I fini e la natura dell'impresa: una frontiera in divenire

Editoriali
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10.15167/1824-3576/IPEJM2020.3.1331

I contributi al dibattito su “I fini e la natura dell’impresa dopo lo Statement della Business RoundTable e l’emergenza Covid-19”, che pubblichiamo in questo Special Issue di Impresa Progetto, concorrono nell’insieme a ricostruire un quadro aggiornato dei cambiamenti indotti dalla crisi nella realtà delle imprese: cosa sono, che funzioni svolgono, quali finalità perseguono. Un quadro di riferimento utile per decifrare questi interrogativi, esplorando la crescente complessità dei sistemi aziendali, a cui concorrono chiavi di lettura attinte al campo dell’economia e del management ma anche della psicologia, della sociologia, dell’etica.

I contributi di questo Special Issue sono numerosi, a riprova dell’attualità e della rilevanza dei temi in gioco, e differenziati sotto una molteplicità di punti di vista, a riprova della loro complessità. Essi ci restituiscono una impresa impegnata in un nuovo salto evolutivo sotto la spinta dei processi (il diffondersi di nuove tecnologie; le interdipendenze a scala planetaria dei sistemi socio-economici) e delle contingenze (i rischi globali e le rotture di equilibri sistemici) della storia.

L’impresa, come progetto dell’agire umano in campo economico, è un tipico fenomeno evolutivo in continua interazione con il contesto in cui opera che influenza e da cui è influenzata. Colin Mayer nel suo “Prosperity. Better Business Makes the Greater Good” (Oxford University Press, 2018) propone una periodizzazione su scala addirittura bi-millenaria delle soluzioni via via congegnate dall’uomo per rispondere ai bisogni economici. Nel suo contributo al dibattito Enzo Rullani riconduce le mutazioni dell’impresa industriale alla successione dei paradigmi tecnico-produttivi del capitalismo moderno a partire dalla Rivoluzione Industriale, ed Enrico Sassoon con riferimento alle svolte rilevanti del secolo scorso ricorda l’affermarsi prima del capitalismo manageriale (a partire dagli anni ’30) e poi della shareholder primacy (a partire dagli anni ’90).

L’impresa (come ci dicono Cortese e Cantino, Rullani, Sassoon) deve rispondere ai cambiamenti globali, adeguare la propria funzione-distintiva rispetto a complessità crescenti, imparare ad operare nelle nuove condizioni del business a livello locale e globale, interagire con l’emergere di un nuovo contesto culturale e valoriale, dimostrando di saper essere parte della soluzione e non della creazione dei problemi del nostro tempo.

Tra gli Autori si trovano studiosi espressione di tradizioni fondamentali dell’aziendalismo italiano come Vittorio Coda, Enzo Rullani e Giorgio Donna; un (ex)sindacalista come Marco Bentivogli;  osservatori ed opinion maker come Antonio Calabrò ed Enrico Sassoon; docenti di discipline aziendali in momenti più o meno avanzati della loro carriera accademica tra cui Silvana Signori e Marcantonio Ruisi, rispettivamente president e past president della Sezione italiana di EBEN (European Business Ethics Network). Alcuni di loro hanno trasferito nei loro contributi esperienze maturate a vario titolo in attività legate ai temi della sostenibilità: Paola Schwizer, amministratore indipendente e Presidente onorario di Nedcommunity; Marco Frey, Presidente del Global Compact Network Italia. Accanto a loro ci sono imprenditori come Antonio Gozzi (peraltro già docente di materie aziendali) e Giovanni de Simone; ricercatori e professional come Arianna Pierantoni, ESG Analyst di Etica Sgr, Domenico Sturabotti, Direttore di Symbola, Paolo Venturi, Direttore di AICCON. Tutti portatori di un ventaglio di esperienze e di conoscenze differenziate e rilevanti per i temi all’ordine del giorno.

Alcuni contributi hanno il respiro di saggi articolati ed approfonditi, altri hanno la dimensione e le caratteristiche tipici degli interventi in un dibattito. Non manca chi ha organizzato il suo ragionamento dandogli un taglio decisamente originale.

Le questioni discusse sono molteplici e la ricostruzione del quadro di riferimento e delle chiavi di lettura comporta necessariamente una ricognizione trasversale dei diversi contributi.

 

 

L’impatto della pandemia. Incertezza e insicurezza. Ricostruire una prospettiva in termini di sostenibilità.

 

Nei contributi che hanno animato il dibattito l’impatto della pandemia sul mondo delle imprese trova riscontro non solo dal punto di vista degli effetti economici, ma anche da quello della accelerazione o della determinazione di cambiamenti negli orientamenti culturali e valoriali e degli approcci manageriali ed organizzativi.

Non da oggi le imprese sono state sottoposte ad una pluralità di sollecitazioni al cambiamento: dai rischi sistemici come quelli legati al cambiamento climatico, alle crescenti disuguaglianze sociali e territoriali (Sassoon), alle spinte evolutive determinate dalla diffusione delle tecnologie digitali (Rullani).

La crisi sanitaria può essere vista (Pierantoni e Sassoon citano in proposito il World Economic Forum 2020 ed il Global Risk Report 2020) come la concretizzazione di uno tra i tanti rischi che minacciano l’ecosistema. Essa ha colto impreparati a livello mondiale i sistemi sanitari ed ha avuto impatti pesanti sui sistemi economici, in difficoltà sul lato sia della domanda che dell’offerta di beni e servizi ed esposti a cadute particolarmente gravi del reddito e dell’occupazione.

 

Le criticità indotte dalla pandemia

Rullani osserva che le imprese sono state poste di fronte alla “scelta impossibile” tra la salvaguardia della propria funzionalità economica e la tutela della salute delle persone: le regole, i limiti, i rimedi di breve periodo cui si è fatto ricorso (lockdown e blocco dei licenziamenti da una parte, sussidi e agevolazioni dall’altra) non rappresentano che provvedimenti di emergenza e ad essi dovranno far seguito risposte di lungo periodo capaci di ricostruire una prospettiva per il futuro. Come dicono Giaccardi e Magatti, citati da Rullani: “…la nostra società non è una macchina da riparare, ma un organismo che ha bisogno di rigenerarsi”, mentre secondo Frey una nuova visione per il futuro dovrà avere: “…nella ricerca di una maggiore sostenibilità l’obiettivo, nell’innovazione lo strumento e nella valorizzazione dell’interazione con gli stakeholder il metodo…”.

Calabrò a sua volta osserva che la fragilità economica, sociale e personale, messa in luce dalla crisi sanitaria ed economica, richiede una nuova cultura dell’impresa, del lavoro, della qualità dello sviluppo. Di Carlo rileva che la pandemia ha accelerato il cambiamento dei paradigmi tradizionali sull’uomo, da considerare come persona e non come mero fattore produttivo, sull’impresa, da considerare come comunità e non come strumento di interessi, e sulle interazioni, da considerare come relazioni sociali e non solo come transazioni economiche. Sturabotti, Venturi e Baldazzini sottolineano come la vulnerabilità di un numero crescente di giovani, famiglie, territori e comunità abbia generato un indebolimento dei legami sociali ed una individualizzazione dell’agire dei diversi attori che richiede una risposta trasversale e unitaria, finalizzata a ricomporre le dimensioni economiche, sociali ed ambientali.

Si tratta quindi di ricostruire una prospettiva di sviluppo capace di organizzare “forme creative di sense-making individuale e collettivo, riportando le persone e le loro aspirazioni al centro della generazione di valore economico” (Cortese e Cantino) e di “ricondurre le imprese a riconoscere il proprio ruolo comunitario, sociale e generativo” (Bentivogli). Ciò è necessario anche per contrastare una conseguenza della crisi, di carattere immateriale ma non per questo meno pericolosa, rappresentata dalla “condizione generale di insicurezza” che si riverbera “su tutto ciò che contribuisce a comporre il quotidiano, sugli attori e sulle relazioni che costituiscono il tessuto sociale e il sistema che ne mantiene le trame, inclusa l’impresa” (Cortese e Cantino).

 

Alla ricerca di una nuova prospettiva

Ai fini della ricostruzione di una tale prospettiva nel dibattito vengono segnalate risposte articolate e capaci di rappresentare a loro volta importanti determinanti evolutive.

L’UE ha giocato e gioca un ruolo di primo piano nel promuovere iniziative di corporate sustainability (Frey) e cambia passo rispetto all’ortodossia dei conti in regola ed all’ideologia ordoliberista (Calabrò). Il programma Next Generation indica nella green e nella digital economy le grandi direttrici su cui indirizzare le politiche di sviluppo, mettendo a disposizione ingenti risorse.

Gli investitori (come ricordano Pierantoni con riferimento all’esperienza di Etica Sgr, Schwizer dal punto di osservazione dell’amministratore indipendente e Frey e Sassoon che citano le perentorie affermazioni di Larry Fink, CEO di BlackRock) orientano sempre di più le proprie scelte di allocazione dei capitali valutando la sostenibilità degli emittenti e tenendo conto dei rischi ESG, e pongono in essere pratiche di engagement con le società partecipate spingendole a comportamenti socialmente responsabili ed economicamente sostenibili.

Tra le imprese di maggiori dimensioni le più consapevoli innovano nei sistemi di corporate governance focalizzandoli meglio sul piano del risk management e del controllo interno (Schwizer). Più in generale di fronte all’emergenza le imprese rafforzano le relazioni con gli stakeholder ai fini della salvaguardia delle filiere produttive. Il rischio, i criteri ESG e la sostenibilità rappresentano i punti fondamentali intorno ai quali si delineano nuovi modelli di stakeholder governance. Nella crisi fanno premio il valore dell’impresa, la sua capacità di migliorare la vita delle persone ed il benessere della collettività, la sua ragion d’essere (il purpose), che vanno esplicitati, governati, comunicati, condivisi come fattore capace di generare identità e fiducia. Schwizer inoltre sottolinea la rilevanza del ruolo che in questa evoluzione può essere giocato dagli Amministratori indipendenti.

Più in generale, Sturabotti, Venturi e Baldazzini rilevano, come reazione alla vulnerabilità dei vecchi modelli economici e sociali, la ricerca di forme alternative di creazione del valore, il diffondersi di “imprese coesive” in cui al profitto si sostituisce un più articolato purpose, la sperimentazione a livello territoriale di forme collaborative che coinvolgono una pluralità di attori sociali ed istituzionali, l’ingresso in scena di nuove generazioni di giovani imprenditori che si mettono in gioco con l’ambizione di essere changemaker.

Non si può poi dimenticare il ruolo giocato nella costruzione di tale prospettiva da una pluralità di stimoli sul piano culturale e valoriale ed innovazioni sul piano normativo ed (auto)regolamentare.

Sul piano culturale e valoriale si tratta di stimoli provenienti da una pluralità di fonti:

  • da istituzioni internazionali come le Nazioni Unite con le iniziative in favore di un futuro più sostenibile (Rapporto Bruntland, Global Compact, Agenda 2030 e SDGs) (Frey e Botti);
  • da autorità religiose e morali come la Chiesa Cattolica con le Encicliche dedicate all’impresa come attore chiamato a valorizzare le persone ed a promuovere il bene comune (da Giovanni Paolo II, a Benedetto XVI e a Francesco) (Botti)
  • da voci “fuori dal coro” che nel secolo scorso si sono fatte largo nella stessa comunità scientifica americana come quelle di Merrick Dodd e di Lynn Stout, attenti alla natura istituzionale dell’impresa ed alla responsabilità dei manager verso la comunità (Coda, Donna, Sassoon);
  • dalle recenti pubblicazioni di due autorevoli accademici di Oxford: Paul Collier che si ispira alle tradizioni solidaristiche, cooperativistiche e comunitarie del socialismo non marxista britannico (The Future of Capitalism. Facing the New Anxieties, Allen Lane 2018) e Colin Mayer col lavoro prima citato i quali, pur di fronte ai conflitti che lacerano le società occidentali ed al discredito ricaduto sull’impresa, ritengono che essa, liberata dalle sovrastrutture di governo che l’hanno resa funzionale al solo profitto, possa essere rifondata eticamente come istituzione finalizzata al benessere comune.

Le innovazioni nel quadro normativo e (auto)regolamentare riguardano invece prima di tutto le disposizioni a livello europeo ed italiano in tema di comunicazione di informazioni non finanziarie da parte degli Enti di interesse pubblico, vigenti ormai da qualche anno che, sia pure finalizzate al miglior funzionamento dei mercati finanziari, sanciscono un interesse pubblico nei confronti di (almeno) queste imprese e chiedono trasparenza in ordine ad (almeno) alcuni degli effetti non finanziari delle loro attività. Ma va anche ricordata la più recente introduzione nel Codice di autodisciplina delle società quotate del “successo sostenibile” come obiettivo affidato ai Consigli di Amministrazione (Schwizer); aderendo all’ipotesi dell’enlightened shareholder value il “successo sostenibile” viene definito come creazione di valore nel lungo termine, a beneficio degli azionisti ma tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società.

Questi stimoli ed innovazioni hanno accompagnato il crescere della sensibilità in tema di responsabilità sociale fino al configurarsi dell’idea dell’impresa come attore integrato nella società, che condivide la creazione e la distribuzione del valore (Sassoon): superando la mera giustapposizione di preoccupazioni sociali agli obiettivi economici tipica della Corporate Social Responsibility, le teorie manageriali in tema di Stakeholder Management e di Corporate Shared Value hanno infatti aperto la strada all’incorporazione nella funzione-obiettivo delle imprese tanto di fini sociali quanto di fini economici (Coda e Frey).

È in questo quadro che è maturato, per poi trovare nella pandemia un fattore di accelerazione, un nuovo modo di guardare l’impresa fondato su assi (non sorprendenti per la migliore dottrina aziendale) quali il superamento del paradigma della shareholder primacy, la valorizzazione degli stakeholders, l’individuazione di uno scopo (purpose) come finalità sovraordinata agli obiettivi gestionali. Ed in proposito può essere richiamata anche la suggestione di Aldo Bonomi, ricordata da Bentivogli, che prefigura “un triangolo tra comunità operosa/impresa, comunità di cura /sociale e sostenibilità”, con il digitale quale struttura abilitante, capace di indicare una possibile via “di evoluzione verso un capitalismo ibrido”.

Tutto ciò riconduce direttamente al tema dei fini e della natura dell’impresa, la cui discussione nel dibattito ha fornito anche le chiavi di lettura per una valutazione appropriata dello Statement on the Purpose of a Corporation della Business RoundTable.

 

 

I fini e la natura dell’impresa: un nesso che si rinnova nella prospettiva del bene comune.

 

I temi della natura e dei fini dell’impresa sono legati da un filo diretto. Diversi contributi ne mettono a fuoco tanto l’evoluzione, in rapporto a contesti tecnologici ed ambientali sempre più complessi, quanto il nesso che con continuità si riproduce e si rinnova. I ragionamenti intorno a questi temi ruotano da sempre intorno ad un interrogativo di fondo: se l’impresa sia un attore del sistema economico e sociale autonomo, dotato in quanto tale di fini propri, o se sia invece lo strumento attraverso il quale specifici soggetti (tipicamente gli shareholder ma anche, seguendo come nota Donna la relativa teoria, gli stakeholder) perseguono i propri interessi.

 

L'impresa come strumento: di chi e per che cosa?

In proposito Rullani ricorda le idee tradizionali che hanno portato a considerare l’impresa come strumento dell’interesse generale:

  • quella dell’impresa efficiente “che, grazie agli automatismi della modernità (il mercato di concorrenza e l’innovazione schumpeteriana), mette di fatto il self-interest dell’impresa al servizio di un interesse collettivo, perché aumenta il valore disponibile per il consumatore e per la società”;
  • quella dell’impresa etica o responsabile, che – senza rinunciare all’impiego efficiente dei mezzi - utilizza i margini di discrezionalità, più o meno ampi, di cui dispone, per andare oltre il self-interest, dando spazio, nelle proprie scelte, alle aspettative ed agli interessi dei diversi soggetti che popolano la sua organizzazione e il suo ambiente”.

Tuttavia, come osserva Di Carlo, “i business model contemporanei e i meccanismi di corporate governance spesso promuovono una separazione e una tensione tra finalità economiche e sociali, ponendo in conflitto tra loro gli interessi individuali, aziendali e collettivi”, e d’altra parte troppo spesso, con la legittimazione della dottrina (il riferimento ricorrente nei diversi contributi è, ça va sans dire, a Milton Friedman) e nella pratica del business, il self-interest dell’impresa efficiente è diventato tout court l’impegno dell’impresa capitalistica a perseguire il profitto a vantaggio della proprietà.

A riprova di quanto radicata sia l’idea della contrapposizione tra fini economici e fini sociali è stato più volte ricordato (Coda, Cortese e Cantino) il confronto risalente agli anni ’30 del secolo scorso tra Berle, secondo il quale i manager sono responsabili nei confronti degli azionisti, e Dodd, secondo il quale invece i manager hanno una responsabilità più generale nei confronti di quanti hanno a che fare con l’impresa, come per esempio i dipendenti ed i consumatori.

Come conseguenza si sono consolidate, diventando senso comune, alcune delle “idee ingannevoli” che Coda nel suo contributo contesta con decisione. Tra queste innanzitutto quella secondo cui l’impresa è un bene appartenente a chi è proprietario del capitale di rischio, mentre di per sé la proprietà del capitale di rischio non fa che conferire diritti e responsabilità relativamente al governo dell’impresa. Secondo Coda (che in proposito cita anche Lynn Stout), “l’impresa, in quanto istituto economico-sociale, manifestazione tipica dei sistemi basati sulla libertà di iniziativa economica, non è proprietà di nessuno. È bensì un bene alla cui funzionalità tutti gli stakeholder e la società nel suo complesso sono a vario titolo interessati”.

Direttamente collegata all’idea che l’impresa appartenga ai portatori del capitale di rischio c’è quella secondo cui “lo scopo dell’impresa sia il profitto, anzi il massimo profitto possibile, da distribuire tra i soci”. Il profitto invece (ricorda Coda come pure Ruisi) va considerato come “un mezzo che serve anzitutto per sostenere gli investimenti necessari per alimentare la capacità competitiva e coesiva dell’impresa e, grazie alle innovazioni da essa prodotte, per mantenerla su di un sentiero di sviluppo sostenibile sotto ogni aspetto”. A questo proposito Lorenzo Caselli, nel suo Editoriale “L’etica non è un di più” in questo Special Issue, parla dell’esigenza di deideologizzare il profitto.

Coda contesta poi anche l’idea che il sistema degli obiettivi dell’impresa abbia il carattere di una piramide “in cima alla quale sta l’obiettivo rispetto al quale ogni altro è strumentale” in quanto “preclusivo di relazioni costruttive con tutti gli stakeholder e perché in realtà detti obiettivi sono comunque legati da relazioni di causa effetto che li inanellano disegnando dei circuiti che sta al management far sì che siano virtuosi”.

Ciò si accompagna tra l’altro a quanto nota Donna a proposito dell’ipotesi della massimizzazione del profitto, considerata improponibile (Simon docet) in sistemi sempre più complessi che operano in condizioni di sempre maggiore incertezza e per i quali, in particolare, il criterio che deve ispirare ogni decisione “assume la natura di una funzione complessa, imperniata su almeno tre variabili: una economica (impatto sul valore per l’azionista), una sociale (impatto sul bene comune) ed una ambientale (impatto sull’equilibrio naturale)”. Oltre a tutto Donna osserva che se tra i portatori di interesse alla distribuzione del valore prodotto dall’impresa ci fossero tentativi di aumentare la propria parte al di là di un’equa divisione, ciò finirebbe per scatenare conflitti potenzialmente dirompenti per la coesione del sistema aziendale.

E c’è infine l’idea che “gli interessi e gli obiettivi economici, da un lato, e gli interessi e gli obiettivi sociali, dall’altro, sono necessariamente in conflitto fra di loro” mentre invece, dice Coda, “E’ ovvio che…nell’immediato non si può migliorare il soddisfacimento delle esigenze di un tipo senza in qualche misura sacrificare quello delle altre,… Ma se si allunga l’orizzonte temporale, il discorso cambia, purché il management abbia ben chiaro che suo compito è di guidare l’impresa su un percorso di sviluppo dalle solide basi…”.

Sulla possibilità di rendere compatibili interessi e obiettivi diversamente orientati si è soffermato recentemente anche Rusconi, secondo il quale l’equilibrio di lungo termine dell’impresa è affidato ad un processo continuo e dinamico di Minimum Mutual Adjustment attraverso il quale gli stakeholder con continuità negoziano e ottengono risposte accettabili alle loro attese; peraltro questo processo da un lato introduce nella vita delle imprese un elemento di costante instabilità e dall’altro rappresenta un stimolo all’innovazione necessaria per rendere economicamente sostenibile tali risposte (G.Rusconi, Ethical Firm System and Stakeholder Management Theories: A Possible Convergence, European Management Review, 2018, Volume 16, Issue 1, Spring 2019).

Su questo problema Rullani si sofferma parlando di una contaminazione tra i fini dei soggetti e dei sistemi, continuamente ricorrente nell’evoluzione dei sistemi produttivi e nel cambiamento dei paradigmi tecnologici, secondo una esperienza che si ripete anche oggi nella transizione alle tecnologie digitali cui dedica un particolare approfondimento. Secondo Rullani i soggetti inseriti nella trama organizzativa dell’impresa si trovano avvolti in “un intreccio complesso di relazioni” capace di renderne compatibili i fini. Tale contaminazione “emerge dai processi di apprendimento evolutivo che, di volta in volta, adattano la struttura al fine (implicito) di stabilire la sopravvivenza e la stabilità del sistema stesso”. Deviazioni innovative da questa traiettoria di apprendimento evolutivo possono essere il frutto di innovazioni capaci di cambiare l’organizzazione sistemica dell’impresa e del suo contesto, poste in essere da soggetti capaci di congegnarle e di farsi carico dei rispettivi investimenti e rischi, a partire dalle quali il processo di contaminazione e stabilizzazione viene con continuità rilanciato.

 

L'impresa come attore autonomo con uno scopo

Tutto ciò porta dunque a considerare l’impresa come un attore dotato di autonomia, resta tuttavia da capire se la sua natura sia quella di un organismo incapace di andare al di là del mero perseguimento della propria sopravvivenza, che si limita ad assicurare risposte soddisfacenti agli stakeholder, o se invece sia riscontrabile nella sua dinamica un elemento di finalizzazione, sovra-ordinato rispetto agli obiettivi gestionali e capace di dare senso alla sua esistenza, come Rullani, Coda e Donna sostengono in termini differenziati ma convergenti.

Rullani infatti osserva che l’impresa quando viene progettata ed avviata è uno strumento dei disegni del fondatore, da cui mutua gli obiettivi da perseguire, ma poi nel suo percorso di crescita essa si apre uno spazio sul mercato e nell’ambiente, si relaziona con i propri stakeholder e le istituzioni, acquisisce le caratteristiche di un sistema che trova e rinnova i propri equilibri in un quadro di vincoli e di relazioni che ne condizionano stabilità e sopravvivenza. L’impresa a questo punto non è comunque un soggetto con un fine che ne ispiri le azioni, ma tuttavia è contraddistinta da una funzione-chiave che ne legittima l’esistenza nell’economia e nella società, ne definisce l’identità, ne spiega la capacità di attrarre il contributo di una pluralità di soggetti regolandone gli interessi nell’ambito della propria organizzazione.

Secondo Coda l’impresa è un istituto economico-sociale con uno scopo, che ne costituisce la ragion d’essere e dà senso alla sua attività. Questo scopo riguarda la sua “missione produttiva” e chi governa e gestisce l’impresa ha la responsabilità di “fare il bene dell’impresa” realizzandone e valorizzandone la missione, così da per assicurarne continuità e sviluppo a beneficio degli stakeholder e della società.

Donna infine parla della buona causa di cui l’impresa, considerata “uno straordinario veicolo di progresso” per soddisfare i bisogni e migliorare la qualità della vita, si rende protagonista col “fornire soluzione a problemi, soddisfare bisogni, esaudire desideri”, interpretando esigenze dei clienti e tenendo “in debito conto i riflessi sociali e ambientali dei prodotti offerti e dei processi gestiti”.

 

L'etica come dimensione costitutiva dell'impresa

Dell’impresa come attore autonomo del sistema economico e sociale finalizzato ad uno scopo sovra-ordinato diversi contributi richiamano poi come elemento intrinseco e costitutivo la dimensione etica, la cui rilevanza è stata posta in particolare luce dal cambiamento culturale e valoriale determinato dalla pandemia.

(Sul ruolo della dimensione etica come carattere costituivo della natura dell’impresa si sofferma in particolare Lorenzo Caselli nel suo già citato Editoriale).

In proposito Coda, Donna, Signori e Schwizer sottolineano che l’impresa non è un “nesso di contratti” ma un “nesso di relazioni” da gestire costruendo un capitale di fiducia, e che gli stakeholder non vanno considerati come categorie economiche ma come soggetti con proprie identità, storia ed esperienze, che occorre conoscere in modo approfondito e di cui occorre comprendere a fondo le esigenze. È in questo quadro tra l’altro che Bentivogli sollecita un “cambio di paradigma” nella contrattualistica del lavoro, col passaggio “da un mero scambio tra lavoro e salario ad un rapporto di reciprocità tra progetto di lavoro e benessere della persona”.

Secondo Cortese e Cantino la rottura degli equilibri sistemici provocata dall’emergenza Covid-19 propone la necessità di un reciproco ascolto tra impresa e società, e sottolineano l’esigenza che l’impresa riconnetta azione e fini rispondendo alla responsabilità di concorrere al comune benessere.

Per Ruisi “La declinazione del finalismo aziendale finisce inevitabilmente per orientarsi verso il bene comune, a partire da quello dell’imprenditore e delle diverse categorie di stakeholder, tracimando verso la società e gli ecosistemi di riferimento…ogni impresa in quanto protesa al bene comune, diviene essa stessa bene comune, bene della comunità”.

Di Carlo pone al centro del dover essere dell’impresa il principio del bene comune: l’impresa è una comunità i cui membri vanno considerati, secondo il principio della dignità umana, non come strumenti ma come un fine in sé; al contempo l’impresa va considerata come “una comunità di persone avente un interesse da rendere compatibile con il bene comune della più ampia comunità in cui vive ed opera”.

De Simone infine enuncia alcuni principi utili per guidare le imprese, nei diversi ambiti e livelli delle loro attività, coerenti con precise coordinate di riferimento filosofiche ed etiche.

In conclusione, i contributi forniti nel dibattito a proposito dei fini e della natura dell’impresa nell’epoca della pandemia possono dunque essere sintetizzati in questi termini. L’impresa:

  • si configura come un bene comune, cioè come un istituto economico-sociale, un sistema socio-tecnico, un attore del sistema economico e sociale autonomo, a cui però sono a vario titolo interessati gli stakeholder e la società,
  • che opera facendo il bene comune, cioè come una comunità che considera i suoi membri come persone in sé e che opera in funzione di uno scopo, di una missione produttiva volta a risolvere problemi e a soddisfare bisogni producendo beni e servizi e tenendo adeguato conto dei riflessi sociali ed ambientali della propria attività, perseguendo quindi il bene comune della comunità più ampia in cui è inserito.  

 

 

Lo Statement della Business RoundTable: una questione solo americana?

 

La riconsiderazione dei fini e della natura dell’impresa che emerge dal dibattito consente di ricondurre lo Statement on the Purpose of a Corporation della Business RoundTable, al di là della sua celebrazione come svolta epocale o della sua derubricazione a mera espressione propagandistica o opportunistica, ad un più meditato quadro di valutazioni.

Coda considera lo Statement, al pari delle B Corporations, come espressione di un movimento di idee e di esperienze alimentato da un lato dalla consapevolezza della serietà dei problemi sociali ed ambientali provocati dalle logiche della creazione di shareholder value nel breve termine e dall’altro dalle sollecitazioni prodotte dalla Stakeholder Theory di Freeman e dal modello del Corporate Shared Value di Porter e Kramer. Tuttavia lo stakeholder approach andrebbe declinato alla luce di una visione strategica, per evitare tra l’altro il rischio sottolineato da Donna che senza una bussola capace di indicare la rotta la gestione dell’impresa venga consegnata alla discrezionalità, ed all’opportunismo, del management. Anche Sassoon osserva che la svolta, “vera o supposta”, della Business RoundTable vada ricondotta da un lato all’esigenza di dare risposta ad un quadro di generale aumento delle disuguaglianze e dall’altro ad una accresciuta sensibilità alla responsabilità sociale dell’impresa. Signori considera lo Statement come la codificazione di prassi ormai largamente diffuse che vedono i doveri fiduciari dei manager indirizzati alla generalità degli stakeholder: si inverte il tradizionale rapporto mezzi-fini e gli stakeholder sono considerati non come strumenti ma come destinatari dei processi di creazione del valore.

Gozzi peraltro osserva che la serietà della svolta della business community americana andrà verificata alla luce delle tendenze oligopolistiche in atto nel capitalismo statunitense, a partire dalle grandi corporation dei social media, e dell’effettivo riequilibrio in direzione della sostenibilità dell’asse degli investimenti dei fondi e delle grandi banche d’affari. Analogamente Bentivogli riconosce che la svolta della Business RoundTable non è un fatto casuale, ma deve ora trovare conferma in impegni veri e tangibili. Da questo punto di vista osserva come sia paradossale “che i Ceo che han firmato il documento sulla sostenibilità del 2019 guadagnino fino a quasi 300 volte i loro dipendenti, mentre i Ceo che firmarono il documento del 1977 di stampo liberista guadagnavano ‘solo’ 50 volte tanto”.

Lo Statement della Business RoundTable può dunque essere considerato come il segnale di un cambiamento culturale e di una presa di coscienza, da parte della business community americana, dei guasti provocati dalla shareholder primacy in termini di disuguaglianze, minacce agli equilibrii dell’ambiente, spinte a reazioni di carattere populistico. Con lo stakeholder approach le grandi corporation americane si ripropongono orgogliosamente come protagoniste della scena economica e sociale, ritenendosi capaci di promuovere una nuova epoca di prosperità.

Tuttavia alcuni interventi sottolineano come lo Statement rifletta problemi ed atteggiamenti tipici nel contesto americano, ma non necessariamente riscontrabili in quello europeo ed italiano.

Sassoon osserva che lo short-termism è stato più diffuso in USA che in Europa ed in Italia, e più tra le società quotate che tra le imprese famigliari. Gozzi ricorda come la cultura d’impresa europea ed italiana abbia molto più spesso e da più tempo frequentato i temi della responsabilità sociale, del coinvolgimento dei lavoratori, del rispetto dell’ambiente, e che in Italia in particolare la lezione di Adriano Olivetti riemergerebbe “silenziosamente” in tante imprese attente al capitale umano e capaci di un approccio inclusivo. Bentivogli cita esempi vecchi e nuovi di imprese italiane capaci di visioni consapevoli e lungimiranti. Analogamente Donna sottolinea la presenza al di fuori degli USA di tante imprese, come per esempio le piccole imprese italiane a carattere familiare, che non replicano il modello e la cultura delle grandi corporation americane. Sturabotti, Venturi e Baldazzini notano nel nostro paese una crescente diffusione di imprese dal carattere “coesivo”. 

In altri termini, il problema di una svolta nel comportamento delle imprese sarebbe un problema soprattutto americano, mentre in Europa ed in Italia le indicazioni dello Statement sarebbero scontate e riassorbite nelle migliori espressioni della dottrina e della prassi. Tuttavia non sono mancati neppure in Europa ed in Italia casi di imprese “irresponsabili” (alla Gallino), all’origine di disuguaglianze sociali, devastazioni ambientali, alimentazione di spinte populiste, e senza che si determinassero nell’ambito della business community e dell’opinione pubblica una riflessione forte ed una esplicita presa di coscienza come quella che negli USA si è tradotta nello Statement della Business RoundTable. E’ dunque necessario, sia qua che là, che la formazione culturale e professionale degli imprenditori e dei manager (Spinelli), i principi ed i valori condivisi e diffusi, le norme, i regolamenti ed i sistemi di governance che sovraintendono all’attività delle imprese e le politiche pubbliche che le indirizzano concorrano a configurare una trama, appropriata di volta in volta rispetto alle specifiche circostanze, all’interno della quale le imprese siano portate a darsi ed a perseguire uno scopo (purpose) all’altezza del bene comune.

 

 

Alcuni percorsi di approfondimento.

 

La ricognizione appena svolta, strettamente finalizzata ad enucleare le frontiere evolutive dell’impresa dal punto di vista dei suoi fini e della sua natura, finisce per non dare pienamente conto né dell’ampiezza dei temi affrontati nel dibattito né della ricchezza del loro approfondimento per i quali si rinvia ad una lettura diretta dei diversi contributi.

Ci sono invece alcune questioni, appena accennate o lasciate intravedere, che potrebbero essere riprese ed alimentare ulteriormente il dibattito. Intorno ad esse ci si limita in questa sede a segnalarle con alcuni cenni di commento.

Una prima questione riguarda la corporate governance. Intorno ad essa ha fornito spunti di grande interesse Paola Schwizer, che nel suo contributo ha richiamato il rischio come decisivo fattore di evoluzione di questi sistemi ed ha indicato i temi della sostenibilità e del purpose come fondanti di un nuovo orientamento alla stakeholder governance, sottolineando il ruolo che può essere giocato in questo ambito dagli Amministratori indipendenti.

Rilevanti in proposito sono anche le osservazioni di Silvana Signori che sottolinea come la svolta evocata dallo Statement della Business RoundTable presupponga l’utilizzo di sistemi di rendicontazione e di valutazione delle imprese coerenti con la logica dello stakeholder value; quelle di Sassoon per il quale il superamento della logica dello short-termism a favore di comportamenti purpose oriented presuppone la revisione dei meccanismi di governance e di incentivazione dei manager in funzione di obiettivi di creazione di ”un valore di lungo termine condiviso e sostenibile”; quelle di Bentivogli secondo il quale al di là dei codici etici, dei bilanci di missione e dei rapporti di sostenibilità occorre cambiare la cultura  organizzativa e gestionale; quelle di Ruisi secondo cui tuttavia l’uso diffuso e corretto di nuovi e adeguati framework e KPIs sconta i tempi lunghi necessari per un cambiamento innanzitutto culturale; quelle di Di Carlo secondo il quale in un’impresa che opera in vista del bene comune il ruolo della governance è quello di mediare tra gli interessi degli stakeholder per il bene dell’impresa; quelle di Donna relative alla corretta interpretazione dei ruoli di governo e di gestione delle imprese: agli shareholder tocca definire la “buona causa” e sorvegliarne l’implementazione mentre sul CEO e sul management  ricade la responsabilità di assicurare tale implementazione attraverso la finalizzazione e la coesione dei comportamenti organizzativi.

In proposito tuttavia vale la pena di ricordare anche alcune osservazioni di Colin Mayer in tema di ownership e governance. Secondo Mayer infatti (come d’altra parte anche per Coda) ownership non implica solo diritti ma anche responsabilità ed in particolare l’obbligo a supportare il perseguimento dello scopo (purpose) dell’impresa. Tale scopo andrebbe dichiarato formalmente (come è previsto in Italia per le “Società Benefit”) e ad esso, piuttosto che agli interessi degli shareholder, andrebbero allineati ed i sistemi di governance, responsabilizzazione e remunerazione; in questo quadro secondo Mayer la responsabilità fiduciaria del Consiglio di Amministrazione va esercitata nei confronti di shareholder e stakeholder. In proposito poi in un’ampia recensione di “Prosperity” (An Alternative View of Corporate Purpose: Colin Mayer on Prosperity, Rivista delle Società, gennaio-febbraio 2020) Guido Ferrarini ricorda che il problema della stakeholder governance può trovare risposta attraverso soluzioni ispirate alternativamente al representative model, secondo il quale gli stakeholder nominano nel Board i loro rappresentanti che negoziano politiche utili ad assicurare il benessere comune, o al trustee model, secondo il quale il Board  agisce nell’interesse dell’impresa coordinando contributi e vantaggi di tutti gli stakeholder.

Una seconda questione riguarda invece la tendenza ormai prevalente a parlare genericamente di stakeholder senza fare nessuna distinzione, come se la loro natura, la rilevanza dei loro rapporti con l’impresa e le politiche di engagement dell’impresa nei loro confronti non cambiassero da uno stakeholder all’altro. In proposito Sassoon osserva che “per stakeholder non si considerano più solo i gruppi sociali rappresentati nella e dalla impresa come i dipendenti, i fornitori e i clienti, ma anche le realtà circostanti, da quella più ristretta costituita dalle comunità territoriali e locali a quella più ampia di tutte, ossia niente meno che il futuro del pianeta nell’attuale contesto di cambiamento climatico”.

Tuttavia un conto sono le interazioni dirette con gli stakeholder coinvolti nel modello di business (fornitori, clienti, partner e così via), che possono essere regolate sul piano transazionale e relazionale; un conto sono i rapporti con le Organizzazioni Sindacali: diretti quando riguardano la singola impresa, indiretti quando riguardano insiemi di imprese a livello territoriale o professionale e comunque regolati attraverso le norme e la contrattazione; un conto è considerare stakeholder una comunità territoriale, un gruppo sociale, le istituzioni pubbliche, l’ambiente tout court, o addirittura le future generazioni: attori e realtà alle quale le imprese si possono rapportare con comportamenti di volta in volta passivi, reattivi e proattivi, più o meno indirizzati e regolati attraverso norme, regolamenti, politiche pubbliche.

Infine, nella già citata recensione al libro di Colin Mayer, Guido Ferrarini osserva che la protezione degli stakeholder è assicurata da contratti, norme e regolamenti (come nel caso delle leggi sull’ambiente e sul lavoro) ma anche dai sistemi di corporate governance nei limiti in cui i loro interessi siano tutelati a livello di Board o di management.

Una terza questione riguarda il ruolo dello Stato e delle istituzioni, richiamato nel dibattito da Di Carlo secondo il quale vedere nell’impresa un’entità impegnata a realizzare il bene comune chiama in causa il ruolo esercitato tramite l’attività politica e di governo nella definizione del bene comune verso il quale le imprese dovrebbero orientarsi. (Ciò in assonanza con Colin Mayer secondo il quale norme e regolamentazione dovrebbero essere progettate, laddove appropriato, per allineare gli scopi (purposes) delle imprese agli scopi (purposes) pubblici).

Tutto ciò ovviamente apre un problema piuttosto che risolverlo: il tema del ruolo e dell’intervento dello Stato nell’economia, e più in particolare nella vita delle imprese, si ripropone oggi ancora una volta, ed ancora una volta come negli anni ’30 del secolo scorso non per scelte di carattere politico o ideologico, ma per far fronte ad una crisi, rispondere alla emergenza sanitaria ed economica, creare le condizioni per un futuro più equo e sostenibile.

Le soluzioni delineate sono più di una:

  • lo Stato finanziatore, che garantisce il credito alle imprese in difficoltà;
  • lo Stato azionista di minoranza, che apporta capitali di rischio per sostenere le imprese in vista del rilancio,
  • lo Stato azionista di controllo che deve dare una missione (un purpose) alle imprese controllate;
  • lo Stato “pilota” che promuove progetti strategici e percorsi di sviluppo innovativi (esercitando un ruolo più volte proposto da Mariana Mazzuccato) mobilitando secondo logiche di partnership istituzioni ed operatori specializzati: Università, centri di ricerca, istituti di formazione, imprese pubbliche e private.

Queste soluzioni possono essere praticate attraverso varie modalità:

  • in una prospettiva temporale temporanea o permanente;
  • prevedendo o meno specifiche condizionalità;
  • partecipando o meno alla governance;
  • restando o meno nell’ambito di progettualità strategiche e innovative.

Esiste dunque un’ampia gamma di leve sulle quali lo Stato può agire per indirizzare le imprese verso obiettivi di interesse generale, fatta salva l’esigenza che anche chi ha compiti di governo li adempia perseguendo uno scopo (purpose) qualificato sul piano etico e della responsabilità sociale.

Un’ultima questione riguarda il fatto che, come ricorda Donna, “il sistema ABC (Academy/Business/Consulting) di matrice USA ha occupato e mantiene una posizione dominante nel catalizzare il dibattito sul governo e sulla gestione dell’impresa”, e quindi anche le teorie ed i modelli in tema di fini e natura dell’impresa che vengono presi a riferimento rischiano di essere influenzati dalle caratteristiche delle imprese e del contesto che li ispirano.

Occorre dunque essere attenti a distinguere nell’ambito delle teorie, dei modelli interpretativi e delle pratiche manageriali quanto ha validità generale da quanto invece è legato alla realtà di specifici contesti, e ciò è particolarmente rilevante quando si tratta, nelle Università e nelle business school, di progettare i percorsi formativi dei futuri imprenditori e manager (Spinelli).

Si tratta in conclusione di questioni che concorrono a tener aperto il tema dei fini e della natura dell’impresa, di per sé legato all’evoluzione interattiva delle imprese, dell’economia, della società ed esposto ad un continuo divenire.

La ricerca, la riflessione ed il dibattito continuano.

Le pagine di Impresa Progetto sono aperte a quanti vorranno ancora intervenire su questi temi.

 

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Questo numero di Impresa Progetto è uno Special Issue interamente dedicato a “I fini e la natura dell’impresa dopo lo Statement della Business RoundTable e l’emergenza Covid-19”.

Il numero è introdotto da due Editoriali: il primo di Pier Maria Ferrando, I fini e la natura dell’impresa: una frontiera in divenire, prende in rassegna i contributi pervenuti in risposta alla call pubblicata sul n.1/2020 del Journal ricostruendo attraverso di essi le prospettive evolutive del tema, il secondo di Lorenzo Caselli, L’etica non è un di più, riprende ed approfondisce il problema dell’etica come dimensione costitutiva dell’impresa, già emergente nel dibattito attraverso diversi contributi.

Vengono poi presentati i 18 contributi, secondo una sequenza che suggerisce un possibile ordine di lettura (all'interno di ogni gruppo gli Autori sono collocati in ordine alfabetico):

  • contributi di carattere generale: Vittorio Coda; Enzo Rullani;
  • le logiche evolutive di impresa e di sistema di fronte all’emergenza Covid-19: Antonio Botti; Damiano Cortese e Valter Cantino; Emiliano Di Carlo; Giovanni Maria de Simone; Marcantonio Ruisi;
  • le risposte evolutive di impresa e di sistema: Marco Bentivogli, Antonio Calabrò; Marco Frey; Antonio Gozzi; Enrico Sassoon; Silvana Signori; Riccardo Spinelli; Domenico Sturabotti, Paolo Venturi e Andrea Baldazzini;
  • politiche e strumenti gestionali rilevanti: Arianna Pierantoni; Paola Schwizer;
  • un “gran finale” con i protagonisti in scena: intervista di Giorgio Donna a Lady Impresa.

Anche le Sezioni del Journal dedicate alle interviste e alle recensioni affrontano e approfondiscono argomenti strettamene connessi col tema dello Special Issue.

Per la Sezione dedicata all’ospite, Paola Paniccia ha intervistato Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano, Vice Segretario Generale e Responsabile per l’azione climatica dell’Unione per il Mediterraneo, sul tema “Ambiente, sviluppo e fini dell’impresa al tempo del Covid-19”; nell’intervista vengono evidenziate in particolare l’ampiezza e la profondità delle implicazioni del cambiamento climatico.

Per la Sezione delle Recensioni, invece, Roberto Albano ha esaminato il libro di Daniele Marini “Fuori classe. Dal movimento operaio ai lavoratori imprenditivi della Quarta rivoluzione industriale”, mettendo in luce come l’evoluzione delle coordinate spazio-temporali delle prestazioni di lavoro sia destinata a generare profondi cambiamenti nei rapporti tra uomo ed impresa.

 

Buona lettura!