica e metodologica è profondamente diversa (per formazione, strumentazioni utilizzate, ecc.) da quella degli aziendalisti “ufficiali”. Con tali studiosi, occorrerà sempre più fare i conti criticamente e costruttivamente.
Gianni Cozzi apre inedite prospettive in tema di marketing territoriale. La valorizzazione dei “luoghi” antropologici genera identità e connessioni sociali. La storia e la cultura locale possono diventare fattori di trasformazione.
Il saggio di Riccardo Spinelli affronta il tema dei rapporti tra e-business (di cui si propone una originale definizione) e internazionalizzazione delle imprese, scomposta nelle sue direttrici fondamentali (a livello commerciale, produttivo, finanziario, di ricerca e sviluppo, ecc.). Per ciascun vettore viene valutato il ruolo e l’impatto delle ICT e l’implementazione di iniziative di e-business.
Sempre in tema di internazionalizzazione si muove l’working paper presentato da Clara Benevolo e Luca Bianchi che ha per oggetto il caso Esaote, azienda genovese operante nel settore biomedicale, che ha intrapreso una strada di relazioni e di attività dirette sul mercato cinese. Il paper evidenzia ostacoli e opportunità di un sistema giuridico, economico, sociale che resta ancora distante e di difficile approccio.
Sonia Ruggero e Sara Poggesi si misurano con il settore dei servizi pubblici sociali. Il primo paper approfondisce le modifiche che stanno intervenendo nei rapporti tra enti locali e aziende trasformate da braccio operativo dell’amministrazione comunale a imprese che devono fare i conti con il mercato, con tutte le implicazioni in termini di obiettivi, strategie, modelli di governance. Il secondo paper analizza come i servizi pubblici locali abbiano risentito dei recenti movimenti di riforma avviati dalle pubbliche amministrazioni dei principali paesi industrializzati.
Il settore delle organizzazioni non profit e di volontariato costituisce l’oggetto dei tre papers presentati rispettivamente da Roberto Garelli; Sara Campi e Angelo Gasparre; Clara Benevolo e Riccardo Spinelli. Le tematiche indagate riguardano rispettivamente il rapporto tra bilancio di esercizio e bilancio sociale; l’evoluzione delle relazioni tra agenzia pubblica locale e organizzazioni non profit operanti nel campo dei servizi all’infanzia; le organizzazioni di secondo livello nell’ambito delle attività di volontariato.
Il primo testimone di questo numero è – come già sottolineato – l’amministratore delegato di UniCredit, Alessandro Profumo, “provocato” da Marco Di Antonio su retorica e realtà del sistema bancario italiano. Nell’archivio della rivista è reperibile l’intervista fatta qualche tempo fa a Bruno Bolfo presidente della Duferco, un gruppo europeo, con presenze globali e origini italiane. Sia a Profumo che a Bolfo la Facoltà di Economia dell’Università di Genova ha conferito nel 2004 la laurea honoris causa.

Concludo ringraziando quanti hanno manifestato simpatia ed attenzione per “Impresa Progetto”. L’audience del primo numero ci fa ben sperare. La rivista resta aperta, anzi sollecita, la collaborazione di colleghi e studiosi di altre sedi universitarie e più in generale di quanti che, per esperienza professionale o interessi scientifici e culturali, hanno qualcosa di valido da proporre.