Il peso della crisi. Donne, lavoro, famiglie. La ricerca di nuovi stili di vita

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"E' agevole constatare che tra lavoro (che non c'è; che è aleatorio; che si perde) ed esperienze di vita dei diversi soggetti si stanno producendo fratture preoccupanti, quasi di tipo ontologico". La crisi odierna rende quanto mai attuale ciò che affermavamo in un editoriale di due anni fa'. Vale dunque la pena di riprendere l'argomento declinandolo ora nell'ottica della conciliazione tra lavoro e famiglia. Conciliazione il cui peso crescente, nella quasi totalità dei casi, viene scaricato sulla donna, moglie o compagna, madre con bimbi nei primi anni di vita, figlia di genitori anziani, e nel contempo impegnata nel lavoro per un mix di ragioni che vanno dalle necessità contingenti alla ricerca dell'indipendenza economica di fronte al futuro, alle esigenze di socializzazione, di piena realizzazione di sé. Motivazioni queste ultime largamente presenti nelle giovani donne che chiedono di entrare nel mercato del lavoro, mettendo in linea di conto di procrastinare il matrimonio, di ritardare poi la nascita del primo figlio e di rinunciare al secondo.
La conciliazione tra famiglia e lavoro è assicurata dalla donna che sostiene così costi crescenti tanto sull'uno quanto sull'altro fronte. Un lavoro professionale che si complessifica, che diventa più esigente, pesante o stressante. Un lavoro di cura che vede progressivamente aumentare le attività da svolgere, i rapporti da tenere con altri soggetti che concorrono a fornire i servizi primari di cui l'unità familiare necessita. Ne consegue che la donna finisce con il rinunciare a dimensioni e tempi propri. Costi crescenti dunque, che per la donna possono assumere manifestazioni molteplici. Quella di dover progressivamente rinunciare a un lavoro impegnativo, gratificante e valorizzante, con lo spostamento su posizioni residuali, marginali, sottopagate e discriminate, con un livello di protezioni ridotte. E' il caso delle forme dequalificate di lavoro part-time, accettate in quanto rappresentano l'unica possibilità di impiego; è il caso del ritorno al lavoro dopo avervi rinunciato per la nascita dei figli, ritorno che – quando si verifica – significa dover ripartire da zero se non addirittura da posizione ancora più svantaggiata. Quella di vivere la famiglia in maniera stressata, con il condizionamento psicologico dei figli piccoli "sequestrati in casa" e degli anziani lasciati soli, nella ricerca affannosa di tamponare le situazioni con interventi raccogliticci e onerosi. Il trade-off tra più tempo per i figli e più tempo per realizzarsi nella professione si presenta solo per la donna.
Il "sovraccarico" delle donne brucia dunque opportunità per una vita famigliare ricca di significato, priva la società di risorse e potenzialità essenziali per la sua crescita equilibrata. I fattori che determinano questo stato di cose sono molteplici. Possiamo ricondurli a quattro situazioni specifiche.
La prima situazione riguarda le impostazioni correnti sul mercato del lavoro e nelle imprese per cui il lavoro femminile a condizioni standard continua a essere ritenuto un lavoro costoso, rischioso, poco affidabile.
La seconda situazione si collega a politiche sociali scarsamente attente alle esigenze delle famiglie specie con figli piccoli. Pochi interventi finanziari di sostegno; poche opportunità di conciliazione tra responsabilità famigliari e partecipazione attiva al mercato del lavoro; pochi servizi reali per la prima infanzia congiuntamente a una organizzazione che dà per scontata la presenza a casa di una madre a tempo pieno.
La terza situazione concerne la sperequata divisione del lavoro famigliare tra uomini e donne. (La doppia presenza vale soltanto per queste ultime. Ricerche recenti evidenziano che al lavoro di cura l'uomo dedica giornalmente poco più di quindici minuti).
La quarta situazione si collega al persistere di visioni semplificate dei problemi sul tappeto, di banalizzazioni ricorrenti, di acritici stereotipi. Se la famiglia funziona male è perché la donna è impegnata nel lavoro extra-domestico, se la donna sul posto del lavoro non rende come dovrebbe è perché pensa alla famiglia.
Ci si incomincia a rendere conto che lo stato di cose, che abbiamo sommariamente richiamato, non può più reggere. Si impone la ricerca e la progettazione di nuove interdipendenze tra qualità della vita nella famiglia, nei luoghi di produzione e dell'economia, nel contesto sociale. Occorre riconsiderare il senso del lavoro in rapporto alla famiglia nell'ambito di una relazionalità solidale tra uomo e donna e anche tra genitori e figli. Si richiedono mentalità e culture diverse in grado di dar vita a nuovi comportamenti, strutture, modalità organizzative.
Non mancano i segnali, seppure confusi e contradditori, che ci dicono che è possibile procedere in tale direzione. Ciò a partire da alcuni dati di fatto dai quali non si può prescindere.
Una prima constatazione. Le donne lavorano e intendono lavorare di più (e meglio). La partecipazione femminile al mercato del lavoro è aumentata in tutti i paesi europei e nel contempo si registra il passaggio da una tipologia di presenza lavorativa largamente condizionata dai vincoli famigliari ad una tipologia di presenza tendenzialmente continua, svincolata dal ciclo di vita della famiglia. I due terzi dei nuovi posti di lavoro creati in Europa nell'ultimo decennio sono stati occupati dalle donne con una concentrazione nel settore dei servizi e dell'istruzione. L'Unione Europea, recependo questa tendenza di fondo, pone tra le sue priorità la crescita del tasso di occupazione femminile. L'obiettivo è quello di raggiungere il 60% nel 2010. Per quanto riguarda il nostro Paese, anche se i progressi realizzati in questi anni sono stati notevoli, il tasso di occupazione femminile è attualmente di poco superiore al 40%. Gli sforzi da compiere sono pertanto notevoli.
Una seconda constatazione. Le donne non solo tendono a lavorare di più ma lo fanno con un bagaglio di conoscenze, competenze, abilità, con uno "stock di capitale umano" superiore a quello degli uomini, come molte ricerche mettono chiaramente in evidenza. Una comprova è rappresentata dagli elevati livelli di scolarizzazione raggiunti dalle donne e in particolare dalle giovani donne che hanno superato, in questo campo, i loro colleghi maschi.
La terza constatazione è rappresentata dalla consapevolezza, ormai largamente diffusa soprattutto nelle giovani generazioni che, così stando le cose, le disuguaglianze tra uomini donne che ancora sussistono nell'ambito dei lavoro e delle professioni e nello stesso lavoro di cura sono del tutto inaccettabili.
In una risoluzione del Consiglio dei ministri del lavoro e degli affari sociali dell'Unione Europea (giugno 2000) si legge che "la maternità, la paternità come pure i diritti dei figli piccoli sono valori sociali eminenti che devono essere salvaguardati dalla società, dagli stati membri, dalla Comunità europea. La fecondità e la scolarità sono essenziali per la salute dell'economia dell'impresa. L'impresa non può svilupparsi in una società in crisi demografica". In un documento dell'ONU dello stesso periodo del pari si afferma che "lo sviluppo umano è alimentato non solo dalla crescita del reddito, dalla scolarizzazione, dalla salute, dalla distribuzione del potere, ma anche dalla cura. Il ruolo della cura nella formazione delle facoltà umane e nello sviluppo umano è fondamentale … Il lavoro di cura produce beni sociali, crea capitale umano e sociale" (UNDP – Rapporto sullo sviluppo umano 1999).
Se tutto questo è vero, la conciliazione tra famiglia e lavoro non può essere gestita in un'ottica privatistica. Si impone, al contrario, un'assunzione di responsabilità collettiva. Ciò vale in modo particolare per il nostro paese che su questa tematica si trova in posizione marginale rispetto a quanto accade in Europa. In posizione marginale essenzialmente per due motivi. Il nostro tasso di occupazione è mediamente 5-6 punti percentuali inferiore a quello di Francia, Germania e anche Spagna; del pari ci collochiamo agli ultimi posti quanto a tasso di natalità.
Tutto ciò rappresenta un freno allo sviluppo. Per rimuoverlo occorre sia aumentare il livello di occupazione complessiva, possibile – in larga misura – attraverso la crescita dell'impiego femminile, sia favorire la ripresa demografica. Con altre parole le donne dovrebbero lavorare di più e avere più figli. Questa l'impasse in cui si trova il nostro paese:
-i figli costano e il costo dei figli è aggravato dalla crisi e dai tagli della finanza locale nonché da politiche tributarie scarsamente sensibili ai bisogni delle famiglie;
-il lavoro di moltissime donne è oggi frammentato, poco retribuito, poco protetto, poco sicuro.
Tra i due elementi si è instaurata una circolarità viziosa che le attuali difficoltà economiche tendono ad enfatizzare. Come indurre le donne con lavoro precario ad avere figli? Come indurre le madri ad accettare un lavoro il cui beneficio può essere inferiore ai costi che dovrebbero sostenere per la crescita dei figli? E' a questi interrogativi che la politica di welfare è chiamata a rispondere nel nostro paese.

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La costruzione di una società più equilibrata, ove la produzione del reddito non viene separata dalla produzione di senso e ove la sfera mercantile interagisce con quella della reciprocità e gratuità passa – avanziamo questa ipotesi di lavoro – attraverso la riconsiderazione del potenziale di cambiamento che può essere espresso dalle donne in un rinnovato rapporto con gli uomini tanto nell'economia produttiva quanto nella cura.
La donna, con le sue specificità, entra oggi a pieno titolo nel mondo della produzione concorrendo al suo cambiamento; l'uomo riscopre il suo posto e il suo tempo nella sfera domestica e parentale fornendo apporti indispensabili finora mancati, trovando terreni nuovi di condivisione. Scatta qui la possibilità di un patto di solidarietà tra i sessi nel lavoro, nella famiglia, nella società. La ricomposizione o meglio la riconciliazione di dimensioni finora separate consente la valorizzazione delle specificità, lo scambio di cose diverse, il comune apprendimento. Il tutto in una ottica di complementarietà, reciprocità o – per dirla con Ardigò, il grande sociologo recentemente scomparso – di reversibilità significante.
I mutamenti in atto a livello economico, sociale, produttivo aprono inedite possibilità di sperimentazione. Si pensi soltanto al ruolo che potrebbe essere assolto dalle nuove tecnologie elettronico-informatiche per allargare il ventaglio delle opportunità. Queste passano attraverso la produzione e il consumo; riguardano prodotti, servizi, organizzazione; fanno saltare i vincoli e i condizionamenti di tempo e di spazio; avvicinano la casa e il lavoro; consentono l’accesso interattivo alle informazioni; favoriscono il decentramento e la condivisione; aumentano l'efficacia del lavoro di produzione e di cura; liberano il tempo da compiti faticosi e ripetitivi e permettono di reinvestirlo in operazioni più ricche di significato. Esiste la possibilità effettiva di una interazione tra tempo di lavoro e tempi di vita personali e famigliari.
Orbene le donne, da sempre, hanno rivendicato la loro identità plurale. Questo diventa oggi un valore per tutti e fondamento di vita buona. Dall'esperienza faticosa e sofferta delle donne, specie nel nostro paese, deriva oggi un messaggio fondamentale che va colto in tutta la sua portata. Intendiamo riferirci alla volontà di conciliare il ruolo di moglie e di madre con la valorizzazione piena dei propri talenti nel più ampio contesto del lavoro extradomestico e anche dell'impegno civile. Tutto ciò è segnaletico di una grande possibilità: quella di riavvicinare il lavoro e la domus, l'attività professionale e l'attenzione al bisogno dell'altro, le dimensioni strumentali e quelle espressivo-comunitarie. Con altre parole attraverso l’esperienza e la cultura della donna è possibile una reinterpretazione del lavoro in rapporto alla famiglia e alla società. Ci si rende conto che tematiche e valori ritenuti "femminili" diventano strategici per tutti. Il mondo del lavoro – specie in una prospettiva post-fordista – richiede umanizzazione, ricomposizione di aspetti e dimensioni per lungo tempo separati, attenzione alle attese della gente e dell’ambiente, sintonia con i valori della vita privata e sociale.
Tematiche del genere possono essere affrontate anche in un periodo di crisi come l'attuale. Specialmente se si è convinti che dalla crisi si uscirà solo attraverso un grosso rimescolamento di carte, capace di portare le persone – come sottolinea Stiglitz (La Repubblica, 6 dicembre 2008) - a esaminare più a fondo valori e priorità nella prospettiva di un nuovo stile di vita.
In quest'ottica si tratta di garantire la doppia presenza per uomini e donne tanto sul fronte del lavoro quanto sul fronte della famiglia trovando nelle connessioni, nelle sinergie tra i due ambiti il fattore determinante di una buona qualità di vita senza separatezze paralizzanti di luoghi, di età, di genere, di possibilità di sviluppare le proprie capacità personali, famigliari, sociali.
La conciliazione tra famiglia e lavoro può risultare funzionale a una più incisiva riconciliazione tra la razionalità dei sentimenti e la razionalità strumentale dell'economia e dell'impresa. Ma anche l'impresa può essere ripensata come una comunità, come un insieme di persone assunte nella loro pienezza relazionale ovvero inserite nei circuiti dell’economia e della società con proiezioni interne ed esterne, ove l'autocoscienza e la cultura dei suoi membri, valori di responsabilità e di partecipazione, anche se variamente giocabili e configurabili, non sono delle mere sovrastrutture. La famiglia chiama dunque l'impresa e si propone come suo stakeholder fondamentale, ma l'impresa-comunità chiama a sua volta la famiglia per stimolarla a sviluppare le proprie potenzialità, ad aprirsi e ad intraprendere, a "creare valore" per i suoi componenti e, in un quadro di relazionalità, per il contesto sociale in cui è inserita.

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Il ventaglio delle tematiche affrontate in questo nuovo numero della rivista (il nono della serie) è ampio e articolato. Dei problemi esaminati si colgono, come di consueto, sia aspetti teorici sia aspetti applicativi. Nel contempo si offrono spunti per successivi contributi che sono già stati programmati.
E' nostra costante preoccupazione chiederci dove stanno andando le discipline aziendalistiche. Al riguardo ricordo il primo editoriale di presentazione della rivista che suscitò un interessante confronto di idee e di proposte che ritornano ora di grande attualità nel momento in cui si procede al riordino dei corsi di studio delle facoltà di economia. Clelia Mazzoni e Dario Velo, muovendo da ottiche diverse, rilanciano l’argomento fornendo elementi significativi per aprire un nuovo dibattito.

Per Clelia Mazzoni lo studio dell'impresa, nelle sue relazioni con l'ambiente di riferimento, si caratterizza oggi per numerosi risvolti tanto a livello teorico quanto epistemologico. Ciò accade allorquando ci si interroga sul significato (sempre più problematico) del confine tra le discipline aziendali e le altre scienze di matrice economica e sociologica. La distinzione di ambito deve far spazio alla interdipendenza evolutiva dei saperi nella ricerca di nuovi paradigmi capaci di misurarsi con l'ineludibile complessità sistemica. Complessità sistemica verso cui tendono le preesistenti logiche meccanico-aggregativa (microeconomia marginalista), causale-strutturalistica (industrial organization), strategico-competitiva (strategic management) attraverso le quali, nel corso del tempo, è stato approcciata la relazione tra l'impresa e l'ambiente.

Dario Velo con il suo contributo, che anticipa un saggio che apparirà prossimamente su Sinergie, muove dalla settorialità degli studi di marketing, riscontrando in essi elementi di continuità e di discontinuità, riconducibili alla più generale transizione dalla modernità alla post-modernità. L'equilibrio – nato con il new deal – tra impresa, consumatori, mercato, società, stato è oggi del tutto compromesso nel mentre emergono inedite tensioni e conflitti (ad esempio tra pensiero liberale e pensiero liberista) che trovano nel marketing una peculiare cassa di risonanza. Ci si chiede pertanto se, di fronte all'emergere di tematiche quali la sussidiarietà, il federalismo, l'ambientalismo, l'economia della felicità, ecc., il marketing non possa essere un fruttuoso laboratorio per leggere e interpretare i nuovi rapporti fra economia, mercato, imprese, individui, istituzioni.

La responsabilità sociale, assunta come fondamento della governance di impresa, costituisce oggetto di particolare attenzione per la nostra rivista. Stefania Romenti declina l’argomento nel confronto puntuale tra l'ottica dello "stakeholder relationship management" e l'ottica dello "stakeholder engagement". In questa seconda ottica viene individuato lo strumento per rafforzare il concetto di reputazione aziendale, che sempre più si rivela risorsa fondamentale per il successo dell’impresa e per valorizzare pienamente le potenzialità dei manager e dei connessi processi di comunicazione.

L'equilibrio tra "contributions" richiesti ai membri dell’impresa e "inducements" a questi offerti costituisce – come noto – il leit motiv dell’impostazione barnardiana. Teresina Torre con il suo saggio ne fornisce una reinterpretazione alla luce dell'evoluzione dei sistemi retributivi adottati dalle imprese allo scopo di attrarre, motivare e trattenere le persone. La reinterpretazione si focalizza sul concetto di "total reward system" ovvero di una retribuzione globale nell'ambito della quale gli incentivi monetari si combinano e si integrano con quelli non monetari. La verifica empirica effettuata dall'Autrice conferma la problematicità della questione. Quali condizioni sono necessarie perché si possa parlare di "total reward" specie in un momento di crisi come l'attuale? Come evitare il rischio di usi strumentali o peggio manipolatori? E sopratutto chi è abilitato a dire quali sono le reali aspettative della persona di fronte al proprio lavoro?

Il tema della sussidiarietà, oggetto dell’intervista fatta a Giorgio Vittadini in occasione della presentazione del "Secondo Rapporto sulla Sussidiarietà", trova ampio sviluppo nello working paper predisposto da Elena Zuffada e Lorna M. Beretta. La sussidiarietà viene vista come principio ispiratore e strumento fondamentale di politiche regionali finalizzate alla crescita e alla diffusione della imprenditorialità a scala locale e nella prospettiva della sostenibilità. Alla analisi teorica viene affiancata la presentazione di alcune esperienze sussidiarie attuate dalla Regione Lombardia e dalla Regione Lambayeque in Perù. Due regioni che, in contesti diversissimi, sono caratterizzate dall'obiettivo di promuovere l'autonomia dei corpi intermedi e di stimolare l'autoorganizzazione sociale attraverso l'implementazione di buone pratiche.

Il paper di Sara Cepolina si inserisce in una prospettiva di grande interesse e attualità, quella dello studio dei sistemi innovativi a scale regionale. Trattasi di sistemi che richiedono di essere analizzati sia nelle loro molteplici dimensioni (produttive, scientifiche, istituzionali) sia nelle relazioni tra i soggetti che li compongono(le imprese, le università, i livelli di governo), trovando al riguardo opportuni indicatori quali quelli elaborati dalla Commissione Europea. Il quadro teorico viene dall'Autrice applicato e verificato con riferimento alla Liguria sottoponendo ad analisi critica le politiche e le strumentazioni promosse dall'Ente Regione. Le risultanze dell’indagine evidenziano la carenza di una visione chiara e unitaria per quanto concerne la ricerca e l'innovazione che si caratterizzano per la coesistenza di più soggetti con ruoli e compiti non chiaramente individuati e distinti per cui si riscontrano sia vuoti sia sovrapposizioni alla cui eliminazione potrà contribuire la creazione di efficaci sistemi di monitoraggio.