Tutto è smart... anche il lavoro

Editoriali
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Secondo l’Osservatorio Infojobs, il 2016 sarà l’anno dello smart working: grazie alla pervasività di strumenti mobile e cloud ed alla digitalizzazione di un numero in costante crescita di applicazioni professionali, l’implementazione di politiche di smart working subirà una notevole accelerata. La previsione sembra confermare un fermento che, da un po’ di tempo, fa dello smart working uno dei temi più citati nelle pagine economiche di giornali di ogni tipo.

 

La notizia si affianca, peraltro, ad altre che concernono il versante normativo. La legge di stabilità per il 2016 ha introdotto sgravi legati alla contrattazione di produttività, che - secondo dichiarazioni rilasciate in ambienti ministeriali - potrebbe ricomprendere gli accordi sullo smart working. Il 28 gennaio 2016 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, il cui Titolo II è interamente dedicato alla disciplina del cosiddetto lavoro agile (riprenderemo tra breve la questione terminologica, qui basti sottolineare la sostanziale equivalenza delle due espressioni). È forse utile infine ricordare che due anni fa era stata presentata presso la Camera dei Deputati una proposta di legge intitolata “Disposizioni per la promozione di forme flessibili e semplificate di telelavoro”, che intendeva intervenire su un aspetto regolato da un accordo europeo del 2002 sul telelavoro, che l’Italia per prima aveva applicato e che si suggeriva di rivedere per accogliere i cambiamenti in atto. In quel testo, veniva introdotta l’espressione smart working come formula sintetica per raccogliere il variegato insieme delle “forme flessibili e semplificate di lavoro da remoto”.

Nello schema appena varato, il lavoro agile viene spiegato come “una prestazione di lavoro subordinato che si svolge con le seguenti modalità

a) esecuzione della prestazione lavorativa in parte all’interno dei locali aziendali ed in parte all’esterno ed entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro …; b) possibilità di utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa; c) assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti all’esterno dei locali aziendali.” (art.13, c.2)

Di tutto rilievo e particolarmente delicate per il nostro paese, sono le finalità esplicitamente perseguite (indicate al c.1). Una prima riguarda l’incremento della produttività del lavoro, da sempre individuato come uno dei punti critici del sistema produttivo italiano, questione costantemente richiamata nelle analisi comparative tra gli andamenti della nostra economia e di quelle dei paesi con i quali ci confrontiamo sullo scenario internazionale e per rispondere alla quale poco, ad oggi, si è riusciti a fare (se prendiamo in considerazione i più recenti dati disponibili in tema, ad esempio quelli che OCSE propone con cadenza trimestrale, essi ci indicano un perdurante ritardo nel recupero di questa debolezza strutturale direttamente connessa alla competitività e quindi decisamente importante per una reale ripresa).

Un secondo obiettivo attiene al tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Si tratta di un argomento ugualmente rilevante, strettamente intrecciato con la questione sopra richiamata (come noto, una delle componenti della produttività del lavoro - considerata dal punto di vista individuale - è data dalle condizioni soggettive nelle quali la persona lavora) ed anche particolarmente centrale nella prospettiva socio-economica ed organizzativa (non a caso, il tema del cd. work life balance è da tempo al centro degli interessi degli studiosi, nonché contenuto di molte politiche aziendali di successo).

 

Non è intento di queste note soffermarsi sulla portata giuridica del testo, né tanto meno analizzarlo (come pur sarà utile fare per capirne a fondo i contenuti e le novità introdotte o le speranze disattese) compito che lasceremo ai colleghi giuslavoristi.

L’interesse che ci spinge a proporre qualche considerazione sul tema è dato dal fatto che l’accattivante etichetta smart working - che con sempre maggior frequenza appare sui media, cui molta letteratura è dedicata, che richiama l’attenzione di imprese ed organizzazioni di ogni tipo, sovente attratte dalle mode cui, non senza un po’ di retorica, diventa ritualmente necessario adeguarsi - sembra rappresentare un punto di svolta per la comprensione dell’evoluzione del lavoro. Qualcuno si è spinto a parlare di cambiamento di paradigma.

Lo ha fatto, ad esempio, il Chartered Institute of Personnel and Develpment-CIPD, autorevole e storico istituto inglese impegnato sui temi del management delle risorse umane. In una pubblicazione del 2008 intitolata “Smart working: the impact of work organisation and job design” veniva evidenziato come la combinazione degli elementi sottesi a questo modello (maggiori gradi di libertà, maggiore discrezionalità, orientamento all’empowerment) possa produrre un cambiamento di tale profondità da suggerire, appunto, la possibile emersione di un nuovo paradigma, in grado di introdurre una nuova “work experience” ed un diverso approccio alla relazione con il lavoratore. Il tutto facilitato da nuove condizioni culturali ed organizzative e favorito da tools, che le cd. advanced information technologies (AITs) stanno rendendo sempre più friendly.

Quanto la questione introdotta sia delicata lo conferma, se ce ne fosse bisogno, il fatto che lo stesso CIPD non è tornato ad argomentare la sua ipotesi, nonostante le non poche occasioni in cui le pubblicazioni prodotte hanno ripreso il tema. Sarà sicuramente necessario tornare sull’argomento. Per il momento è prioritario capire di cosa si tratti, quali siano le peculiarità di questa tendenza, in che contesto si collochi, quali riflessioni possano essere proposte per contribuire al dibattito che lo circonda.

 

Un dato resta evidente: l’interesse per lo smart working non si è arrestato. Lo segnalano ad esempio i rapporti che l’omonimo Osservatorio del Politecnico di Milano ha prodotto, nei quali si evidenzia il crescente interesse manifestato dalle imprese (nel 2014, 1 azienda su 10 lo praticava e ancora 1 su 10 era intenzionata ad iniziare a sperimentarlo nel breve termine); lo prova il numero crescente di accordi aziendali che lo introducono (dati recenti anche di fonte giornalistica suggeriscono che circa il 50% delle grandi aziende sta sperimentando questo tipo di modalità di erogazione della prestazione).

Complice il richiamo mediatico, lo smart working ha quindi trovato nuovi e sempre più numerosi adepti, che guardano con attenzione alle potenzialità di questa forma come alla possibilità di muoversi proficuamente su un terreno ancora molto da esplorare, quello del necessario punto di incontro tra le sfide aziendali sempre incalzanti ed i bisogni delle persone, a cui occorre prestare crescente attenzione, se non fosse altro per il ruolo che i lavoratori hanno nei processi produttivi.

 

Rispetto a questa urgenza, sono in realtà molte le etichette usate per identificare i tentativi proposti ed esperiti. Quella di lavoro agile è tra le più usate nel nostro paese: il suo utilizzo nel testo del disegno di legge lo eleva ad un rango ufficiale, ma da qualche anno esso è presente sulla scena. Si ripete, ad esempio, a febbraio la giornata del lavoro agile. Promossa da alcuni grandi Comuni e condivisa da un numero sempre maggiore di organizzazioni, prevede di sperimentare, per un giorno e sulla base di progetti mirati e ben definiti, modalità di lavoro diverse da quella connessa alla presenza fisica sul posto di lavoro, con benefici non solo per il lavoratore (che meglio gestisce i propri tempi), non solo per l’azienda (che vede incrementare la produttività), ma anche per l’environment  (riduzione dell’inquinamento e rivitalizzazione dei tessuti urbani sono due tra le ricadute più citate).

Le diffuse espressioni di activity based working e di flexible work arrangements - il primo molto promosso dal mondo consulenziale, i secondi studiati dalla letteratura scientifica - condividono l’idea che sia necessaria una organizzazione del lavoro diversa, maggiormente fondata sull’uso di discrezionalità e flessibilità, e che quindi concentrarsi su contenuti del lavoro favorevoli all’esercizio di queste due attitudini e trovare modalità concordate tra lavoratore e datore per svolgerli rappresenti una strada interessante da percorrere.

Le espressioni mobile working e nomadic working enfatizzano la consapevolezza che la presenza fisica presso la sede non costituisca necessariamente il “modo” di lavorare e che, in questo contesto, le possibilità offerte dalle nuove applicazioni tecnologiche per svolgere il proprio lavoro e tenersi in contatto con colleghi, superiori e clienti segnino un punto di non ritorno.

Non a caso, secondo l’International Data Corporation, la forza lavoro “mobile” crescerà notevolmente, arrivando a rappresentare nel 2020 circa il 73% del totale della forza lavoro USA, e di questa solo il 28% corrisponderà al “classico” modello del telelavoro, spesso confuso con il nuovo orientamento. I dati europei relativi agli anni 2011-12, raccolti da un progetto di ricerca finanziato in sede comunitaria, mostrano una situazione molto differenziata, che vede Italia e Francia nelle posizioni più basse (con percentuali tra il 5 e l’8) contrapposte a realtà quali la Finlandia dove circa il 33% della popolazione lavorativa può essere considerata quale smart worker.

 

A ben vedere, tutte queste modalità emergenti condividono il tentativo di innovare le modalità di erogazione delle prestazioni lavorative e rimodellare l’approccio all’organizzazione del lavoro facendo leva su alcune parole chiave, non nuove sulla scena ma non per questo meno importanti: flessibilità, che qui sembra potersi declinare in positivo come condizioni di lavoro conciliabili; autonomia (ma è sicuramente più appropriato parlare di discrezionalità, visto che il contesto è quello del lavoro subordinato) nell’esecuzione del lavoro, come risposta al crescere dell’incertezza e dell’esigenza di adattamento dell’organizzazione all’ambiente; responsabilità verso i risultati, che da un lato sostiene la motivazione del lavoratore rispetto a ciò che è richiesto fare e dall’altro mette in discussione l’idea di controllo come tradizionalmente intesa. Tutto questo, ovviamente, in un contesto tecnologico sempre più presente e pervasivo ed in un contesto gestionale orientato al lavoro per obiettivi e alla cultura del risultato, come opportunamente ricorda il già citato Osservatorio.

L’ambito tecnologico definiva già il perimetro di operatività del telelavoro: il lavoro a distanza, svolto in collegamento con la sede centrale grazie a strumenti che neutralizzano la distanza, non ha mai però riscosso troppo successo, anche in forza di una regolamentazione piuttosto rigida, sia per la diffidenza del lavoratore nei confronti del rischio di sentirsi escluso dalla trama relazionale che il luogo di lavoro è, sia per i costi che per le difficoltà culturali ed operative a gestirlo che lo hanno spesso reso inviso al middle management. Lo smart working è qualcosa di nuovo e di diverso - complice innanzitutto l’evoluzione del contesto tecnologico che ha assunto una configurazione completamente diversa, il cui ruolo non è sicuramente neutro - che ha reso evidente un necessitato cambiamento nella cultura della gestione. Proviamo ad evidenziare alcune questioni con riferimento ai due ambiti.

A) Le cd advanced information technologies rappresentano infatti un tassello fondamentale del nostro tema. Senza i recenti sviluppi che queste hanno mostrato ed il cambiamento conseguente nel contesto ambientale, ogni ragionamento sullo smart working molto probabilmente non avrebbe ragione di esistere. In questo senso, lo sviluppo delle AITs (e la familiarità nei loro confronti che quello stesso sviluppo ha agevolato) rappresenta una premessa indispensabile, anche se - come cercheremo di chiarire – il loro ruolo facilitante non è che uno degli elementi su cui riflettere. Come noto, l’espressione AITs è stata utilizzata a partire dagli anni ’90 per identificare l’evoluzione di alcune caratteristiche nelle information and communication tecnologies con riferimento alla capacità di immagazzinare dati, di trasmetterli e processarli che le ha rese meno costose e più veloci. Il loro sempre più invadente ruolo nella vita (anche lavorativa) delle persone è efficacemente spiegato dal technology acceptance model, che a partire dai primi anni del 2000, ha studiato la relazione tra l’attitudine individuale verso la tecnologia ed il suo uso effettivo nel contesto lavorativo, suggerendo che due siano i punti fondamentali: l’intenzione di uso, dipendente da tre dimensioni – l’utilità percepita, la facilità d’uso percepita e l’influsso sociale che vede nel commitment del management la sua punta di diamante – e le condizioni facilitanti, sulle quali l’organizzazione gioca un ruolo determinante. Entrambi gli argomenti entrano in gioco con lo smart working: la possibilità di lavorare flessibilmente e con margini elevati di discrezionalità (per quanto riguarda spazi ed orari) al di fuori del perimetro aziendale è resa possibile dagli strumenti informatici e dalle connessioni di rete, nella duplice accezione di infrastruttura interna ed esterna abilitante, che ancor più rendono interdipendenti le scelte, aziendali e personali. L’aggettivo smart è in qualche modo l’esplicitazione di questo legame, anche se, come sopra rammentato, il core della nuova tendenza sta altrove.

B) Non è un caso che il CIPD consideri lo smart working un approccio all’organizzazione del lavoro che concilia efficacia ed efficienza nel raggiungimento degli obiettivi attraverso una combinazione di flessibilità, autonomia (ma vale quanto sopra precisato) e collaborazione, possibile tramite l’ottimizzazione degli strumenti e dell’ambiente di lavoro. Implicito, ma fondamentale, il richiamo ad una cultura aziendale ed a politiche di gestione dei collaboratori che possano andare in questa direzione. Peraltro, alcuni studi dimostrano che i maggiori ostacoli sono ancora una volta di tipo culturale, concernono gli stili di leadership e l’esercizio della delega, il lavoro per obiettivi e le logiche di controllo. Questioni cui occorrerà dedicare cura nella prassi, più che nel ribadirne l’importanza, cosa che la letteratura fa da tempo. Ma forse lo smart working potrà essere un volano anche in questa direzione (come le esperienze aziendali di successo sembrano documentare): gli indispensabili processi di innovazione richiedono investimenti in AITs, che generano valore solo se affiancati da azioni complementari sulla revisione dei processi operativi, sull’organizzazione, sulla formazione - non tanto tecnica quanto di comportamento organizzativo. E che chiamano in gioco il sindacato, quale parte attiva e propulsiva del processo, offrendogli l’opportunità di essere nuovamente ed innovativamente protagonista.

Appare quindi abbastanza evidente che, dal descriverlo al farlo funzionare nelle organizzazioni, il passo non è breve. Non lo è per le ragioni sopra accennate, perché ciò che appare maggiormente sfidante è il cambiamento culturale richiesto, che significa un modo diverso di intendere la leadership, che ormai viene arricchita della “e” trasformandosi in e-leadership, un modo diverso di definire le competenze, un modo diverso di articolare i jobs, nuove attitudini e certamente comportamenti diversi. Questo riguarda soprattutto il middle management, notoriamente il gestore delle risorse umane, cioè di quei lavoratori cui si chiede maggiore proattività, maggiore protagonismo. Non a caso, c’è unanime convergenza sul fatto che lo smart worker ideale sia il knowledge worker: questo apre ulteriori domande non tanto sul piano definitorio (il tema è ovviamente presente nel dibattito), quanto sulla loro identificazione in azienda e sulle appropriate modalità della loro gestione.

 

Abbiamo sino ad ora disquisito di smart working come di un dato acquisito nel nostro scenario, perché così sembra nei fatti essere. Può valere la pena domandarsi da dove nasca questa espressione. Non è facile rintracciarne le origini. Nel volume del 2014 di Guy Clapperton e Philip Vanhoutte, che rappresenta il riferimento più citato nel vasto mondo della consulenza che si offre di supportare le aziende nel chiarirsi idee ed ne progettare percorsi - non a caso intitolato “Il Manifesto dello Smarter Working” - non si dedica molto spazio a chiarire il perché dell’uso di questo aggettivo.

Ci si accontenta della sua fashionability e del credito che ha oggi tutto ciò che è smart. L’agenda smart si arricchisce costantemente di nuovi ambiti a cui applicarsi: partiti dalle cities, passati alle factories, agli offices, anche il lavoro può ora ammantarsi di quell’aurea che lo rende accattivante. E non è che non ne avesse bisogno. Anzi. I tempi che viviamo sono ricchi di contraddizioni anche e forse anzitutto su questo versante. E l’accelerazione del progresso tecnologico sembra far intravvedere opportunità tanto nuove quanto desiderate, di un lavoro “a misura d’uomo” (giusto dieci anni fa, l’annuale Workshop dei Docenti e dei Ricercatori di organizzazione si interrogava sotto questo titolo su come aspetti quali motivazione, benessere, fiducia, identificazione, etica portino ad un ripensamento del ruolo delle persone laddove la tensione verso l’efficienza e l’innovazione rappresentano sfide non eludibili). Laddove il lavoro, che tanto si fatica a trovare, ha sempre più necessità di consentire una buona qualità della vita, perché una buona qualità di vita rende qualitativamente migliore anche il lavoro. E questo sembrerebbe mettere tutti d’accordo.

 

Non è un caso che i due autori, un giornalista inglese che si occupa del rapporto tra tecnologia e business ed un affermato manager del settore ICT, rivisitano le logiche organizzative a partire da una domanda tanto semplice quanto sfidante “dove e quando io lavoro meglio?”. E non è probabilmente neanche un caso che una delle frasi più citate per acclamare la positività dello smart working – attribuita Rob Janssen, project manager presso il Ministero degli Esteri, Olanda) lo definisca come “la possibilità di decidere dove, come e con chi svolgere il tuo lavoro”. Il fascino che esercita lo smart working sta proprio nella capacità evocativa che un simile approccio esercita su chiunque lavori. Anche se, immediatamente, sorge la domanda su quanto di utopico sia nascosto in questa idea, su quanto essa segni un miglioramento nelle condizioni di vita lavorativa o su quanto possa invece aumentare gli squilibri in un mercato del lavoro frammentato e polarizzato, su cui si affacciano fasce troppo deboli di popolazione.

 

Insomma, un fenomeno che nasce con una forte connotazione tecnologica, si rivela poi essere molto fortemente condizionato da quella che la scuola socio-tecnica di antica memoria considera la componente sociale. Come noto, il grande merito di questo approccio risiede proprio nell’aver interpretato il funzionamento delle organizzazioni come sistemi organici aperti composti da un subsistema tecnico ed da uno sociale e nell’offrirci oggi la possibilità di uno sguardo a tutto tondo sui cambiamenti in atto. L’elemento più interessante del presente quadro risiede forse nel fatto che le potenzialità delle AITs giocano qui una duplice partita: da un lato, sembrano arricchire la componente sociale nell’organizzazione, favorendo i processi di empowerment; dall’altro, esse evidenziano un cambiamento necessario nell’approccio culturale verso il lavoro da parte sia dei manager che dei lavoratori stessi. L’approccio socio-tecnico ci aiuta a capire quanto sia cruciale l’allineamento tra i due sistemi, quello socio e quello tecnico.

Questo è particolarmente importante per lo smart working – che nasce in un tempo di forte dipendenza tecnologica, nel quale le AITs rendono possibili (ma anche necessarie) cose sino a pochi anni fa quasi impensabili – che rischia di vedere la componente tecnologica prevalere su quella sociale, chiedendo a questa un mero adattamento. Il rischio reale è la perdita di rilevanza della componente sociale, cioè del soggetto che governa il sistema. A quel punto, la caratteristica relazionale delle tecnologie potrebbe essere inutile. Per questo occorre riprendere ad occuparsi seriamente di come il lavoro sta cambiando.

 

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Questo numero 3 del 2015 del nostro Journal – che esce dopo il monografico dedicato a Clara Caselli, autorevole componente del nostro Comitato di Direzione prematuramente scomparsa, che con nostro grande piacere ha ricevuto numerosissimi riscontri positivi, segno dell’affetto e della stima di cui Clara ha goduto e gode – si presenta particolarmente ricco.

La sezione saggi accoglie quattro articoli. Il primo di questi è di Herman Graziano. L’autore esamina il settore dell’offerta turistica dalla prospettica particolare del green approach, finalizzato alla costruzione del vantaggio competitivo ed al rafforzamento della reputazione per gli operatori del settore. Tra le acquisizioni portate all’attenzione e discusse nell’articolo, la relazione win-win tra imprese e destinazione turistica pare essere la più solida ed interessante, foriera di ulteriori approfondimenti.

Alain Devalle, Donatella Busso e Fabio Rizzato si interrogano su quale sia la grandezza di performance economica più significativa nell’ambito dei bilanci consolidati redatti in conformità agli IFR nel mercato italiano. La questione si colloca nel dibattito, che continua ad animare il mondo accademico, sulla definizione di una misura di performance che abbia rilievo per gli shareholders. L’indagine empirica, condotta dagli autori, consente loro di concludere che nel contesto italiano i ricavi ed il risultato netto continuino ad essere le grandezze più value relevant, offrendo spunto per interessanti considerazioni sulle specificità nazionali.

Aniko Tompos propone alla nostra attenzione uno studio comparativo tra Austria ed Ungheria sul tema della cultura del business nell’ambito degli studi di cross cultural management, di particolare interesse innanzitutto per la scelta dei paesi (Austria ed Ungheria, considerati al tempo stesso vicini e lontani) e per l’esplorazione accurata che viene fatta dei paradigmi oggi dominanti.

Al rapporto tra qualità del servizio e soddisfazione dell’utente in ambito sanitario è dedicato il lavoro di Anna Romiti, Chiara Lorini, Elettra Pellegrino e Guglielmo Bonaccorsi. Gli autori si ripromettono di identificare le dimensioni del servizio che maggiormente determinano la soddisfazione e lo fanno con un’indagine condotta in un ospedale privato accreditato. Di particolare interesse nel lavoro, che perviene a segnalare come determinanti aspetti “rispetto e cura” ed “appropriatezza”, sono la disamina della complessa e molto attuale tematica e la discussione delle relazioni tra variabili.

 

Ugualmente interessanti sono i lavori della sezione “working paper e contributi”, che accoglie quattro contributi.

Il primo, di Giorgio Donna e Giovanni Lombardo, mette a tema la reputazione sociale delle imprese, in un momento nel quale alla crescente richiesta di consapevolezza sociale rivolta alle imprese si affianca la critica verso il movimento della corporate social responsibility, accusato di aver mancato il proprio obiettivo. Gli autori suggeriscono un rovesciamento dell’approccio, proponendo di considerare il bene comune come parte essenziale del modello e sviluppano il ragionamento mostrando la solidità di questa via.

Silvia Bruzzi propone una stimolante riflessione critica su un tema di attualità, quello del "Piano Junker", interrogandosi sulla natura e sul ruolo della politica industriale europea. In particolare nell’articolo viene sottolineato come le istanze di sviluppo e coesione, tipiche del modello sociale europeo, rappresentino la via per superare la posizione di debolezza dell’Unione Europea nel panorama mondiale.

I due restanti contributi presenti nella sezione si collocano nel percorso di approfondimento che il Journal ha avviato sul tema del monitoraggio delle performance nei sistemi organizzati. Viene innanzitutto riproposto il framework e viene poi presentata la sintesi dei contenuti emersi dal workshop tenutosi a Pisa il 19 ottobre 2015 e dedicato alla performance ed alla misurazione delle performance in ambito sanitario.

 

Come di consueto due interviste arricchiscono il numero. Benjamin Gidron, professore emerito alla Ben Gurion University del Negev - Beer Sheva ed eminente studioso del "terzo settore", risponde ad alcune nostre domande sul delicato rapporto tra società civile e business sector, cui il nostro sta dedicando ora particolare attenzione e le cui riflessioni sono di grande attualità. Vito Gulli, presidente di Generale Conserve, azienda leader nel settore dei prodotti ittici conservati, ci aiuta a capire le ragioni del “successo” di una impresa che fa crescere utili e dipendenti anche nel corso della crisi.

 

Segnaliamo infine la recensione, di Michela Marchiori, del volume curato da Giovanni Masino e Bruno Maggi dal titolo “Storie di imprese”. Proseguendo nella scelta di proporre ai nostri lettori approfondimenti di particolare e non contingente interesse, il testo scelto per questo numero - presentato con rigore, intelligenza e vivacità dall’autrice - rappresenta uno dei più stimolanti nel contesto degli studi organizzativi italiani, che approfondisce il tema del “cambiamento delle imprese” da una prospettiva tanto originale quanto interessante. L’invito alla lettura è tanto scontato quanto doveroso.