Connessi o non connessi? that is the question...

Editoriali
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Con il 1 gennaio del 2017 è entrata in vigore in Francia la discussa Loi travail, approvata dal Parlamento lo scorso agosto, che riforma il diritto del lavoro e le regole della contrattazione collettiva. Uno degli articoli di questo testo - il n. 55 per la precisione - si occupa delle modalità per l’attuazione del pieno esercizio di quello che, da tempo, è stato ribattezzato come il “diritto alla disconnessione”.

Molti e controversi sono stati i commenti anche su questo punto. “Lo Stato legifera su cosa ‘non devono’ fare i lavoratori nel proprio tempo libero .. Paradossi del tempo presente” è l’opinione, apparsa su Le Monde, di Caroline Sauvajol-Rialland, professore all’Istituto di Studi Politici di Parigi ed autorevole voce nel dibattito odierno francese. Altri – ed è il caso di alcune note pubblicate su Le Pariesien – ironizzano sulla scelta di porre limiti in un mondo del lavoro sempre più fluido. Altri ancora, dalle colonne di Le Figaro, paventano il rischio che il rafforzamento di questo diritto si traduca, paradossalmente, in incrementi di stress.

Insomma, l’eco che la notizia ha prodotto a livello mediatico, ben oltre i confini nazionali, invita a riprendere l’argomento, cogliendo l’occasione per riflettere ancora sul tema del cambiamento del lavoro e la trasformazione digitale, le cui implicazioni (organizzative e sui comportamenti individuali) sono molteplici e non ancora del tutto chiare, come normale per un fenomeno in evoluzione a cui occorre rivolgere particolare attenzione. Da un lato, infatti, sembra utile chiarire il nocciolo della questione, per provare a fare ordine su aspetti un po’ troppo frettolosamente tra loro assimilati; dall’altro, può aiutare la comprensione della problematica il suo inserimento nell’alveo degli studi sui media and information systems. Proviamo ad andare con ordine.

 

Innanzitutto, di cosa si tratta? A partire dal nuovo anno, in base alla previsione contenuta nell’articolo citato, le aziende con un numero di dipendenti maggiore di 50 dovranno negoziare, con i lavoratori e le loro rappresentanze, le modalità di applicazione del diritto a non rispondere ad e-mail ed a messaggi di ogni tipo, quando questi arriveranno oltre l’orario di lavoro (e che questo venga definito un ‘diritto’ da regolamentare la dice lunga). L’esito di questa trattativa sarà la definizione precisa dei momenti in cui i lavoratori legittimamente potranno astenersi dal controllare sui loro devices la presenza di comunicazioni di lavoro e, per le aziende con più di 300 dipendenti, la pubblicazione di una carte in cui saranno indicati diritti e doveri al di fuori dell’orario di lavoro. Peraltro, la norma non prevede sanzioni - quindi le imprese che non si adegueranno non rischieranno nulla - ma viene suggerita l’organizzazione nelle aziende di corsi finalizzati ad insegnare “l’uso ragionevole dei dispositivi di connessione”, implicitamente evidenziando così quando il modo di affrontare il problema a vada oltre la sua possibile regolamentazione. Sin qui, in estrema sintesi, la descrizione dei contenuti essenziali.

 

Cosa si nasconde dietro all’espressione “diritto alla disconnessione”? Tralasciando gli approfondimenti prettamente giuridici (che i colleghi affrontano con maggiore competenza) è forse però utile ricordare che è proprio nell’alveo della giurisprudenza francese (a cui va riconosciuto il merito di una anticipatoria attenzione per le implicazioni del cambiamento tecnologico su modalità ed organizzazione del lavoro) che esso è stato discusso per la prima volta ad inizio del nuovo millennio. Ed è sempre in quel contesto che il “diritto alla disconnessione” è stato identificato come “il” diritto alla vita privata del XXI secolo, affermandone così un ’intrinseco valore primario: a fronte del crescente rischio che le ‘tradizionali’ barriere tra vita lavorativa e vita privata siano abbattute, come conseguenza del mutamento in atto nel lavoro digitalizzato (e sarebbe troppo facile, a questo riguardo, rifugiarsi nel dubitare che di ‘progresso’ si tratti) che confonde e mischia i tempi dell’una e dell’altra, la sua introduzione equivale a ribadire la necessarietà di uno spazio della persona che, come tale, vada garantito anche e soprattutto laddove l’innovatività delle situazioni richieda risposte inedite.

 

L’emanazione della legge francese era stata preceduta da un ampio dibattito favorito dalla pubblicazione dei risultati di uno studio – il rapporto Mettling – volto ad approfondire gli effetti della rivoluzione digitale sulle relazioni di lavoro consegnato nel settembre del 2015 al Ministro del Lavoro in carica, ma in realtà commissionato dal precedente. L’indagine è di quelle importanti, sia per l’autorevolezza dei soggetti che hanno contribuito a realizzarla (vi hanno partecipato alcune delle maggiori società di consulenza internazionali) che per la visione a tutto tondo in cui la trasformation numérique è collocata. Da ultimo, anche per i numeri dei lavoratori coinvolti danno la misura di un lavoro ‘spesso’. Il rapporto si concentra sull’analisi degli effetti del digitale sulle condizioni di lavoro, la sua organizzazione e la sua gestione, focalizzando, analizzando e sintetizzando molto del dibattito sulla questione, per evidenziare sfide e proporre – in coerenza con il mandato ricevuto – alcune raccomandazioni (sono 36, a dire il vero), molte delle quali sono state tentativamente inserite nel testo di legge approvato. Completa il fascicolo un’indagine diretta realizzata su 4500 manager: è da questa che viene, ad esempio, evidenziato come solo un quarto di questi smetta di consultare i propri devices durante il tempo libero, o come oltre il 30 % segnali che il rapporto coi collaboratori tenda ad essere difficile al crescere dell’interazione digitale, o ancora come negli ultimi anni siano aumentati in misura significativa i problemi di salute psicofisica in parallelo al diffondersi ed all’intensificarsi dell’uso dei dispositivi digitali. Aspetti, questi, su cui torneremo, perché emblematicamente fotografano la situazione e ci indirizzano alla radice del problema.

 

In realtà, l’interesse al tema connota da tempo il mondo delle imprese. Sono molte quelle, qua e là per l’Europa, che hanno emanato direttive, introdotto regole o sollecitato comportamenti volti a contenere un fenomeno (quello della connessione continua, oltre l’orario – ma non solo quello come alcuni casi evidenziano), le cui negative conseguenze sembrano risaltare sempre di più. Giusto per citarne alcune, nel novero di quelle cui la stampa ha dedicato attenzione.

Tra le prime Deutsche Telecom. Dal 2010 l’azienda ha stabilito che nessun collaboratore sia tenuto a leggere la posta una volta lasciato il proprio posto di lavoro. A sostenere fortemente l’idea è stato il direttore del personale, personalmente e pubblicamente pentito del suo stesso comportamento troppo work oriented e work absorbed e profondamente interrogato dai tragici eventi che, nello stesso periodo, avevano avuto luogo tra i dipendenti di France Télécom.

Nella direzione di limitare la connessione si sono mosse anche Volkswagen (dal 2011 l’azienda spegne il proprio server alla fine dei turni e lo riaccende poco prima dell’inizio e nello stesso intervallo sono ugualmente sospese le comunicazioni sugli smartphones), Bayer, Henkel, BMV e Daimler (molto citata per la radicalità e la nettezza del provvedimento adottato: non solo il lavoratore non deve guardare la posta in arrivo quando ha terminato il lavoro, ma questa viene automaticamente cancellata quando lo stesso ha attivato il suo stato ‘non in linea’) . Ancora, la nota compagnia di assicurazioni Axa ed Areva – società che opera nell’ambito energetico – hanno stabilito limiti e condizioni precise all’invio di messaggio su qualsiasi canale fuori orario. Orange ha chiesto ai propri dipendenti di non usare la posta elettronica ed i sistemi di messaggistica in particolari situazioni, e non solo “dopo” il lavoro (ma anche durante le riunioni, ad esempio).

Le aziende di consulenza informatica che aderiscono a Syntec – la federazione che raccoglie le società francesi del settore – avevano già nel 2013 raggiunto un accordo per evitare messaggi dopo le 18 e durante i fine settimana. Qualche impresa ha poi lanciato il freemail day, con l’intento di favorire la comunicazione diretta tra colleghi durante l’orario di lavoro. E la lista dei casi (variegati e compositi come si può ben vedere) potrebbe allungarsi.

 

Di che cosa ci stiamo occupando? La questione appare a prima vista chiara. Come espressamente chiarito nella presentazione della misura volta a supportare il diritto alla disconnessione, essa è stata pensata per fissare un confine tra la flessibilità del lavoro, che assume sempre più i connotati di un tempo lavorativo dilatato, e la presenza, ad invadenza crescente, delle nuove tecnologie, che – muovendosi nell’era del wireless e del mobile – rendono nei fatti i lavoratori sempre collegati e, pertanto, disponibili (a ricevere richieste, informazioni, notizie; ed a rispondere; in un flusso potenzialmente continuo di comunicazione). Non è un caso che nella realtà italiana il richiamo a questo diritto compaia nelle proposte che intendono regolamentare le modalità di lavoro agile e, in generale, tutte le forme di lavoro che richiedono sempre meno lo svolgimento di attività da un luogo fisso e con orari predeterminati.

In sintesi, da un lato c’è la questione del tempo di lavoro che rarefacendosi, si dilata; dall’altra c’è il tema del ruolo che le tecnologie giocano nella vita delle persone, ben oltre il perimetro del lavoro, intrecciando trame inedite con fili dai colori sempre meno diversi.

 

Sul primo versante. La letteratura manageriale usa espressioni quali time porosity o spillover time per sintetizzare quel fenomeno che porta il tempo di lavoro ad invadere il tempo della vita. Accordi e provvedimenti normativi (già in vigore come in Francia o ipotizzati, come in Italia) si ripropongono di porre limiti alla tendenza (ma forse è meglio chiamarla prassi) di un numero crescente di lavoratori a “non staccare”, continuando a mantenere aperta la finestra sulla propria attività oltre l’orario di lavoro (ma forse sarebbe utile aggiungere il consueto orario, perché la questione non concerne solo quei lavoratori il cui orario sia delimitato temporalmente, ma anche quelli che a ciò non sono contrattualmente tenuti). E che questa tendenza sia esito di una complessa dinamica di rapporti tra un management che richiede attenzione continua e collaboratori che, in maniera più o meno spontanea, favoriscono questo modo di relazionarsi (o non hanno strumenti per opporvisi) è forse il vero tema.

 

In questa prospettiva c’è un punto da non sottovalutare. L’esperienza insegna che spesso sono i lavoratori ad infrangere le regole di non connessione. Che lo facciano per mossa propria o su pressione del contesto organizzativo non è forse così facile da chiarire. In molti condividono l’idea che il rapporto con i dispositivi di connessione tenda ad assumere connotati schizofrenici. Peraltro, non mancano studi che collegano alla connessione continua una presunta minore qualità del lavoro. Perché, come viene sottolineato, la propensione a reagire di continuo riduce la capacità di agire, perché l’interruzione continua ostacola la concentrazione e la focalizzazione sugli obiettivi. Qualcuno contrappone a questa fotografia il “dovere” alla disconnessione, identificando con questa indicazione la spinta verso un comportamento personale che consapevolmente si rapporta al contesto tecnologico e lo gestisce, senza esserne assorbito.

Dall’altra parte alcuni studi iniziano a documentare il diffondersi di un modo diverso di lavorare, dove la collaborazione è la nota dominante, connotato da logiche che favoriscono i circoli virtuosi di accrescimento della conoscenza condivisa, che si alimenta di interazione continua, che viaggia su sentieri inesplorati, che sollecita l’intelligenza laterale, che coglie da luoghi inattesi occasioni di apprendimento Si aggiunga a questo l’emergere di segnali di quella che potrebbe essere definita, un po’ ad effetto, una sorta di mutazione genetica delle generazioni più giovani (i famosi ‘nativi digitali’) la cui crescente propensione multitasking mitigherebbe gli effetti negativi sopra richiamati e offrirebbe terreno fertile per sostenere la positività del dialogo incessante sui molteplici e variegati versanti che la connettività offre (in uno scenario nel quale i piani lavorativi e relazionali si intersecano siano a confondersi). La situazione, insomma, si complica ulteriormente se ci soffermiamo sul fatto che di ‘vita connessa’ si sta parlando (e questo è qualcosa di molto diverso dal tema della connessione tra lavoratore e datore). Vita connessa, che a volte pare sostituirsi alla vita ‘reale’, anche entro i confini aziendali (l’invito a parlare con i colleghi, altra sfaccettatura del mondo che sta dietro al ‘diritto alla disconnessione) riproponendo il tema del rapporto tra la persona e le nuove tecnologie, della capacità della persona di usare dell’ICT con pienezza e consapevolezza.

 

E qui occorre addentrarsi nella seconda questione.

Le cd. advanced information technologies AITs rappresentano un tassello fondamentale del nostro tema. Senza i recenti sviluppi che queste hanno mostrato ed il cambiamento conseguente nel contesto ambientale, la questione del ‘connessi o non connessi’ non avrebbe ragione di esistere. In questo senso, lo sviluppo delle AITs (e la familiarità nei loro confronti che, quello stesso sviluppo, ha agevolato) rappresenta una premessa indispensabile, anche se – come cercheremo di chiarire – il loro ruolo facilitante non è che uno degli elementi su cui riflettere. Come noto, l’espressione AITs è stata utilizzata a partire dagli anni ’90 per identificare l’evoluzione di alcune caratteristiche nelle information and communication tecnologies con riferimento alla capacità di immagazzinare dati, di trasmetterli e processarli che le ha rese meno costose, più veloci e meno ingombranti. Il loro sempre più invadente ruolo nella vita (non solo lavorativa) delle persone è efficacemente spiegato dal technology acceptance model, che ha studiato, a partire dai primi anni del 2000, la relazione tra l’attitudine individuale verso la tecnologia ed il suo uso effettivo nel contesto lavorativo (ma….), suggerendo che due siano i punti fondamentali: l’intenzione di uso, dipendente da tre dimensioni - l’utilità percepita, la facilità d’uso percepita e l’influsso sociale che vede nel commitment del management la sua punta di diamante - e le condizioni facilitanti, sulle quali l’organizzazione gioca un ruolo determinante.

 

Le assunzioni spazio-temporali implicate nel technology acceptance model necessitano di essere riviste alla luce della cd. portabilità dei sistemi tecnologici, il dato che costituisce il nuovo profondo cambiamento nel cui alveo si innesta la questione di cui stiamo ragionando. È l’avvento e soprattutto l’interazione di wireless and mobile che stanno producendo gli effetti che ci interessano. Come noto, il termine wireless si riferisce alla modalità di trasmissione dei dati su onde radio, attraverso quella che oramai definiamo semplicemente la ‘rete’. Mobile indica invece la portabilità del device, caratteristica che dipende dalle caratteristiche fisiche dello stesso (inversamente proporzionali alla potenza d’uso).

 

Il grande mutamento, recente (ma oramai tanto consolidato da apparirci ovvio) e fondamentale per il tema della ‘connessione’ e delle sue implicazioni, è costituito dal combinarsi delle due caratteristiche. La prima conseguenza è emblematicamente rappresentata dalla crescita della disponibilità spazio-temporale dei supporti sino a quello che gli studiosi chiamano l’ubiquitous state, lo stato praticamente continuo di connettività. In questo senso, la trasportabilità del device diventa portabilità del sistema nei due aspetti fondamentali, quello dell’hardware e quello del software (che adattandosi alle caratteristiche dei dispositivi portabili li rende utilizzabili in ogni contesto e pero ogni funzione).

La portabilità influenza direttamente alcuni degli aspetti che l’Unified Theory of Acceptance and Use of Technology-UTAUT considera. Il primo è l’intenzione di uso, il secondo concerne la percezione dello sforzo necessario all’impiego: su entrambi l’influsso derivante dalle nuove caratteristiche è attesa agire in positivo, spiegando così la crescita e la diffusione della portabilità. Ma quest’ultima caratteristica non potrebbe dispiegare tutto il suo potenziale senza la connettività: alla facile manovrabilità dei devices si associa la capacità derivante dal wireless.

 

Gli studi sull’ICT connectivity degli ultimi anni hanno iniziato ad approfondirne le conseguenze di quanto brevemente sintetizzato, innanzitutto sulla produttività (l’orizzonte si sta via via allargando ad altri temi di interesse aziendale così come sta diventando materia per approfondimenti si natura sociologica). Qualche autore ha recentissimamente introdotto il concetto chiave di ICT self-discipline – definita come la capacità individuale di controllare il proprio comportamento verso l’uso dei supporti tecnologici innanzitutto nel contesto lavorativo (ma il filone di indagine si sta estendendo anche all’aree del privato) – costrutto che pare essere particolarmente promettente perché consente di mettere a punto uno strumento prezioso per comprendere e gestire il cambiamento nella natura del lavoro prodotto dalle tecnologie a partire dal soggetto che ne è protagonista. Le prime indagini disponibili evidenziano una significativa variabilità a seconda dell’organizzazione e del settore nel quale il lavoratore opera, confermando così il ruolo che il contesto gioca sulla dinamica del rapporto tra persona e devices e consentendo ulteriori approfondimenti sul versante dell’UTAUT.

 

È evidente che su questo terreno molta strada deve essere ancora percorsa. La questione del ‘diritto alla disconnessione’ non è che una delle tante facce di questa intricata vicenda. Per questo, l’affermazione di un diritto, ed il dibattito che lo accompagna, può costituire un’occasione importante sulla via della comprensione di quello che sta accadendo al lavoro e per rimettere al centro dell’attenzione questioni quali la cultura e l’educazione, nel loro senso più profondo di strumenti per la maturazione della persona, a cui affidare ‘il progresso inarrestabile’ della tecnologia.

 

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Questo numero 3 del 2016 del nostro Journal – che esce dopo il monografico intitolato “Food & heritage: sostenibilità economico aziendale e valorizzazione del territorio” e curato da Valter Cantino e Simona Alfiero – si presenta particolarmente ricco di contenuti, oltre che di novità.

Una prima. È forse infatti utile rammentare da questo numero l’assetto della Rivista cambia. Lo avevamo annunciato nell’editoriale della prima uscita del 2016 ed ora va in operativo. Accanto alla sezione “saggi”, che continuerà ad accogliere papers referati secondo le procedure previste dall’accreditamento AIDEA, il Comitato di Direzione ha deciso di inserire una seconda sezione denominata “contributi” (che sostituisce quella che era definita “contributi e working paper”) e che è destinata ad ospitare documenti di lavoro e di ricerca, in particolare quelli predisposti nell’ambito del percorso di approfondimento che il nostro Journal ha avviato sul tema del monitoraggio delle performance nei sistemi organizzati.

Questa nuova sezione viene inaugurata con le risultanze del workshop su “La misurazione e valutazione delle performance nelle imprese. Stato dell’arte e tendenze evolutive in atto”, organizzato dalla Rivista in collaborazione col Network Italiano Business Reporting e svoltosi a Milano, venerdì 15 luglio 2016, presso l’Università Cattolica.

In particolare, pubblichiamo i materiali delle presentazioni dei quattro modelli di reporting delle performance aziendali intorno ai quali si è svolta la discussione. Si tratta della BSC, presentata da Alberto Bubbio, del modello dell’Intellectual Capital con la sua evoluzione nel WICI Intangibles Reporting Framework, presentato da Stefano Zambon, del Bilancio di sostenibilità GRI, presentato da Marco Frey, dell’Integrated Reporting Framework dell’IIRC, presentato da Lino Cinquini.

Questi materiali sono preceduti da una nota con cui Giorgio Donna fa il punto della storia, antica e recente, della misura delle performance e da un confronto a cura di Pier Maria Ferrando dei quattro modelli con il Framework di analisi a partire dal quale IPEJM ha basato il percorso di approfondimento.

 

La parte destinata ad accogliere i saggi, in questo numero ne ospita sei, di cui tre scritti in italiano e gli altri tre in inglese, ma sempre di autori italiani.

I primi due traggono origine da uno stesso interessante progetto di ricerca – che si concentra sulle specificità delle imprese famigliari – e, usando lo stesso campione di imprese, perseguono scopi diversi e complementari. Uno – di cui sono autrici Elisa Giacosa, Laura Broccardo ed Elisa Truant – si concentra sulle strategie di innovazione che questa tipologia di imprese persegue e le confronta con quelle messe in atto dalle cd. imprese non familiari, esaminando la rilevanza degli investimenti in ricerca e sviluppo e le diverse configurazioni scelte dalle aziende.

Il secondo – firmato da Francesca Culasso, Elisa Giacosa, Luca Maria Manzi ed Elisa Truant – studia i percorsi di professionalizzazione delle aziende familiari comparate a quelle non familiari, mettendo in evidenza l’importanza della pianificazione strategica formalizzata e dei sistemi di controllo,

Lo studio di Rocco Palumbo propone alla nostra attenzione il tema degli approcci di co-produzione dei servizi con riferimento ai servizi di assistenza sanitaria – per i quali il rapporto tra user e provider è viziato da condizioni di asimmetria informativa e da debolezza psicologica del primo - con riguardo all’ambito penitenziario. L’autore esamina gli ostacoli alla co-produzione tipici di questo contesto, fornendo evidenze sulla propensione dei professionisti sanitari penitenziari a concepire le prestazioni di assistenza in un’ottica di centralità del paziente; al contempo segnala come le condizioni di ostilità ambientale indeboliscano la propensione al rinnovamento degli approcci di cura, generando inerzia organizzativa.

Luigi Puddu, Paolo Pietro Biancone, Silvana Secinaro, Maria Chiara Vietti analizzano ed identificano i bisogni informativi dei diversi stakeholders del gruppo pubblico locale ed esaminano come questi siano soddisfatti dagli standard. Il Bilancio Consolidato risulta essere un documento necessario a fornire un’immagine completa delle performance e della situazione economica degli enti locali. Lo studio dimostra come in Italia il Principio Contabile Nazionale presenti molte divergenze se paragonato agli International Public Sector Accounting Standards e suggerisce che questi ultimi vengano presi in considerazione. La trasparenza e la completezza informativa da loro fornita risultano, infatti, adattabili ad un bilancio complesso che sia in grado di fornire agli stakeholder informazioni complete e coerenti sui bilanci ad oggetto.

Alle imprese dell’economia circolare è dedicato il lavoro di Francesca Bartolacci, Antonella Paolini e Michela Soverchia. Le autrici si focalizzano sulle imprese che operano nell’ambito del ciclo integrato dei rifiuti e, in particolare, su quelle che, a vario titolo, attuano i principi dell’economia circolare. Questi, promuovendo la ormai nota “gerarchia dei rifiuti”, mirano ad un uso più efficiente dei rifiuti, mediante la loro trasformazione in risorse da re-introdurre nel sistema economico quali “materie prime secondarie”. L’articolo propone l’analisi di un caso aziendale, considerato tra le best practices nazionali, per evidenziare i diversi elementi che compongono il modello di business dell’azienda e ne analizza le performance, alla ricerca di indicazioni utili per le altre aziende del settore

Da ultimo, Alessandra Distefano e Vincenzo Pisano analizzano il ruolo della Corporate Social Responsibility come strumento per l’adozione d’iniziative sociali volte a migliorare la reputazione aziendale. Con l’impiego dell’Attribution Theory, il lavoro propone un framework concettuale e due esperimenti empirici per dimostrare l’impatto delle iniziative di CSR su attitudini, comportamento e intenzioni di acquisto dei consumatori. Attraverso tali esperimenti, gli autori dimostrano come la valutazione di un’azienda migliori agli occhi del consumatore se le motivazioni sottostanti alle attività di CSR siano considerate sincere e nell’interesse non egoistico dell’impresa.

Come di consueto il numero propone anche alcune interviste. Il primo dei nostri ospiti è Jeffrey Unerman, professore di Accounting e Corporate Accountability al Royal Holloway dell’Università di Londra, che offre una ampia panoramica sulle prospettive dell’Accounting e Reporting per la Sostenibilità. Vengono toccati i punti forza e di debolezza dei principali Framework in gioco, sottolineando il ruolo di tali strumenti nel rendere più trasparenti gli impatti economici, sociali ed ambientali delle attività aziendali e nel favorire la considerazione della Sostenibilità come input dei processi decisionali.

Il dott. Marco di Gioia è stato intervistato da Lara Penco. Direttore per i Government Affairs di Cruise Lines International Association (CLIA) Europe - la più grande associazione di operatori crocieristici - il nostro ospite ci aiuta ad approfondire le caratteristiche ed i nodi di un settore, quale quello crocieristico, di primaria importanza sulla scena economica mondiale.

 

Segnaliamo infine la recensione di Lorenzo Caselli sul volume di Tiziano Vescovi "Lezioni inattese di management. Persone, mercati, imprese, incanti e sorprese", pubblicato da G. Giappichelli. Proseguendo nella scelta di proporre ai nostri lettori approfondimenti di particolare e non contingente interesse, il testo individuato per questo numero rappresenta uno dei più stimolanti nell’odierno contesto degli studi manageriali italiani. Il nostro direttore emerito ben sottolinea l'originalità della scelta dell’autore di 'illustrare tematiche fondamentali di management attingendo a storie e personaggi (da Pinocchio a Salgari, da Marco Polo a Cristoforo Colombo) solo apparentemente lontani dalle discipline aziendali. L’invito alla lettura è tanto scontato quanto doveroso.

 

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Ci è particolarmente gradito annunciare l’ingresso, nel Comitato di Direzione, del collega Renato Fiocca, professore ordinario di Marketing presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano e Direttore Scientifico d Centrimark-Centro di Ricerche di Marketing), da tempo “amico della Rivista” – aveva infatti partecipato con una relazione al Convegno per il Decennale della Rivista. A lui va il nostro caloroso benvenuto.

 

Un cordiale saluto va anche a Simona Alfiero e Gabriele D’Alauro, che entrano a far parte del Comitato di Redazione.

 

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In tema di novità, comunichiamo, infine, che il Comitato di Direzione della Rivista ha deciso di apportare alcune modifiche al format utilizzato per la pubblicazione degli articoli: restando fedeli agli aspetti caratterizzanti del nostro stile, abbiamo ritenuto che i testi dovessero presentarsi in una forma più snella. Gli autori troveranno le indicazioni e le norme all’apposita pagina del nostro sito. Confidiamo che questa scelta faciliti, da parte di tutti, la focalizzazione sui contenuti, vero oggetto di interesse per i nostri lettori, pur non tradendo l’attenzione e la cura dell’estetica che la Rivista ha sempre manifestato.