L'impresa soggetto e strumento del bene comune

Editoriali
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Nell'editoriale precedente ci siamo soffermati sul rapporto tra impresa e società civile chiedendoci nel contempo quale poteva essere la posizione dell’aziendalista nei confronti del rapporto medesimo. In tale ottica la tematica della responsabilità sociale rappresentava un passaggio ineludibille e anche un antidoto salutare contro il rischio di eccessive semplificazioni nello studio delle imprese sia a livello conoscitivo che normativo. "Non si può parlare di responsabilità – così affermavamo – prescindendo dalla complessità dell'impresa ovvero prescindendo dall’impresa quale categoria storica, multidimensionale, multirelazionale, plurale, confrontata con il cambiamento".
Intendo ora riprendere la questione e proporne qualche ulteriore declinazione a partire dall'approccio del Libro Verde della Commissione delle Comunità Europee in tema di Corporate Social Responsability. La "responsabilità principale" delle imprese è quella di "generare profitti". Nel contempo esse possono però procedere alla "integrazione volontaria" delle "preoccupazioni sociali ed ecologiche" nelle loro "operazioni commerciali e nei loro rapporti con gli stakeholders".
La riduttività di tale impostazione mi sembra di piena evidenza. Mi chiedo, infatti, se abbia senso oggi fare riferimento a una responsabilità sociale che semplicemente si aggiunge – in un quadro di volontarietà - a una responsabilità economica primaria che non viene messa in discussione, salvo il rispetto delle leggi e dei contratti. La responsabilità dell’impresa – sempre meno – può essere trattata a compartimenti stagni ovvero secondo logiche distinte, separate, gerarchizzate. Le dimensioni economica, giuridica, sociale, politica, culturale sono elementi integranti e interdipendenti di una unica missione con la quale l'impresa si misura con il contesto, tendenzialmente globale, nel quale è inserita.
Come più volte evidenziato, attraverso la parzialità della funzione specializzata esercitata (produzione di beni e servizi per il mercato) l'impresa si confronta, pur sempre, con valori e opzioni più ampi sino a diventare un "soggetto generale", capace di generare relazioni di convivenza tanto sul fronte interno quanto sul fronte esterno, a partire dalle urgenze etiche che la riflessione teorica e la sensibilità del tempo rendono evidenti. L'impresa non è un attore isolato, ma momento di una popolazione di attori sociali, che concorrono alla definizione del mercato e dell’ambiente. E l'ambiente è, a sua volta, un mix inestricabile di elementi economici e non economici che si riversano nell'impresa e ne determinano le molteplici e multiformi relazioni competitive, collaborative, politiche, culturali, morali.
L'impresa ha di fronte a sé più strade attraverso le quali perseguire i propri obiettivi di sopravvivenza e di sviluppo nel tempo. I problemi non hanno una e una sola soluzione. C'è posto per l'impegno dei soggetti e per la loro progettualità. Le innovazioni non nascono per "decreto" ma, al contrario, poggiano sulla fiducia. Fiducia all'interno delle organizzazioni, tra le organizzazioni, in rapporto al contesto. L'interdipendenza sta diventando criterio regolatore, se non proprio fondativo, delle odierne relazioni economiche e sociali. L'impresa contemporanea è dentro questa trama. Nella compenetrazione di aspetti economici, tecnologici, sociali, culturali, essa gioca a tutto campo la sua cittadinanza, non come monade, ma nella interazione con gli altri attori ambientali. La responsabilità sociale è chiave interpretativa e normativa, di fondamentale importanza, dell'essere e del fare impresa. In certo qual modo ne costituisce – questa è la nostra ipotesi di ragionamento - una componente strutturale.
Dall'esame della letteratura scientifica in materia emerge che la responsabilità sociale dell'impresa è un concetto complesso, suscettibile di approcci differenziati a seconda degli elementi o aspetti che si intende privilegiare.
Il primo elemento o aspetto sta nella capacità dell'impresa di produrre ricchezza a medio lungo termine, concorrendo per tale via ad aumentare il benessere dell'intera società. Le considerazioni etiche possono essere assunte nella misura in cui risultano funzionali o strumentali rispetto all'obiettivo fondamentale dell'impresa.
Il secondo elemento o aspetto sta nell'uso responsabile che l'impresa fa del suo potere politico ovvero della sua capacità di condizionamento ambientale. Il terzo elemento o aspetto sta nella volontà dell'impresa di integrare nelle proprie strategie attese e preoccupazioni sociali ed ecologiche. Entrambi gli approcci tendono a legare il successo dell’impresa all'equilibrio della soddisfazione offerta ai vari stakeholder interni ed esterni, legati all'impresa da un rapporto contrattuale oppure da relazioni di influenza più o meno intense.
Il quarto elemento o aspetto sta nel contributo che l'impresa dà alla costruzione di quella che A. Sen chiama una "buona società in cui vivere" facendo ciò che è eticamente corretto. E' l’etica che conferisce senso alla responsabilità sociale d'impresa, costituendone il fondamento ultimo. Occorre cioè fare riferimento a un insieme di principi, di valori, di orientamenti, volti a illuminare e guidare – in termini di buono e di giusto – la vita degli uomini. In questa prospettiva, la dignità e la libertà della persona assunta come fine – e non come mezzo – costituisce – a ben vedere – un convincimento morale ampiamente condiviso.
"Ricerca del buono e del giusto", "assunzione della persona come fine e non come mezzo" sono espressioni riconducibili al concetto riepilogativo di "bene comune". Bene comune inteso, nei suoi termini generali, come l'insieme dei beni (economici, culturali, istituzionali, spirituali) necessari sia alla comunità intera sia ai singoli individui ovvero – in una prospettiva dinamica – come l'insieme delle condizioni della vita sociale che permettono tanto alla collettività quanto ai suoi membri di perseguire la propria autorealizzazione il più efficacemente possibile. A. Sen non parla di sviluppo economico ma di sviluppo umano. Sviluppo come libertà e libertà come impegno sociale. L'uno e l'altro concetto fondati sulla nozione di "capabilities" ovvero di uguaglianza delle capacità.
Ci sembra di poter osservare che il dibattito politico ed economico attuale sta riscoprendo e reinterpretando il bisogno di bene comune in rapporto con il fallimento, teorico e pratico, delle impostazioni che fino a non molto tempo fa ne rimarcavano invece l'abbandono. Di fronte alla "tragicità" delle scelte si è in qualche modo costretti a mettersi d'accordo su alcuni valori fondativi comuni affidando al dialogo, al dibattito in un foro pubblico, tendenzialmente globale, la ricerca delle modalità e delle strumentazioni per dar loro concreta attuazione.
In tale ottica sempre più avvertita è l'esigenza di maggiore benessere per tutti e quindi di giustizia e di solidarietà, ma anche di efficienza, di uso corretto delle risorse in una prospettiva di sostenibilità. Da questo punto di vista, il mercato e la competizione non sono estranei al bene comune. Ciò nella misura in cui il mercato – garanzia di libertà – viene assunto come uno strumento e non come un fine, uno strumento radicato in un sistema di coordinate etiche, culturali, istituzionali che definiscono valori e orientamenti. Del pari la competizione non è tanto un gioco a somma zero (chi vince prende tutto) quanto un cercare insieme. Il rispetto dei diritti umani è una caratteristica del bene comune congiuntamente a socialità e cooperazione.
L'impresa è soggetto e strumento del bene comune così come è stato dianzi tratteggiato. L'impresa – restando impresa – può contribuire al bene comune in maniera consistente e originale, apportandovi la propria carica innovativa, la propria capacità di risoluzione dei problemi e di ottimizzazione dell'uso delle risorse, le proprie conoscenze e competenze.
L'impresa è chiamata a produrre benessere (beni e servizi per il mercato e relazioni di convivenza) rispondendo a una molteplicità di interlocutori (stakeholders) sulla base di un sistema valoriale complesso. Ciò può avvenire in tanti modo attraverso i quali si esprime e si misura in grado di responsabilità o – per dirla alla Gallino – di irresponsabilità dell'impresa.
Certamente l'impresa che si propone l'obiettivo prioritario, se non proprio esclusivo, di massimizzare l'interesse dei propri azionisti (o meglio degli azionisti che contano e pesano), operando sul breve e brevissimo termine, muovendosi sul fronte dei giochi finanziari e speculativi attraverso i quali moltiplicare fittiziamente una ricchezza che non cresce, rende un cattivo servizio al bene comune, ma anche a se stessa. Occorre piuttosto ripensare e riattualizzare quelle impostazioni teoriche che assumono come finalità generale dell'impresa la massimizzazione di lungo periodo del suo tasso di crescita compatibilmente con un livello adeguato di profitto. Trattasi di finalità coerente con il quadro motivazionale dei manager (almeno di quelli che non hanno perso il gusto di produrre ricchezza nell'ambito dell'economia reale) e più in generale degli stakeholders nel mentre il profitto può essere collocato in un sistema di coordinate più ampio rispetto all’area del tradizionale calcolo economico.
Il profitto, a medio e lungo termine, è certamente garanzia o base materiale per l'opzionalità dell'impresa ovvero per la salvaguardia dei suoi gradi di libertà. Senza di esso risulta difficile, se non impossibile, un discorso di responsabilità sociale, pur tuttavia un disavanzo strutturale sul fronte del consenso ovvero dei valori, rischia di pregiudicare fortemente la redditività d'impresa strettamente concepita. Il profitto chiede di essere deideologizzato. Esso è una componente del valore aggiunto che si crea nell'impresa e come tale destinato, da un lato, alla remunerazione di una specifica categoria di stakeholders (i proprietari del capitale) e, dall'altro, all'alimentazione della crescita economica e sociale dell’impresa, crescita che passa attraverso l'apporto solidale e interdipendente della globalità degli stakeholders a partire dal "fattore lavoro", dalla sua creatività ed intelligenza.
Abbiamo definito l'impresa soggetto e strumento del bene comune. Ciò non impedisce certo che la sua azione generi disuguaglianze (le innovazioni sono sempre costose per qualcuno) e si manifesti nel conflitto. In questi anni le divaricazioni tra democrazia e mercato sono diventate ancora più evidenti sia come portato di politiche marcatamente neoliberistiche sia, in special modo, per l'accresciuta consapevolezza della società civile che preme per comportamenti socialmente responsabili nell'ambito dell’economia e della finanza.
La linea di ragionamento da perseguire riguarda allora la possibilità di realizzare una economia di mercato – fra le tante ipotizzabili – coerente con la rimozione dell'ingiustizia sociale e la promozione dei diritti umani. Si tratta pertanto di verificare in qual modo i suoi elementi costitutivi (la proprietà dei mezzi di produzione, il ruolo di capitale e del lavoro, la destinazione del profitto, la concorrenza, il controllo, ecc.) possono essere declinati e combinati.
In tale prospettiva la democrazia economica rappresenta un passaggio ineludibile, intendendo con tale espressione un progetto che, oltre alla definizione di precise regole per il mercato, si propone l'attivazione di processi partecipativi sul versante sia della gestione sia del controllo del sistema economico nonché il consolidamento dello stato sociale facendo interagire dimensioni pubbliche e dimensioni privato-sociali.
L'impresa socialmente responsabile, è un'impresa che riconosce ampio spazio alle prassi partecipative, specie con riferimento – come già anticipato – al fattore lavoro e alle sue organizzazioni di rappresentanza sindacale. Certamente, oggi, partecipazione e concertazione non costituiscono più fatti meramente ideologici o sovrastrutturali. Essi rispondono, in larga misura, alla necessità di governare variabili economiche e sociali tra di loro collegate da rapporti di interdipendenza e processualità. I sistemi complessi per essere strutturati e gestiti richiedono diffusione di decisionalità, accesso interattivo alle informazioni, visione integrata dell'assieme, logiche cooperative, condivisione valoriale.
Resta però uno snodo cruciale. Esso sta nell'interpretazione e nell'uso del potenziale partecipativo insito nelle organizzazioni complesse e quindi nell'impresa. Agli interrogativi – chi partecipa? come? per conto di chi? in vista di quali obiettivi? con quali poteri? – possono essere date nei fatti e risposte molto diverse. Queste potrebbero essere esclusivamente aziendalistiche, favorire soltanto alcune fasce di lavoratori e di professionalità, trascurare ciò che si trova al di fuori dell'impresa, potenziare comportamenti corporativi. Del pari la concertazione di sistema potrebbe esaurirsi nell’accordo bloccato tra interessi forti nonché coprire all'interno delle singole organizzazioni prassi gerarchiche e autoritarie. Vi è però un'altra possibilità alternativa. Quella di trasformare il potenziale partecipativo delle organizzazioni complesse in un valore politico e culturale da spendere in vista di trasformazioni generali, sul terreno della ricerca di forme di convivenza sociale ed economica più ricche di significato. Concludo con una bella espressione di Jacques Delors. Suona così: "La competizione stimola, la partecipazione e la cooperazione consolidano, la solidarietà unisce". L'etica di impresa e nell'impresa – come già sottolineato nell'editoriale precedente - rimanda a un disegno più ampio, comprensivo di etica della politica, della società, delle istituzioni. Queste non possono non concentrare la loro attenzione e le loro risorse sulla progettazione di assetti regolamentari in grado di favorire il miglior dispiegarsi della vita economica. Le istituzioni creano, per così dire, le condizioni e le "infrastrutture normative" funzionali a più elevati tassi di moralità personale e collettiva.
Costumi virtuosi, autoregolazione e regolazione possono potenziarsi reciprocamente. Un "continuum" di eticità lega l'impresa, i mercati, la società civile, il sistema politico-istituzionale. Tale continuum, non indistinto, trova il suo fulcro nella persona, intesa quale essere relazionale. I valori che orientano e si formano nel suo comportamento si ripropongono nell'impresa. Questa si apre al mercato e alla società. Con altre parole i valori della persona, vissuti nella tensione costruttiva tra etica generale ed etica professionale, possono acquistare valenze imprenditoriali e sociali, diventare elementi costitutivi di forme di convivenza più valide.
L'economia ha bisogno di etica. Non un'etica astratta o generica, senza contatto con il mondo e le sue contraddizioni, ma un'etica capace di farsi "dimora", nella quale recuperare il senso dell'intraprendere, del lavorare, del vivere. Un'etica che non si traduce in vincoli o proibizioni ma che è capace di offrire orientamenti in vista del bene delle persone nelle loro valenze individuali e collettive. Un'etica dunque che non si sovrappone all'agire dell’uomo ma che diventa esigenza intrinseca dell'agire stesso.

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Questo nuovo numero della rivista è particolarmente interessante sia per i temi affrontati sia per gli autori presenti. Tra i saggi segnaliamo il contributo di Giuseppe Lombardo sulla dinamica del tasso interbancario. La ricerca presentata analizza in quale misura l'andamento di tale tasso ha modificato i tassi bancari ed i margini dell'attività di impiego e di raccolta delle banche, evidenziando fattori di rigidità dei tassi passivi ed una maggior flessibilità di quelli attivi. Nel complesso viene dimostrata la progressiva riduzione del margine di interesse a favore delle banche, da attribuirsi alla contrazione del mark-down sulla raccolta.
Il saggio di Sara Campi approfondisce i sistemi di welfare mix italiano e belga evidenziandone il principale fattore di eterogeneità, consistente nei meccanismi di regolazione dell’interazione tra gli attori del sistema. L'intento dell’Autrice non è tanto di mettere in luce le somiglianze tra i due sistemi o una presunta aderenza ad un "modello sociale europeo", quanto di sottolinearne le peculiarità, frutto degli autonomi percorsi storici che, in ciascuno dei due Paesi (secondo l’ipotesi di path dependance accolta anche dall’Oecd), hanno condotto alla creazione ed al consolidamento di specifici meccanismi di risposta ai bisogni sociali della cittadinanza.
Silvana Signori, infine, presenta un saggio di grande attualità, centrato sul comportamento dell'investitore etico, le cui scelte richiedono di essere ponderate sia in termini di efficienza economico-finanziaria (valutazione di rischio, rendimento, liquidabilità, ecc.) sia in termini di efficacia, ovvero di rispondenza alle sue motivazioni valoriali.
Nella sezione working paper presentiamo la ricerca di Fraquelli e Moiso sulla riforma in corso del servizio idrico italiano, con attenzione all’impatto sulla razionalità e sull’efficienza della gestione. Lo studio dimostra, in particolare, l'esistenza di economie di scala all’interno dei diciotto Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) esaminati, che verrebbero tuttavia sacrificate da una gestione frammentata, con grave perdita dei recuperi di efficienza attesi dalla riforma. Infine, troviamo tre interessanti contributi presentati a convegni internazionali: quello di Abatecola su aspetti cruciali delle società italiane quotate alla Borsa di Milano (l'assetto proprietario fortemente concentrato, i problemi di corporate governance, il ruolo dell’assemblea e del socio di maggioranza) e quelli di Garelli e Dameri che affrontano il vasto ed interessante tema della valutazione degli investimenti di Information Technology in azienda.