Riprendere il discorso sull'aziendalismo italiano

Editoriali
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Nell'editoriale del primo numero di Impresa Progetto, sei anni fa, ponevo l'interrogativo – cui seguì un dibattito di grande interesse - su dove stavano andando le nostre discipline. A maggior ragione, la questione può essere riproposta oggi in uno scenario percorso da grandi mutamenti, ma anche caratterizzato da non poche incertezze. Cosa e come studiare? Cosa e come insegnare? Quale sarà il nostro posizionamento nell'evoluzione delle scienze e dei saperi? Non sono domande di poco conto
 
Qualsivoglia tentativo di risposta non può fare a meno di prendere in carico un altro interrogativo, complementare al primo. Da dove vengono le nostre discipline? Da dove viene l'aziendalismo italiano? Qual è il suo DNA, certamente articolato e composito nella molteplicità delle scuole di riferimento? Gioca in positivo o in negativo? E' un'opportunità o un fardello? Dobbiamo valorizzare le continuità o puntare sulle discontinuità e quindi parlare separatamente di management, accountancy, finance, marketing, operations, public government, ecc. senza preoccuparsi delle ricerca di un fondamento unitario, integrante?
 
Non è compito di questo editoriale, che apre la seconda fase di Impresa Progetto, sviluppare l'argomento. Potremo eventualmente, con la collaborazione di tutti, dar vita a un numero speciale della rivista. Ritengo invece necessario riflettere sulle ragioni che rendono necessario e, vorrei dire, urgente tale questione. La necessità e urgenza stanno in un fatto specifico: il ricambio generazionale che con crescente intensità sta interessando i professori di "prima fascia" dei settori scientifico disciplinari nei quali ci riconosciamo.
 
Negli ultimi anni sono andati in pensione o vi stanno andando o comunque non vi sono molto distanti gli allievi e primi continuatori dei grandi maestri dell'aziendalismo italiano che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo scorso. La hanno caratterizzata sia per l'apporto scientifico fondativo delle nostre discipline, sia anche per l'apporto dato allo sviluppo economico e sociale del Paese. Ne cito soltanto alcuni: Amaduzzi, Onida, Giannessi, Riparbelli, Masini, De Dominicis, Ferrero, Saraceno, Pacces, Fazzi, Renzi, Pivato, Fabrizi, Merlani, Rondini, Argenziano, Vaccà in modo particolare, Dell'Amore, Parrillo, Confalonieri. A questi maestri cui tanto dobbiamo, non possiamo non aggiungere Luigi Guatri e Tancredi Bianchi che continuano ad essere punti di riferimento per le nostre discipline.
 
Sono andati in pensione o vi sono prossimi (non c'è bisogno di fare i nomi anche perché dovrei metterci il mio) quei docenti e studiosi che nelle diverse sedi universitarie – dalla Bocconi alla Cattolica, a Genova, a Torino, a Venezia, a Trieste, a Pisa, a Firenze, a Roma, a Napoli, a Bari, a Catania, a Palermo – hanno saputo alimentare una tradizione, vivificandola e arricchendola nel confronto con le nuove tematiche poste dallo sviluppo dei mercati, dalle trasformazioni dell'impresa e della sua governance, dalla pervasività degli intangibles (la conoscenza in primo luogo) e dall'irruzione delle ICT, dai processi di finanziarizzazione, dall’emergenza di nuovi stili di vita nel consumo, nel lavoro, nel risparmio cogliendo nel contempo, approfondendole secondo linee di grande originalità, le specificità dell'economia produttiva del nostro Paese (i distretti, le reti di impresa, le imprese famigliari, il non profit, ecc.).
 
Questi cattedratici hanno però assolto ad un'altra funzione non meno importante. Detentori e amministratori di un potere accademico non indifferente hanno contribuito - in maniera abbastanza saggia ed equilibrata, nell'ambito di regole del gioco largamente condivise, senza grandi lacerazioni e nella totale assenza di contrapposizioni politico ideologiche, presenti in altre aree disciplinari - alla riproduzione del corpo docente, all'immissione nei ruoli di energie giovani, progressivamente cresciute e destinate ad assumere responsabilità non lievi sul fronte sia della ricerca, sia dell'insegnamento, sia dell'organizzazione della vita universitaria. Questi colleghi potranno pur sempre contare sulla collaborazione di quelli che stanno uscendo, molti dei quali - in particolare quelli che sono stati "espropriati" del biennio Amato - continueranno a dare, per via contrattuale, un apporto allo svolgimento delle attività di studio e di ricerca nell'ambito di una sorta di solidarietà intergenerazionale.
 
Gli aziendalisti italiani - ne siamo tutti convinti - hanno di fronte una grande sfida: quella dell'internazionalizzazione dei saperi, delle scienze, della circolazione delle idee, della formazione, della ricerca. Non si può non essere membri di comunità di studiosi senza confini, misurandosi con standard valutativi globalmente accettati. Di qui la necessità di farsi conoscere, di scrivere su riviste internazionali, di completare la propria formazione presso università tipicamente americane o inglesi e così via. Siamo in presenza di passaggi sicuramente ineludibili che richiedono però di essere approcciati in maniera non casuale o episodica ma nell'ambito di un disegno strategico condiviso, distinguendo tra questioni di forma e questioni di sostanza, tra le mode e ciò che invece è destinato a durare, sapendo ciò che è in gioco.
 
E in gioco sono le questioni che stanno dietro gli interrogativi richiamati in questo editoriale: da dove vengono le nostre discipline e dove stanno andando. Certamente i tempi dell'autarchia accademica, dell'autoreferenzialità, del piede di casa sono finiti. Ma tutto ciò non significa che ci si debba necessariamente appiattire, omologare su modelli e linee scientifico culturali proprie di altri contesti, maturate oltre oceano. Non se ne nega ovviamente l'importanza e la conseguente necessità di misurarsi con esse in maniera approfondita. Semplicemente se ne contesta l'accettazione acritica.
Le questioni di cui ci occupiamo come economisti aziendali (ma il discorso vale anche per gli economisti industriali e gli economisti tout court) sono globali e nel contempo anche locali, generali e anche specifiche. La pluralità e l'interdipendenza dei valori, delle culture, delle forme di produzione, dei problemi sociali ed economici sono un dato dal quale non si può prescindere tanto a livello interpretativo quanto normativo.
 
Come evidenziato nelle ultime due encicliche sociali ("Centesimus Annus" e "Caritas in Veritate") non esiste il capitalismo o, meglio, l'economia di mercato intesa come categoria univoca e assoluta. Esistono tante economie di mercato in funzione di come i suoi elementi costitutivi risultano storicamente declinati e combinati. Si aprono pertanto spazi non indifferenti per la progettualità dei diversi soggetti, imprenditori, manager, policy maker, ma anche studiosi e ricercatori. Credo pertanto che si debba investire in una via europea - vorrei dire latino-renana, di cui come italiani siamo solidali - allo sviluppo delle scienze dell'impresa e manageriali. In altri termini, la nostra storia di italiani e di europei, le nostre peculiarità distintive possono contribuire non poco all'arricchimento del dibattito economico in ordine al cosa, al come, al per chi produrre in un'ottica, come dianzi osservato, globale e locale.
 
Le responsabilità che gli accademici più anziani hanno nei confronti dei giovani che intendono intraprendere o portare avanti la carriera universitaria sono davvero grandi. Dobbiamo far capire loro che proveniamo da una storia non certo disprezzabile o irrilevante (per questo ho voluto richiamare i maestri delle nostre discipline), che non siamo disarmati rispetto al futuro e al mondo che cambia, che abbiamo qualcosa di originale e di valido da proporre agli altri. Certo, ci sono delle regole del gioco cui la comunità internazionale degli studiosi fanno riferimento. Le ricerche, e le relative verifiche empiriche, vanno condotte seguendo certi canoni. I saggi e i paper da presentare ai convegni vanno scritti secondo certe modalità. Del pari la didattica non è un happening. Di qui l'importanza crescente delle scuole estive promosse dall’Aidea e anche delle iniziative culturali autogestite dal gruppo giovani dell'Aidea.
 
La dimensione internazionale dei nostri studi - lo ripeto ancora - costituisce un passaggio ineludibile, ma questo non può essere assunto e gestito a senso unico ovvero soltanto in uscita. Anche le università italiane, le riviste italiane (tra queste il Journal of Management and Governance riveste un ruolo di primaria importanza), i nostri siti web, i nostri meeting scientifici possono essere protagonisti ed esercitare un salutare effetto attrattivo e non solo per motivazioni turistiche. Ricordo gli ultimi in ordine di tempo: la 23ma EBEN Annual Conference (Trento, 9 settembre) e il panel organizzato dall'Aidea sul contributo italiano allo strategic management, nell'ambito della 30ma International Conference della Strategic Management Society (Roma, 13 settembre). Perché tutto ciò non sia casuale o episodico, occorre predisporre una serie di condizioni strutturali, una rete organizzata di opportunità. La partecipazione attiva ai processi di mondializzazione delle discipline economico aziendali non può essere lasciata soltanto all'iniziativa del singolo, alla sua capacità di trovare la chiave di accesso giusta. E' una questione che coinvolge tutti e come tale va gestita.
 
In questa ottica perché non pensare, ad esempio, a una pubblicazione annuale in inglese, da diffondere sui canali internazionali, destinata a raccogliere i saggi più significativi e meritevoli, scelti da una apposita commissione di grande prestigio? Perché non associarvi un premio per il migliore giovane studioso dell'anno a somiglianza di quanto avviene in Francia per i giovani economisti? Tale pubblicazione potrebbe, tra l'altro, contribuire a riportare nelle giuste proporzioni la questione della presenza degli studiosi italiani nelle riviste internazionali di grande prestigio.
 
Credo che, almeno in prima battuta, l'importante sia il pensare e lo scrivere cose scientificamente valide, innovative, rilevanti per i problemi che affrontano. Tanto meglio se tutto ciò trova poi una collocazione editoriale di primaria importanza. L'ordine delle priorità non dovrebbe però essere rovesciato, semmai facilitato, agevolato. A questo proposito non si trascuri neppure il fatto che molte delle principali riviste americane e inglesi finiscono per costituire una sorta di oligopolio con ticket di ingresso particolarmente elevati e, talvolta, fortemente selettivi in ordine agli studiosi da accogliere o meno. Per certi aspetti queste riviste assolvono a un ruolo indiscusso di certificazione del valore scientifico e metodologico dei contributi presentati. Mutatis mutandis le critiche che recentemente sono state rivolte alle agenzie di rating internazionali che valutano lo stato di salute economica e finanziaria dei diversi Paesi potrebbero in qualche misura valere anche per il nostro caso. Occorre pertanto ampliare la platea dei soggetti e dei luoghi che, attraverso un confronto pluralistico, possono promuovere lo sviluppo delle discipline aziendali. Ne consegue pertanto la necessità della nostra presenza e della nostra voce in un agorà mondiale che deve essere rispettoso delle diverse storie, culture, valori ed esperienze.
 
La compresenza di vecchio e di nuovo sembra caratterizzare in oggi gli scritti degli aziendalisti italiani (specie dei più giovani). Manca al momento una bussola sicura, si procede per tentativi, per interessi contingenti. Anche da questo punto di vista risulta confermata l'importanza di una riflessione approfondita sulle questioni sollevate dagli interrogativi che si pongono come leit motiv del nostro editoriale. A questo proposito ricordo che già nei primi anni 80, in sede CNR, venne costituito il "Gruppo Nazionale di Coordinamento e Ricerche sul sistema bancario, creditizio e di analisi economico aziendale" con l'obiettivo di promuovere e coordinare ricerche nel campo delle nostre discipline.
 
Le risultanze dei lavori del Gruppo vennero presentate in un convegno che si tenne nel febbraio del 1985. Fu quella un'importante occasione per riflettere, a partire dalle relazioni introduttive di Marchesini, Coda, Lorenzoni, Vaccà, Viganò, Bianchi, sui "contorni, le estensioni ed i limiti degli interessi degli studiosi in economia aziendale, coglierne l'evoluzione e le eventuali convergenze o divergenze, verso contenuti di tipo tradizionale o di tipo anglosassone". In quella occasione volli fare una rapida verifica sulle pubblicazioni presentate nel 1984 per gli ordinariati di tecnica industriale e di ragioneria. Nella prima disciplina, il 21% degli studi riguardava l'impresa vista nella sua unitarietà strutturale e comportamentale; il 35% aveva per oggetto le aree funzionali; ben il 44% affrontava le tematiche dei rapporti con l'ambiente (settore, mercato, governo di strutture, ecc.). Nella seconda disciplina, l'80% dei lavori presentati assumeva l’impresa in quanto tale. Di questi metà avevano un taglio manageriale organizzativo e metà connotati contabili professionali. Il settore pubblico incideva per il 13%. Le analisi funzionali riguardavano il restante 7%.
 
Sarebbe certamente interessante ripetere l'operazione, venticinque anni dopo, con riferimento alle pubblicazioni oggetto di valutazione nella tornata concorsuale che è in via di ultimazione. In questa prospettiva particolare attenzione dovrebbe essere dedicata ai percorsi di studio e ai lavori dei candidati più giovani, nella quasi totalità ricercatori universitari che concorrono a posti di professore associato. Quali sono i loro interessi scientifici e, più in generale, le loro curiosità intellettuali? Quali percorsi formativi hanno seguito nel corso del tempo? Cosa e dove riescono a pubblicare? Di quali iniziative di ricerca sono partecipi a livello nazionale e internazionale? Qual è il loro impegno nell'ambito della didattica?
 
Ho tentato di dare una risposta del tutto approssimativa ad alcuni di tali interrogativi sulla base sia dell'esperienza fatta come presidente di una commissione giudicatrice per un concorso di seconda fascia in economia e gestione delle imprese, sia raccogliendo le sensazioni di alcuni colleghi coinvolti in analoghe esperienze. Un rapido flash riguardante le dinamiche dei nostri settori scientifico disciplinari. Da un lato, mi sembra che emerga in maniera abbastanza chiara la progressiva autonomizzazione del settore di economia degli intermediari finanziari. Larga parte delle pubblicazioni fanno riferimento ad una identità ben precisa, identità giocata nel rapporto stretto tra aspetti micro (la banca come impresa) e aspetti macro (il settore finanziario creditizio come infrastruttura economica). Dall'altro lato, si registra una marcata sovrapposizione di interessi tra studiosi di economia aziendale, economia e gestione delle imprese e anche di organizzazione. Le tematiche della governance, delle strategie, della conoscenza, delle nuove tecnologie, dei rapporti e delle reti di imprese, del valore, delle catene logistiche si pongono come ambiti condivisi e polivalenti, trasversali rispetto ai diversi settori disciplinari.
 
Una conclusione del tutto interlocutoria. Come aziendalisti (ma vale ancora questa denominazione?) siamo chiamati a ripensare noi stessi. Non possiamo prescindere dalle nostre radici e, nel contempo, non possiamo non guardare al mondo e al futuro. Un futuro che dovrà scoprire nuovi rapporti tra economia, finanza, società, cultura, imprese nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile e solidale, di un benessere capace di andare oltre il Pil a livello macro e del profitto, fine a se stesso, a livello micro. Avremo modo di riprendere queste questioni nei prossimi numeri di Impresa Progetto.
 
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Dopo sei anni e undici numeri semestrali, la rivista viene ora ripensata e meglio organizzata. La denominazione resta la stessa, "Impresa Progetto", scompare però il riferimento al Dipartimento di tecnica e economia delle aziende (Ditea) dell'Università degli Studi di Genova. Ciò per evidenziare l'apertura della rivista e il desiderio di coinvolgere stabilmente una più ampia platea di studiosi. Con una certa civetteria abbiamo poi voluto aggiungere il sottotitolo di "Electronic journal of management".
 
L'esigenza di rispondere alle prescrizioni dell’Aidea al fine di ottenerne l'indispensabile accreditamento è stato l'innesco del ripensamento e della riorganizzazione che trovano le motivazioni più profonde in molte delle tematiche proposte in questo editoriale.
 
Al direttore scientifico si affianca, in un'ottica di collegialità, un comitato di direzione che oltre ai membri genovesi (Clara Caselli, Liana Fadda, Pier Maria Ferrando, Giorgio Giorgetti, Clara Benevolo) comprende Roberto Cafferata, Giorgio Donna, Marco Frey. Al comitato di direzione competono la supervisione scientifica e culturale e la programmazione della rivista nonché il presidio delle idee e dei valori che ne costituiscono il fondamento. Con il comitato di direzione collabora strettamente il comitato di redazione: la progettazione di ogni numero della rivista diventa un momento formativo e di confronto seminariale, cui possono partecipare anche membri del comitato scientifico.
 
Il comitato scientifico, a sua volta, intende essere espressione della fitta rete di relazioni scientifiche, dei collegamenti che la rivista ha attivato con molteplici esperienze di studio e di ricerca, in Italia e all’estero, e che possono trovare in Impresa Progetto un efficace ambito di espressione. Tengo a ringraziare i colleghi che hanno accettato di far parte del comitato scientifico: David Barnes, Giuseppe Bertoli, Gianni Cozzi, Giancarlo Ferrero, Joan Fontrodona, Fabio Fortuna,
Pietro Genco, Giorgio Invernizzi, Riccardo Mercurio, Giovanni Padroni, Paola Paniccia, Harald Pechlaner, Cosetta Pepe, Angelo Riccaboni, Camille Rosenthal-Sabroux, Gianfranco Rusconi, Dario Velo. Altri potranno entrare in seguito.
 
Per quanto riguarda la struttura della rivista il suo "core" è rappresentato dalla sezione "Saggi" (sottoposti a doppio referaggio cieco). "Contributi e working paper" ne costituiscono la seconda sezione. I due ambiti rispondono a obiettivi diversificati, ma egualmente importanti. Con gli working paper si intende dare spazio a prime ipotesi di ricerca, a studi preliminari che verranno successivamente sviluppati, a semilavorati che si vuole far conoscere con l'intento di ricevere utili feed back. Tutto ciò conferisce agilità e flessibilità alla rivista rappresentando nel contempo un'importante occasione per i giovani che possono pubblicare senza dover attendere i tempi sovente molto lunghi delle riviste cartacee, ovviamente nel rispetto di criteri sostanziali e formali verificati dal comitato di direzione nell'ambito di un referaggio semplificato. I contributi, a loro volta, hanno lo scopo di "vivacizzare" la rivista in termini soprattutto culturali. E' questo il caso sia di reazioni rispetto a scritti apparsi su Impresa Progetto (ad esempio, in questo numero vengono ospitati alcuni commenti al tema dell'etica nelle Facoltà di Economia) sia di partecipazione a dibattiti promossi dalla rivista sia di apporti richiesti specificatamente a studiosi, esperti, manager su temi di grande interesse. I contributi rivestono un'importanza particolare nell'economia della rivista attraverso la proposizione di idee, provocazioni intellettuali, apertura di nuove piste di ricerca da sviluppare successivamente in maniera rigorosa. C'è la scienza di impresa, ma c’è anche la cultura di impresa: occorre creare le condizioni per una reciproca fertilizzazione.
 
Infine nella nuova organizzazione della rivista abbiamo ritenuto utile conservare il posto per l'ospite ovvero per personaggi che in funzione della loro esperienza, del ruolo assolto nella vita economica e sociale e anche nell'ambito di discipline diverse dalle nostre hanno qualcosa di significativo da proporci.
 
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Il ventaglio di argomenti affrontati in questo numero di Impresa Progetto, che inaugura il nuovo corso della rivista, è come di consueto ampio e articolato su molteplici linee tematiche. Pier Maria Ferrando apre la sezione "Saggi" proponendo una riflessione a tutto campo sui rapporti tra creazione del valore e responsabilità sociale dell'impresa. Profitto, ma quale profitto? Valore, ma per chi e nell'ambito di quale impresa? Shareholder oppure stakeholder? Siamo in presenza di passaggi cruciali in cui si gioca la questione della responsabilità sociale di impresa, un'impresa nella quale sono compresenti conflitto e cooperazione, antagonismo e solidarietà. Il problema è dunque aperto.
 
Profondi mutamenti stanno interessando i sistemi produttivi e i sistemi finanziari dei paesi industrializzati. In questo ambito il posizionamento delle piccole e medie imprese è in oggi particolarmente critico. Il loro sviluppo passa - come osserva Laura Bottinelli nel suo saggio - attraverso la ricerca e l'innovazione. Il sostegno degli intermediari finanziari è al riguardo essenziale. Richiede però da parte di questi un cambiamento di ottica e di attenzione. La ricerca di cui Valentino Gandolfi da conto nel suo contributo conferma - attraverso i casi esaminati - la vitalità e il dinamismo delle imprese di medie dimensioni, vitalità e dinamismo che si traducono sovente in processi di crescita sia con riferimento al segmento in cui l'impresa già opera sia anche con l'ingresso in nuovi business correlati a quelli esistenti. In tali processi la funzione di marketing riveste un ruolo fondamentale a supporto tanto della flessibilità strategica quanto della gestione operativa dell'impresa.
 
La sezione "Contributi e working paper" si apre con le testimonianze di Pippo Ranci, Marco Frey, Mario Signore e Gianfranco Rusconi sollecitate dal tema posto nell’editoriale dello scorso numero: "Insegnare etica nelle Facoltà di Economia". Le suggestioni che emergono da tali contributi sono di grande interesse e meritevoli di ulteriori approfondimenti che saremo ben lieti di pubblicare nella rivista. Sulla stessa lunghezza d'onda si collocano le riflessioni di Giovanni Padroni. Negli scenari post moderni della complessità la valorizzazione di tutte le risorse umane, interne ed esterne all'impresa, è condizione irrinunciabile, fondamento di eticità e garanzia di competitività dell’impresa per la quale è essenziale il riferimento ad una autentica "bussola morale".
 
Nell'ambito degli "working paper" vengono proposte tematiche di sicuro interesse che potranno essere riprese e sviluppate dagli Autori. Gli accordi di collaborazione e la creazione di joint venture rappresentano per le imprese italiane una modalità di entrata nei mercati internazionali di non secondaria importanza, finalizzata nella maggioranza dei casi a perseguire obiettivi non semplicemente difensivi ma anche di tipo espansivo. E' quanto emerge dall’indagine condotta da Antonio Majocchi attraverso la costruzione di un data base che censisce oltre un migliaio di casi contribuendo a colmare un vuoto nelle fonti ufficiali. Le relazioni tra economia reale e mercato azionario costituiscono l'oggetto del paper presentato da Giacomo Burro, Luca Fava e Luca Mosto. Partendo da alcune variabili economiche fondamentali, gli Autori pervengono ad un indice sintetico che consente di individuare, con un alto grado di significatività, i diversi periodi storici in cui il mercato azionario ha sovrastimato o sottostimato l'andamento dell'economia reale nonché il periodo medio intercorso per il raggiungimento di uno stato di equilibrio. Anche in banca il capitale intellettuale assume una crescente rilevanza. Come misurarlo e quindi come farne un uso efficiente ed efficace? Non è una questione semplice. Paolo Capuano nel suo paper, utilizzando il metodo VAIC, fornisce alcune risposte con riferimento alle banche italiane quotate nel periodo 2007-2009. L'intervista a Enrico Vassallo, direttore generale di Irisbus Italia, completa questo numero di Impresa Progetto.