Etica e governance dei processi di produzione ed utilizzo del sapere scientifico e tecnologico

Editoriali
Sul numero: 
DOI code: 
10.15167/1824-3576/IPEJM2023.1.1537

Questo numero di Impresa Progetto apre con due Editoriali: il primo di Lorenzo Caselli su “La scienza e la tecnologia interpellate dall’etica. Il ruolo dell’Università” ed il secondo di Pier Maria Ferrando su “Etica e governance dei processi di produzione ed utilizzo del sapere scientifico e tecnologico”, che rivendicano il ruolo dell’etica rispetto ai percorsi evolutivi della scienza e della tecnologia. Il tema, reso di particolare attualità dagli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale generativa, è oggi al centro di un acceso dibattito tra quanti sottolineano i rischi per l’umanità di una dinamica incontrollata della tecnologia e quanti invece temono la perdita di opportunità che potrebbe derivare da freni normativi all’innovazione. Da qui il ruolo dell’etica come irrinunciabile fattore di regolazione dei processi.

L’Editoriale di Pier Maria Ferrando include anche la consueta presentazione dei contenuti del numero.

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Il ruolo giocato da scienza e tecnologia, in quanto risorse che con le loro applicazioni innovative improntano vita e lavoro, produzione e consumo, economia e società, pone l’esigenza di controllarne le dinamiche evolutive, la direzione ed il senso, ed in particolare di evitare un loro asservimento a meri fini di profitto con esiti socialmente indesiderabili. Occorre in altri termini riallinearne i processi di formazione ed utilizzo a criteri di equità e di sostenibilità economica, sociale ed ambientale, così da rispondere in termini eticamente corretti ai bisogni “della gente e del pianeta”.

L’ipotesi tradizionale in tema di rapporti tra conoscenza e produzione risale alla Rivoluzione Industriale, quando gli strumenti frutto del progresso scientifico e tecnologico hanno incominciato ad essere oggetto di investimento per produrre beni e servizi destinati allo scambio di mercato. Prima la macchina a vapore e le macchine tessili (telai e filatoi meccanici), poi via via la siderurgia e la chimica, le ferrovie ed i trasporti marittimi, le telecomunicazioni, l’elettronica, l’informatica e le biotecnologie, ed ora le tecnologie digitali hanno caratterizzato nel tempo successive fasi del processo di sviluppo contribuendo a rispondere ai bisogni espressi sul mercato o a crearne di nuovi, con un’offerta crescente di beni e servizi sempre più differenziati, nuovi, realizzati a qualità crescente ed a costo decrescente.

L’impresa è stata al centro di questi processi, in quanto organizzazione capace di rispondere al mercato congegnando ed innovando le risposte produttive, grazie allo sviluppo ed all’applicazione delle conoscenze legate al sapere scientifico e tecnologico. Il sapere scientifico e tecnologico è stato quindi a sua volta considerato come fattore centrale del progresso e le spese per la ricerca come leva fondamentale per promuovere l’innovazione. Queste spese però rappresentano impieghi di capitale a lungo termine dall’esito incerto, implicando un rischio che può frenare il livello di investimenti socialmente desiderabile, e ciò ha tradizionalmente suggerito di incentivare le spese e gli sforzi innovativi delle imprese attraverso l’istituto della brevettazione e la difesa della proprietà intellettuale.

I processi di formazione ed utilizzo del sapere scientifico e tecnologico si sono poi riconfigurati in base al ruolo giocato nella loro dinamica da quell’apparato di istituzioni, strutture e progetti, pubblici o a finanziamento pubblico, dedicati allo sviluppo ed alla diffusione delle conoscenze che nei paesi industriali avanzati ha rappresentato un contesto con cui le imprese hanno interagito ed ai cui risultati hanno attinto per sviluppare i propri progetti innovativi.

Oggi la ricerca (di base, applicata, di sviluppo sperimentale) è per la maggior parte effettuata a spese ed a rischio dello Stato nelle Università, nelle istituzioni pubbliche ed in ambito no profit, ed anche nelle imprese ma spesso avvalendosi di sussidi ed incentivi pubblici di varia natura. Le grandi imprese, tuttavia, si appropriano dei risultati di queste attività attraverso una pluralità di canali:

  • acquisizione della proprietà intellettuale;
  • utilizzo di capitale umano già formato nelle Università e nei Dottorati e sperimentato negli istituti di ricerca;
  • intercettazione nelle reti della open innovation delle nuove conoscenze, con successivo sviluppo interno e brevettazione di specifiche applicazioni;
  • iniziative di corporate venture capital, con acquisizione e sviluppo di Start Up innovative.

Big Tech e Big Pharma (basti ricordare in proposito il caso dello sviluppo e della commercializzazione dei vaccini contro il Covid 19) possono così prosperare grazie alla formazione di rendite basate sulla appropriazione di conoscenze prodotte con risorse pubbliche.

Come sottolinea Massimo Florio nel suo “La privatizzazione della conoscenza” (Laterza, 2021) si è consolidata una organizzazione dei processi di produzione ed utilizzo del sapere scientifico e tecnologico che lascia largo spazio alla pubblicizzazione delle spese di ricerca ed alla privatizzazione dei suoi risultati, nell’ipotesi che il mercato e la competizione portino le imprese ad utilizzare tali risultati ottimizzando produttività e produzione. Si è immaginata in altri termini una convergenza tra interessi privati (al profitto, attraverso l’uso di conoscenza prodotta utilizzando risorse pubbliche) ed interessi pubblici (allo sviluppo di flussi di innovazione capaci di alimentare la crescita) garantita dal fatto che eventuali devianze del comportamento delle imprese rispetto a quanto socialmente desiderabile (in termini di condotte anti-competitive, di sfruttamento di potere di mercato e di pratica di prezzi di monopolio), sarebbero state riassorbite attraverso le politiche di regolazione del mercato e di tutela della concorrenza.

Tuttavia in questo quadro si sono via via accumulati pesanti fenomeni distorsivi:

  • la formazione di rendite ed il controllo della circolazione dei prodotti resi possibili dalla brevettazione possono portare, quando si tratta di prodotti “critici”, ad effetti socialmente indesiderabili;
  • il controllo delle leve della tecnologia da parte delle Bigh Tech genera un potere di mercato che sta all’origine del moltiplicarsi e dell’aggravarsi delle disuguaglianze, con frammentazione e precarizzazione del lavoro ed impoverimento dei ceti medi;
  • le nuove tecnologie digitali ed il controllo dei dati estratti dalle relative applicazioni consentono di condizionare le scelte ed i comportamenti degli individui nei diversi campi della loro vita, rendendoli oggetti e non soggetti;
  • i tradizionali strumenti di regolazione del comportamento delle imprese non funzionano quando ritmo, ampiezza, natura dell’innovazione e dei suoi impatti eccedono le capacità di controllo del regolatore e delle politiche pubbliche, quando si tratta di difendere non tanto gli interessi del consumatore quanto i diritti del cittadino, quando occorre controllare esternalità negative;
  • le grandi sfide del domani configurano problemi che eccedono le capacità di risposta del mercato e gli interessi di imprese orientate al profitto.

Ci muoviamo oggi in un contesto in cui, mentre si delineano grandi sfide che riguardano il cambiamento climatico, la transizione energetica, la transizione digitale, la difesa dalle pandemie, sul fronte dell’innovazione si affacciano nuove tecnologie (legate alla genomica, alla fusione nucleare, all’idrogeno, al digitale, all’Intelligenza Artificiale, all’Intelligenza Artificiale generativa…) che tuttavia, come sottolineato da Lorenzo Caselli in questo stesso numero di Impresa Progetto, si sviluppano “secondo dinamiche autopropulsive e multidirezionali che creano, a loro volta, opportunità per l’ulteriore progredire della scienza e delle sue applicazioni secondo modalità non sempre prevedibili, programmabili, controllabili”.

Le nuove tecnologie si caratterizzano per la capacità trasformativa, che rende il futuro aperto ad una pluralità di possibili percorsi di cambiamento: le loro traiettorie sono multiple, aperte, imprevedibili, capaci di investire la nostra natura (chi siamo, come lavoriamo, come viviamo), interconnettono l’economia, la società e la politica, si sviluppano al di fuori dei meccanismi di controllo e di presidio democratico.

Come ricorda Luciano Floridi la tecnologia contiene in sé tensioni positive e negative, esiti progressivi e regressivi. Più in generale, una volta di più dietro la promessa di felici percorsi di innovazione e di sviluppo la tecnologia nasconde rischi e problemi etici talora laceranti (oggi abbiamo idee abbastanza chiare su benefici e rischi della fissione nucleare, incominciamo ad averne su quelli dei social media, non ne abbiamo ancora o non ne abbiamo a sufficienza su quelli, oggi all’ordine del giorno, dell’Intelligenza Artificiale generativa).

Come orientare allora i potenziali innovativi e trasformativi della scienza e della tecnologia in direzioni utili per rispondere alle grandi sfide del domani?

Tra le opposte opzioni di chi ritiene che la tecnologia vada lasciata libera di esprimere i propri potenziali, salvo correggerne ex post eventuali esiti imprevisti ed indesiderati, e di chi ritiene necessaria una  normazione, che però se giocata ex ante rischierebbe di frenare ricerca ed innovazione e se giocata ex post potrebbe risolversi in un inseguimento defatigante e improduttivo, va considerata quella di anticipare, dirigere, orientare proattivamente l’innovazione, attraverso una regolazione giocata attraverso politiche , norme, incentivi capaci di abilitarne esiti socialmente desiderabili.

Il gioco non si risolve (o non si risolve solo) nel mercato ma investe più in generale la società e l’ambiente; non si esaurisce (o non si esaurisce solo) nella sfera dell’economia ma interpella la dimensione dell’etica, ovvero dell’uomo visto come fine e non come mezzo, come soggetto e non come oggetto. Da questo punto di vista si pongono problemi di governance dei processi di formazione ed utilizzo del sapere scientifico e tecnologico, di assunzione di responsabilità da parte di chi costruisce, gestisce, controlla (o dovrebbe farlo) tali processi. Si tratta di recuperare ed esercitare “sovranità tecnologica” restituendo alla trasformazione indotta dalle tecnologie un senso, una prospettiva, un orizzonte, realizzando politiche pubbliche capaci di promuovere attraverso l’innovazione uno sviluppo economico rispettoso della società e dell’ambiente, riducendo le disuguaglianze derivanti da uno sviluppo incontrollato delle tecnologie. L’etica rappresenta la bussola indispensabile per indirizzare i percorsi, il filtro per selezionare nell’insieme delle possibili tecnologie ed innovazioni quelle accettabili e quelle utili, per orientarle in direzione dell’equità (commisurandole alla società), della sostenibilità (commisurandole all’ambiente), della produttività (commisurandole all’economia ed alla produzione di valore), e facendo i conti con l’uomo nelle sue relazioni con sé stesso, con gli altri e con la natura.

I processi di produzione ed utilizzo del sapere scientifico e tecnologico vanno in altri termini ricomposti intorno alle logiche del bene comune, vanno indirizzati in risposta ai problemi “della gente e del pianeta”, vanno ricondotti a criteri antropologicamente ed eticamente corretti.

Le attività di ricerca devono essere mission oriented perché, come ci ha ricordato Mariana Mazzucato, esse implicano problemi che non riguardano solo la quantità di risorse da investire, ma anche la direzione e lo scopo cui orientarle. Il futuro dell’uomo, della società e dell’ambiente dipende dalle risposte che saranno date alle grandi sfide del cambiamento. Si tratta di decidere, in termini di coinvolgimento e secondo logiche di condivisione, in che direzione, in che misura, in vista di quali obiettivi orientare la ricerca; di investire le risorse pubbliche ed incentivare le attività di Università, di Enti e di Infrastrutture di Ricerca in modo finalizzato; di congegnare partnership pubblico/privato non parassitarie e finanziare gli investimenti privati secondo appropriate condizionalità; di impegnare governo e istituzioni, imprese, organizzazioni no profit e collettività in uno sforzo coerente in direzione di obiettivi comuni.

Le tecnologie a loro volta devono essere vincolate a limiti che ne assicurino la rispondenza a criteri eticamente corretti. Tale rispondenza può essere assicurata da norme cogenti quando si tratta di discriminare tra lecito e l’illecito, di regole quando si tratta di catturare in termini di prescrittività situazioni prevedibili, di principi e valori quando si tratta di guidare il giudizio di fronte a prospettive non prevedibili.  

Fare governance dei processi di formazione ed utilizzo del sapere scientifico e tecnologico significa sfuggire al rischio dello scientismo acritico cui fa riferimento Lorenzo Caselli e misurarsi con il futuro facendo scelte ed esercitando la responsabilità del giudizio. A questi fini è necessaria una innovazione culturale diffusa e pervasiva capace di tradursi in un nuovo mindset, appropriato alla scala ed alla complessità dei problemi in gioco ed ispirato a principi di scopo, equità, sostenibilità, consapevolezza. Si tratta infatti di promuovere un cambiamento:

  • propositivo, mirato al perseguimento di finalità di beneficio comune (a quali problemi “della gente e del pianeta” va cercata una risposta);
  • efficiente, rispetto a logiche non di mero profitto ma di creazione di valore in senso ampio (rispondendo ad interrogativi come: quale valore, attraverso quali risposte produttive, a favore di chi, attraverso quali modalità);
  • inclusivo, rispetto alla pluralità degli stakeholder e degli interessi in gioco (assicurando l’ascolto di chi esprime problemi e di chi sarà impattato dalle soluzioni); 
  • pro-sociale, rispetto alla distribuzione ampia e non discriminatoria dei benefici prodotti dal cambiamento (con una conseguente riduzione delle disuguaglianze);
  • democratico, nel senso di assicurare la partecipazione alle scelte e di mettere a disposizione della comunità e delle decisioni pubbliche la mole di dati, informazioni, conoscenze accumulate generata dalle nuove tecnologie digitali.

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Nelle sue diverse Sezioni, anche questo numero di Impresa Progetto affronta temi legati alle tendenze evolutive che stano cambiando il modo di produrre, lavorare, vivere: dal finalismo e dal reporting di imprese che escono dal paradigma neo-liberista del profitto come unico obiettivo aziendale, alle molteplici dimensioni attraverso le quali si esprime il fenomeno organizzativo, agli impatti di fenomeni epocali come la transizione digitale e la sostenibilità.

Nella Sezione dei saggi referati troviamo sei paper, tutti in inglese:

  • Sabrina Bonomi e Alessio Giorgetti (The sense of impact assessment through the lens of Civil Economy) propongono una matrice per l’ impact assessment ispirata ai principi dell’Economia Civile. La molteplicità e rilevanza degli impatti sociali ed ambientali dell’attività delle imprese ha determinato la proposta di nuovi indicatori e framework per il controllo dei risultati aziendali di natura non finanziaria. Rispetto a tali proposte, la matrice di Bonomi e Giorgetti si differenzia perché costruisce i propri indicatori integrando il processo di impact assessment con i principi dell’Economia Civile: vengono incrociati 6 ambiti che possono essere oggetto di impatto e 5 aree di business possibili generatrici di impatto; nelle celle di questa griglia 6x5 vengono poi individuati 40 indicatori socio-economici utilizzabili per valutare la sostenibilità economica, sociale ed ambientale delle decisioni aziendali e migliorare il contributo dell’impresa alla formazione del bene comune.
  • Il sempre più frequente manifestarsi di eventi inattesi a carattere disruptive ha reso rilevante il concetto di Resilienza Organizzativa (OR), che tuttavia è stato approfondito soprattutto in ambito tecnico-ingegneristico lasciando aperti gap conoscitivi sul versante organizzativo su cui si sofferma invece questo paper. In proposito Martina Neri, Federico Niccolini e Francesco Virili (Organizational resilience: state of the art and new future cyber inquiries) cercano un filo conduttore tra gli studi e le  concettualizzazioni dell’OR allo scopo di individuare le linee più utili per le imprese che vogliono rafforzare la loro resilienza e per comprendere meglio la natura del fenomeno (resilienza come proprietà o come processo?); in particolare propongono un framework “a tre stadi” utile per individuare le caratteristiche chiave dell’OR nei distinti momenti che precedono, accompagnano e seguono l’evento inatteso.
  • Alessandra Ricciardelli e Gianluigi Mangia si chiedono a partire dall’esame di uno specifico un caso aziendale se e come quella “estetica” possa, al pari di altre dimensioni organizzative, rappresentare per l’impresa un fattore di successo (Designing and developing beautiful organisations. Empirical evidence of the aesthetic dimensions of organisations). La “bellezza” infatti può essere considerata tanto un processo di acquisizione di conoscenza sensoriale e sensitiva sull’organizzazione quanto un fattore che invece la plasma attraverso l’interazione tra i suoi attori e tra il personale e gli stakeholder esterni, dando luogo a capacità utili per promuovere la durabilità della performance.
  • Marco Balzano e Guido Bortoluzzi, (The Digital Transformation of Soccer Clubs and Their Business Models) analizzano le trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie digitali nei business model delle società del calcio professionistico. In particolare sono presi in considerazione gli elementi costitutivi di questi business model e le specifiche tecnologie digitali da cui sono impattati. Dalla rassegna emerge una serie di quesiti che dovranno essere affrontati attraverso future attività di ricerca.
  • Secondo Maria Rosa De Giacomo (Circular Economy as an emergent form of economic and social exchange: how may it mitigate climate change challenges?) l’Economia Circolare può contribuire positivamente ad affrontare le sfide del cambiamento climatico, ma la sua diffusione è frenata dalla scarsa comprensione dei fattori e dei meccanismi che la caratterizzano. Nel passaggio da una logica take-make-waste ad una logica take-make-reuse l’Economia Circolare si presenta infatti come una forma emergente di scambio economico e sociale sulla cui configurazione intervengono fattori culturali, cognitivi e relativi al funzionamento delle reti sociali.
  • Andrea Sestino, Mirko Sestino, Luìs Ingrang e Gianluca Guido (Sustainable Smart Mobility and Intelligent Transport System as an Enabling Factors of Smart Cities Transition. Evidences from Italy) avvalendosi dell’esperienza della città di Taranto esaminano la capacità trasformativa della Smart Mobility in quanto componente fondamentale di una strategia di transizione alla Smart City. Tale trasformazione richiede lo sforzo congiunto di una pluralità di attori (imprese private, aziende pubbliche, comunità, pubbliche amministrazioni, cittadini) coinvolti in una strategia di sviluppo urbano e territoriale coerente, coordinata, capace di generare benessere sociale, sostenibilità ambientale ed equità distributiva.

 

La Sezione dei Contributi ospita un lavoro di Emiliano Di Carlo su Lotta e resilienza per ridurre il gap con l’interesse primario dell’azienda. Di Carlo riprende un modello già utilizzato in tema di business ethics e lo adatta al problema della riduzione dei gap che possono frapporsi tra l’interesse perseguito in un determinato momento da un’azienda e l’interesse primario che essa dovrebbe esprimere per sopravvivere, svilupparsi e contribuire al bene comune della collettività. Presupposti del modello sono che l’azienda sia un istituto avente un interesse primario distinto e superiore rispetto a quelli dei suoi stakeholder, che il perseguimento di tale interesse sia influenzato da forze sia interne che esterne, che ad esso concorrano la volontà delle persone che vi operano, ed in particolare degli organi di governance, di lottare per contrastare le forze che lo ostacolano e valorizzare quelle che invece lo favoriscono.

 

Nella Sezione dedicata alle “Recensioni e riflessioni” Giorgio Donna presenta e commenta Purpose + Profit, How Business can Lift up the world di George Serafeim. Quando la Harvard Business School investe su di un tema emergente vale la pena drizzare le antenne perché ci sono forti probabilità che questo tema stia per diventare un nuovo mainstream.  In proposito Giorgio Donna richiama il percorso che porta George Serafeim a delineare un nuovo paradigma che vede l’impresa non come strumento per massimizzare lo shareholder value ma come entità dedicata a soddisfare bisogni, capace di perseguire un purpose con cui contribuire ad un mondo migliore senza rinunciare a conseguire un profitto. Non dunque beneficienza e filantropia al posto della logica del business, ma la sostenibilità come componente integrante della strategia e della competitività. Donna non manca di ricordare come Serafeim stesso sottolinei come la strada del cambiamento sia tutt’altro che facile, che l’affermarsi del nuovo paradigma sconti l’integrazione nel sitema aziendale di dati e misure, di strumenti gestionali e di controllo appropriati, ma che dal successo nella sfida della sostenibilità dipenda la capacità dell’impresa di essere all’altezza dei tempi in cui viviamo.

 

Per la Sezione dedicata all’Ospite Giorgio Donna e Pier Maria Ferrando hanno intervistato Michele Alessi, già Amministratore Delegato di Alessi Spa ed attualmente Presidente della Fondazione Buon Lavoro (Dal lago d’Orta alla ricerca della Buona Impresa). Quello della Buona Impresa, frutto dell’attività della Fondazione Buon Lavoro, è un modello alternativo a quello tradizionale e propone, al posto dell’unico obiettivo della massimizzazione del profitto, una triplice finalità legata al perseguimento di risposte sinergiche e soddisfacenti alle attese degli Stakeholder Primari: Clienti, Lavoratori, Investitori. Nell’intervista Michele Alessi ricostruisce il quadro valoriale in cui si è formata la sua idea di impresa e del fare impresa, spiega le caratteristiche del Modello e ne illustra le implicazioni sul rapporto tra economia ed etica nel quadro di un’economia responsabile, sostenibile ed inclusiva.

 

Nella Sezione “Segnalazioni ed Aggiornamenti” Francesca Serravalle (“Marketing and Retail”) suggerisce tre contributi sul tema del metaverso e Pier Maria Ferrando (“Sustainability Corporate Reporting”)  indica quattro streamings OIBR sulla nuova Direttiva UE sul Corporate Sustainability Reporting e relativi standard applicativi.