Imprese, economisti aziendali e società civile

Editoriali
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Nel dinamismo e nel vario articolarsi delle relazioni sociali, economiche, istituzionali, politiche, la società civile sembra occupare posizioni di crescente rilievo. Essa è:
-luogo di solidarietà concreta così come si esprime nei rapporti comunitari di tipo diretto, nel mutuo riconoscimento, nella reciprocità;
-è condizione indispensabile per la costruzione delle identità personali e comunitarie, nella libertà e nel pluralismo;
-è luogo di regolazione sociale, regolazione sociale che viene prima delle norme e delle sanzioni;
-è terreno nel quale si radica il capitale sociale, inteso come potenziale di interazione cooperativa a disposizione delle persone; è incubatore di creatività e di imprenditorialità sia sul fronte del mercato (piccole e medie imprese, distretti, ecc.) sia sul fronte del privato-sociale.

Per quanto concerne quest’ultimo aspetto (che affronto subito) il riferimento al variegato mondo del non profit o terzo settore costituisce un passaggio obbligato. Qui gli aziendalisti hanno assolto e assolvono a un ruolo di fondamentale importanza, quello di aver saputo affiancare all’analisi macro del fenomeno l’analisi micro, centrata su comportamenti, strategie, organizzazione, performances dei singoli soggetti. Hanno così contribuito a radicare il convincimento che nell’ambito del “non profit” la indispensabile dimensione etico-valoriale da sola non è sufficiente. Al contrario può nascondere o legittimare inefficienze, particolarismi, burocratismi. La sfida dell’innovazione, della qualità del servizio, dell’uso ottimale di risorse scarse (poco importa se gratuite) richiede da parte del non profit il riferimento anche ad altre dimensioni imprenditive, organizzative, finanziarie, ecc. Ciò per meglio rispondere, con sistematicità e continuità nel tempo, con economicità e efficacia, alla propria missione di utilità sociale e ai propri valori di solidarietà e altruismo. Credo di poter affermare che l’aziendalismo italiano sta dando molto alla realtà del “non profit”, ma anche molto riceve in termini di arricchimento delle proprie concettualizzazioni teoriche e metodologiche.

Vorrei ora approfondire il rapporto impresa-società civile e chiedermi nel contempo quale possa essere la posizione dell’aziendalista nei confronti di tale rapporto. Ricorro innanzitutto ad un’immagine figurata: l’impresa è nella società civile, la società civile è nell’impresa. L’interdipendenza sta diventando criterio regolatore, se non proprio fondativo, delle odierne relazioni economiche e sociali. L’impresa contemporanea è dentro questa trama. Nella compenetrazione di aspetti economici, tecnologici, sociali, culturali essa gioca a tutto campo la sua cittadinanza, non come monade, ma nella interazione con gli altri attori ambientali. La tematica degli stakeholders si colloca in quest’ottica senza, ovviamente, esaurirla.
Orbene, qual è il grado di consapevolezza di imprenditori e manager rispetto a quanto sopra affermato? Le risposte a tale interrogativo si presentano differenziate e non esenti da ambiguità. Per molti, l’impresa può ritenere soddisfatti i suoi obblighi verso la società civile se produce ricchezza, se aumenta il livello dei suoi profitti, nel rispetto della legge e dei contratti, magari facendo anche un po’ di beneficenza.
Per altri occuparsi della società civile è – di fronte all’asprezza della competizione internazionale – una perdita di tempo oppure un lusso che ci si può permettere solo dopo aver risolto problemi ritenuti più importanti e urgenti.
Per altri ancora, il ruolo del sociale non viene negato o trascurato. Va piuttosto iscritto nella categoria dei vincoli di cui tener conto nella formulazione delle proprie strategie. A date condizioni, poi, i vincoli possono trasformarsi in opportunità, in occasioni per nuovi business, in efficaci politiche di immagine.

L’elenco potrebbe continuare. Trattasi di impostazioni riduttive e strumentali. La nostra opinione – già espressa in altre sedi – è che il rapporto con la società civile costituisce una componente strutturale, una chiave interpretativa e normativa dell’essere e fare impresa. Il rapporto è tuttavia complesso e talvolta contraddittorio.
In termini generali, la società civile porta nel confronto (e talvolta nello scontro) con i sistemi economico-produttivi un ventaglio di criteri e di opzioni valoriali che vanno ben oltre la crescita del prodotto interno lordo (a livello macro) e della consecuzione del profitto (a livello micro). Il riferimento è a criteri di salvaguardia (la terra non è soltanto per noi, esiste un obbligo verso le generazioni future); di umanità (il rispetto di ogni uomo è la cifra del vivere insieme); di moderazione e di prudenza (nel senso di capacità di prevenzione dei rischi presenti e futuri); di diversità (ovvero di riconoscimento dell’altro come via per rispondere alla varietà delle situazioni); di cittadinanza (ognuno è membro a pieno titolo della comunità in cui vive, una comunità tendenzialmente globale).
In ordine poi ai concreti comportamenti d’impresa, le istanze che scaturiscono dalla società civile sono molteplici. Si pensi alla domanda di maggiore trasparenza e affidabilità delle informazioni onde poter valutare il grado di soddisfazione delle aspettative dei diversi stakeholders; alla diffusione di guide al consumo responsabile; alla necessità di rispettare determinati parametri etici onde poter accedere a numerose istituzioni finanziarie; alle sempre più frequenti azioni di sensibilizzazione, protesta e anche boicottaggio poste in essere da associazioni e movimenti; alle innovazioni legislative che si pongono come deterrente nei confronti di comportamenti moralmente scorretti.
Il collegamento tra società civile e impresa sta nella responsabilità sociale di quest’ultima. Assumerla nelle nostre riflessioni di aziendalisti rappresenta – a mio avviso – un antidoto salutare contro il rischio di eccessive semplificazioni nello studio delle imprese sia a livello conoscitivo che propositivo.
Non si può parlare di responsabilità prescindendo dalla complessità dell’impresa ovvero prescindendo dall’impresa quale categoria storica, multidimensionale, multirelazionale, plurale, confrontata con il cambiamento. Anche attraverso la parzialità della funzione specializzata esercitata (produzione per il mercato) l’impresa si confronta con valori e opzioni più ampi sino a diventare un “soggetto generale”, capace di generare relazioni di convivenza (interne ed esterne) a partire dalle urgenze che la riflessione teorica e la sensibilità del tempo, così come si esprime nella società civile, rendono evidenti. Si aggiunga inoltre che l’impresa non può essere considerata come un ambito interamente costituito da rapporti contrattuali. Essa è anche una comunità ovvero un’associazione di persone e di gruppi che non cessano di far parte della società civile una volta entrati nell’impresa. Questa deve fare i conti con un irriducibile pluralismo che si esprime nella combinazione di interessi particolari e interessi generali, di valori personali e collettivi. Tale pluralismo richiede orientamenti condivisi evitando anarchie e totalitarismi.

Da quanto sinteticamente richiamato in ordine alle attese e alle istanze della società civile nei confronti dei sistemi economico-produttivi discendono almeno due raccomandazioni che gli aziendalisti potrebbero rivolgere a imprenditori e managers. La prima. Occorre dotarsi di una intelligente capacità di lettura e quindi di interlocuzione con la società civile al fine di costruire efficaci relazioni fiduciarie con i principali stakeholders.
La seconda. Occorre essere del tutto consapevoli del fatto che l’impresa “economicamente eccellente” deve essere anche “socialmente capace” ovvero in grado di assumere come obiettivo strategico e come pratica quotidiana il perseguimento congiunto del valore economico e del valore sociale.
Un rapido approfondimento con riferimento a questo aspetto specifico. La valutazione che il mercato dà di una impresa fa riferimento anche alle performance sociali dell’impresa stessa. Non si può competere con successo senza legittimazione sociale. Il ragionamento tradizionale secondo cui il perseguimento di politiche socialmente responsabili comporta dei costi addizionali per l’impresa viene di fatto capovolto. E’ la non legittimazione sociale ad essere onerosa. L’incoerenza tra concreti comportamenti di impresa e valori ritenuti rilevanti per la collettività (rispetto dei diritti umani, rispetto dell’ambiente, ecc.) viene sanzionata dal mercato in termini di minori vendite, perdita di immagine e di attrattività (si vedano i casi Nike, Reebok, Nestlé). Osserva Stefano Zamagni:“Ai capitalisti del XXI secolo non basta essere bravi negli affari; devono sentirsi accettati dalla società civile. All’impresa viene oggi chiesto ciò che un tempo sarebbe stato considerato impossibile: giustificarsi!”.
Da tutto ciò discendono implicazioni rilevanti per l’aziendalista in quanto la reputazione conseguente al perseguimento di prassi efficaci di responsabilità sociale entra a pieno titolo nell’economia dell’impresa fornendo ad essa qualità e sostenibilità nel medio-lungo termine. La reputazione costituisce un fondamentale “intangible asset” dell’impresa aumentandone il valore, la capacità competitiva sul mercato, il posizionamento sociale. La lealtà e la fiducia riducono i costi di coordinamento, di controllo, di contrattazione. Aumentano la capacità di fronteggiamento dell’incertezza e il tasso di innovatività. Fidelizzano fornitori e clienti. La cooperazione tra le imprese, tra queste e la società civile determina, a livello macro, esternalità positive di cui tutti possono usufruire attivando una circolarità virtuosa tra capitale reputazionale e capitale sociale.

Il rapporto impresa-società non può essere scisso dal quadro politico e dall’assetto istituzionale storicamente dato. Le istituzioni hanno il compito di definire il disegno normativo in grado di favorire il miglior dispiegarsi della vita civile ed economica attraverso anche la consecuzione di soddisfacenti tassi di moralità pubblica.
I misfatti finanziari possono nascere, oltre che da comportamenti scorretti di imprenditori e manager, anche dall’inesistenza – o meglio dalla inefficacia – di regole e di controlli adeguati. Controlli pubblici e soprattutto controlli sociali ivi compresi quelli esercitati dalla business community. Ma esiste una business community nel nostro Paese? Come ha osservato di recente Padoa-Schioppa, “l’anello debole è stato ed è, in Italia, la fiacchezza della sanzione sociale, da parte degli onesti, nei confronti di chi notoriamente opera con scarsa correttezza, manca di parola, mescola i propri affari con quelli dell’impresa … Se l’organismo sociale non è abituato a produrre gli anticorpi necessari alla propria buona salute, le cellule malate si moltiplicano e le medicine regolamentari o giudiziarie non bastano a tenerlo in vita”.
Costumi virtuosi, autoregolazione e regolazione possono potenziarsi reciprocamente. Un “continuum” di eticità lega l’impresa, i mercati, la società civile, il sistema politico-istituzionale. Tale “continuum”, non indistinto, trova il suo fulcro nella persona, intesa quale essere relazionale. I valori che orientano e si formano nel suo comportamento si ripropongono nell’impresa. Questa si apre al mercato e alla società. Con altre parole i valori della persona, vissuti nella tensione costruttiva tra etica generale ed etica professionale, possono acquistare valenze imprenditoriali e sociali, diventare elementi costitutivi di forme di convivenza più valide.
Mai come in questo momento avvertiamo l’esigenza di un clima etico diffuso e radicato. Esso non cade dall’alto né nasce per decreto. Richiede l’impegno convinto dei diversi soggetti e delle organizzazioni in cui operano. Certo non si può chiedere alle imprese cose che loro non competono; del pari non possono essere snaturate in nome di una presunta socialità, magari a copertura di inadempienze di altri protagonisti. Pur tuttavia gli imprenditori e i manager non possono sfuggire ai doveri morali che hanno nei confronti della comunità. Le loro parole e le loro azioni influenzano e talvolta condizionano il modo di vivere nell’impresa e nella società. Possono fare molto bene, ma anche molto male.
Tutto ciò non può lasciarci indifferenti, ma al contrario stimolarci – come aziendalisti – all’esercizio di una funzione critica e al tempo stesso costruttiva. Costruttiva, soprattutto. L’impresa può (sottolineo il “può” che rimanda alla responsabilità della scelta) essere soggetto e strumento del bene comune, con il contributo consistente e originale della propria carica innovativa, della propria capacità di risoluzione dei problemi, delle proprie competenze e conoscenze.
La comunità degli aziendalisti dovrebbe porsi al servizio di un “patto” capace di legare impresa e società civile. Questa – la società – vede nell’impresa una risorsa da salvaguardare e sviluppare; quella – l’impresa – accetta, come dianzi accennato, la sfida del bene comune. Il bene dell’impresa (capacità di reddito nel medio-lungo termine) ed il bene del contesto in cui l’impresa è inserita sono tra loro strettamente interconnessi nel reciproco riconoscimento dell’impegno e del contributo necessari per la realizzazione di assetti più giusti e solidali, capaci di coniugare competitività, crescita economica, occupazione, vita buona (o perlomeno decente) per tutti.
Per il nostro Paese, sempre più coinvolto in processi involutivi, trattasi di sfida di particolare impegno. Al riguardo possono individuarsi tre passaggi significativi.
Il primo. Occorre, da un lato, investire nell’intelligenza (le grandi reti capaci di diffondere sviluppo e innovazione, di fertilizzare il territorio) e, dall’altro, in una migliore qualità della vita per tutti. Vi sono bisogni ed esigenze che non possono più essere sacrificati a livello di assistenza, cultura, protezione ambientale, ecc. Essi rappresentano nel contempo importanti “giacimenti” per alimentare la crescita.
Il secondo. Occorre creare un clima di fiducia tra i vari protagonisti dell’economia e della società, in particolare imprese, sindacato, istituzioni. Il riferimento d’obbligo è alla concertazione ovvero allo scambio di certezze reciproche tra i diversi attori in ordine al conseguimento di obiettivi condivisi.
Il terzo. Occorre solidarietà. Solidarietà tra uomini e donne; tra padri e figli; tra regioni ricche e regioni povere; tra chi ha i soldi ma non li investe e chi ha capacità di iniziativa economica e sociale e chiede di essere sostenuto. La solidarietà non è soltanto una categoria morale, è anche uno strumento fondamentale per moltiplicare le risorse disponibili. Solo ampliando l’ambito di riferimento ideale e pratico si può pensare a un modello di sviluppo, e quindi di vita, con costi umani meno elevati degli attuali, più ricco, più solidale, capace di riprodursi creativamente, ma anche di rispondere alle domande di senso degli uomini e delle donne nel nostro tempo.
Nella misura in cui lo studioso è convinto di non poter mettere i valori tra parentesi si rende conto che le discipline economiche, aziendali, organizzative professate perdono la loro autosufficienza, diventano discipline aperte, capaci di trascendere i propri limiti, ampliando di conseguenza gli orizzonti conoscitivi e operativi. La prospettiva di una società più “buona” e più “giusta”, di cui l’impresa è protagonista a pieno titolo, ci stimola a ravvivare la funzione sociale della nostra attività di ricerca a promuovere una circolarità virtuosa tra essenza morale e progresso intellettuale.

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Una rapida presentazione dei contenuti di questo terzo numero della rivista che si apre con il saggio “Una o più scienze?” del filosofo Michele Marsonet, Preside della Facoltà di Lettere dell’Università di Genova, preceduto da una corposa presentazione di Marco Di Antonio. Trattasi di due contributi di grande spessore culturale e metodologico che ben difficilmente troverebbero ospitalità nelle più accreditate riviste di scientific management o di business economics assunte, secondo la moda del momento, come benchmark di scientificità a livello internazionale e quindi come parametro cui far riferimento per attribuire le risorse destinate all’attività di ricerca.

L’appiattimento acritico su ciò che accade altrove (sottolineo appiattimento acritico, non certo la sottovalutazione) lascia fuori o considera irrilevanti alcuni interrogativi sulla natura e sulle prospettive delle nostre discipline. Siamo sicuri che il loro futuro stia, prioritariamente, sul versante delle scienze empirico-naturali cui esse dovrebbero adeguarsi per avere una patente di rigore non garantita dalla loro collocazione nell’ambito delle scienze umane e sociali? Siamo sicuri che il metodo empirico-quantitativo debba essere strumento privilegiato di conoscenza nelle discipline economico-aziendali per le quali le analisi qualitative – costrette a fare i conti con valori e motivazioni – sarebbero di intralcio? O non è forse vero che i modelli dello scientific management sono del tutto astratti e lontani dalla realtà che, molte volte, non aiutano né a capire né a gestire? Facciamo nostra la posizione di Bennis e O’ Tool, richiamata da Di Antonio nella sua presentazione. L’importanza del metodo scientifico non va negata ma non assolutizzata. Occorre coltivare gli approcci multidisciplinari (e tra questi di fondamentale importanza quelli che si ricollegano alle scienze umane), fertilizzare la legge astratta con i concreti comportamenti aziendali, considerare il management come una professione per la quale – aggiungiamo noi – il tema dell’etica e della virtù non è un mero accessorio.

Marsonet e Di Antonio concorrono ad allargare lo schema di riferimento in cui si collocano gli interrogativi posti nel primo Editoriale su dove vanno le nostre discipline, fornendo nuove prospettive di approfondimento. Il tema è fertile come dimostrano anche i due brevi ma stimolanti contributi di Sergio Sciarelli e Giuseppe Usai. Ritorneremo ancora su questi argomenti.

Il saggio di Roberto Cafferata propone un modello interpretativo dei rapporti tra impresa e ambiente alla luce di un approccio dialettico. L’impresa, in quanto organizzazione, è una risorsa oltre che una forza per le altre organizzazioni del campo, in modo programmato o spontaneo. L’ambiente, nelle sue varie articolazioni, crea opportunità e vantaggi di appartenenza ma presenta anche tensioni e rischi di esclusione. La dialetticità aiuta a comprendere la compresenza di meccanismi tanto di conservazione quanto di riproduzione sistemica. In quest’ottica il rapporto impresa-ambiente va inteso come rapporto di adattamento che consente di superare da una parte il razionalismo dogmatico e dall’altra l’organicismo illimitato.

Giorgio Giorgetti, con il suo contributo, propone un interessante schema interpretativo dei problemi dell'impresa sociale, la cui legge delega è stata da poco approvata nel mentre sono in corso di elaborazione i decreti attuativi. Tale schema poggia su due assunzioni. Da un lato, occorre sviluppare una cultura sociale fondata sulla relazionalità e non solo sulle prestazioni; dall’altro, occorre puntare sul ruolo regolatore, promozionale e di garanzia dell’istituzione pubblica. In mezzo ci sta la comunità quale sistema socio-economico orientato alla solidarietà.

L’intervento di Marco Delfino – attraverso un excursus delle principali teorie manageriali in materia – approfondisce il ruolo svolto della conoscenza, quale fattore di vantaggio competitivo, nell’ambito delle strategie orientate alla creazione del valore in contesti caratterizzati da crescente turbolenza e complessità. Di particolare interesse l’assunzione della conoscenza come “bene pubblico globale” con la conseguente necessità di affiancare al mercato, quale mediatore tra generazione e applicazione di conoscenza, altri meccanismi fondati sulla collaborazione reticolare.

Roberta Scarsi si misura con un interrogativo specifico. Come mai comunità d’affari evolute – quali la comunità armatoriale – pur presentando consolidate tradizioni imprenditoriali ed essendo costituite da soggetti cui non difetta l’esperienza e la capacità di stare su mercati aperti, pongono periodicamente in essere azioni incomprensibili, difficilmente spiegabili sotto il profilo di una logica razionale? I comportamenti imitativi potrebbero essere la fonte – questa è l’ipotesi prospettata nel saggio – di tali errori decisionali.

Anche la sezione degli working paper è ricca ed articolata. Giovanni Lombardo, dopo aver dato sintetico conto delle risultanze di alcuni recenti incontri in tema di “corporate social responsability”, presenta alcune evidenze empiriche in ordine alla correlazione tra performance aziendali e adozione di prassi socialmente responsabili con particolare attenzione agli investimenti e ai fondi etici.

Le competenze costituiscono il patrimonio culturale, professionale, relazionale dei soggetti e nel contempo rappresentano il cuore dell’attività dell’impresa finalizzata alla costruzione di un valido e duraturo vantaggio competitivo. Il bilancio di competenze, che Teresina Torre approfondisce nel suo paper, evidenziandone potenzialità e criticità, può rivelarsi strumento di grande importanza per attivare una circolarità virtuosa tra i due aspetti, spostando il focus dalla gestione delle risorse umane alle persone, in quanto tali, protagoniste del processo lavorativo.

Per Clara Caselli e Stefania Mittiga l’eticità delle relazioni internazionali sta nella capacità di favorire uno sviluppo autonomo basato sulla valorizzazione del capitale umano e nel rispetto delle diverse culture locali. In questo contesto si colloca il caso dell’artigianato peruviano la cui promozione viene analizzata con riferimento alle esperienze di commercio equo e solidale cui vanno però aggiunte – stante la loro fragilità – altre forme di relazione quali la creazione di reti a livello nazionale e internazionale, l’incentivazione di prassi di responsabilità sociale finalizzate alla crescita umana ed economica delle diverse realtà locali.

Il ruolo che le ICT rivestono nei processi di riforma delle autonomie locali costituisce l’oggetto del contributo presentato da Federico Fontana. Sono in gioco questioni di efficienza e di efficacia connesse alla qualità della governance, alla soddisfazione delle esigenze dei cittadini e delle imprese, all’uso razionale delle risorse pubbliche. C’è bisogno di grandi innovazioni tecnologiche e organizzative. Si tratta di creare le condizioni affinché le ICT possano dispiegare tutte le loro potenzialità.

Le consuete rubriche completano questo numero di ImpresaProgetto che ci auguriamo possa continuare a suscitare l’interesse degli studiosi e degli operatori stimolandone la collaborazione.