Tra realtà e apparenza: la sfida dell’“effective change”

Il cambiamento è intrinseco ai fenomeni organizzativi. Lo è, a dire il vero, in tutti i fenomeni di natura sociale, inclusi appunto quelli organizzativi. Dunque, chi si occupa di organizzazione si occupa, necessariamente, di cambiamento. E’ vero per gli studiosi di questo campo di ricerca. Ed è vero, analogamente, per chi si occupa di organizzazione da un punto di vista professionale: imprenditori, manager, consulenti, di qualsiasi ambito e livello. Ed è altrettanto vero per chi “vive” i fenomeni organizzativi nella quotidianità – il che equivale a dire che ciascuno di noi, nessuno escluso, osserva dall’interno dei processi nei quali è coinvolto (lavorativi, sociali, personali ecc.) cambiamenti continui. Alcuni graduali, impercettibili, altri più rapidi ed evidenti. Non solo li osserviamo, ma li valutiamo, cerchiamo di adattarci, cerchiamo di capirli, cerchiamo di anticiparli, persino di indurli o progettarli, talvolta siamo costretti a subirli. A volte ne siamo consapevoli, altre volte poco o per nulla.

Tutto questo è sempre stato vero per la civiltà umana – il cambiamento è inerente, come si diceva sopra, ad ogni fenomeno sociale. Ma nel mondo attuale, più che in passato, le trasformazioni appaiono rapide e profondamente influenti su molti aspetti della nostra vita. Co-evolvono, oggi più che mai, molti processi trasformativi – la società e la cultura, l’evoluzione tecnologica, la globalizzazione, il cambiamento climatico, i processi di immigrazione, l’economia, ecc. E, in molti casi, la velocità di cambiamento, già rapida, tende ad aumentare. E’ certamente vero per la tecnologia – quasi tutti i parametri o gli indicatori tecnologici più importanti mostrano inequivocabilmente una accelerazione che pare, ad oggi, inarrestabile. La legge di Moore, tanto per fare un esempio assai noto, sembra destinata a restare valida per lo meno per l’orizzonte temporale ragionevolmente prevedibile. Ma simili dinamiche si osservano anche, per esempio, in ambito economico. Alcune tra le imprese più grandi, potenti e influenti di oggi pochi anni fa non esistevano nemmeno: Google, Amazon, Facebook, e altre ancora. Le storie di successo sono spesso esplosive, di crescita rapidissima, esponenziale, anche in settori tradizionali: si pensi a Tesla, a Uber o, in Italia, a Yoox.

 

Il passo di queste trasformazioni è oggi più rapido che in passato per molte ragioni. Certamente una di queste è che viviamo in un mondo quasi totalmente inter-connesso, dove le conseguenze di azioni e decisioni si propagano rapidamente, a costi bassi e senza vincoli di spazio. Un’altra ragione è che l’azione organizzata – quella della imprese e delle istituzioni, ma anche quella meno formalizzata o che emerge “dal basso”, quella della “gig economy” e della “sharing economy”, solo per fare due esempi, è ormai pervasiva. Le organizzazioni, di tutti i tipi, costituiscono ormai il “milieu” normale per la vita umana, in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi momenti, dal lavoro alla vita extra-lavorativa, dalla sveglia alla buonanotte, dalla culla alla pensione. E questo, con ogni probabilità, genera e velocizza i cambiamenti, ne amplifica ed estende la portata. L’organizzare è intrinsecamente dinamico. Una civiltà “intrisa” di azione organizzativa è inevitabilmente caratterizzata da forti trasformazioni, in continua accelerazione.

Tutto questo è ormai acquisito – anzi, nel 2017, è diventato quasi banale.

Eppure.

 

Eppure, bisogna fare attenzione. Perché ogni cambiamento, certamente ogni cambiamento organizzativo, può essere letto in molti modi. Soprattutto, può essere letto a diversi livelli di analisi, e in relazione a diversi portatori di interessi. Il fatto che le trasformazioni siano rapide non le rende meno ambigue – al contrario, la velocità a volte può nascondere, o comunque rendere più difficile, un’interpretazione chiara di cosa stia accadendo. E, analogamente, trasformazioni evidenti ad un certo livello di analisi (macro piuttosto che micro) o in un certo ambito (tecnologico, sociale, economico ecc.) possono in realtà offuscare fenomeni opposti – in cui, per esempio, se da un lato cambiano anche radicalmente le modalità d’azione, può non cambiare affatto – anzi, consolidarsi – la logica di allocazione delle risorse, di distribuzione del potere decisionale, di acquisizione della legittimazione e, in generale, gli interessi prevalenti. Anzi, il cambiamento a un livello può essere strumentale al non-cambiamento ad altri livelli.

Di più: occorre distinguere tra il cambiamento a livello dell’azione e la retorica del cambiamento, ossia il modo in cui tale cambiamento viene comunicato dai suoi protagonisti, narrato dai media, discusso nel dibattito pubblico, percepito da chi invece lo deve subire passivamente. Questo gap – tra cambiamento effettivo e sua narrazione – non è un tema nuovo. Già dagli anni 90 una parte via via più cospicua della letteratura organizzativa se ne è occupata, quasi sempre a partire da una postura fortemente critica dello stato dell’arte (della letteratura e dell’ambiente manageriale). Non è una questione che nasce oggi quindi, ma è continuamente rinnovata (nell’interesse, e nelle modalità in cui si sviluppa) dagli stessi fenomeni di cambiamento che abbiamo sopra citato, dalle tecnologie che inevitabilmente ristrutturano le modalità di narrazione, all’emergenza di nuovi temi e nuove “aree” di cambiamento, le quali inevitabilmente ripropongono, su ambiti diversi, la stessa questione.

 

In questo quadro, il ruolo che gli studi organizzativi avranno nel dibattito pubblico dei prossimi anni – che potrà essere del tutto marginale, come molti osservano, temono e lamentano, o invece fondamentale, in quanto anima critica e competente, come tutti noi ci auguriamo – dipenderà precisamente dalla capacità di leggere la realtà che ci passa velocissimamente davanti agli occhi proprio in relazione alla questione di cui sopra: fino a che punto le trasformazioni in atto riguardano un cambiamento “profondo” delle cose, o quanto invece le logiche più importanti, sopra citate, restano per lo più immutate. Perché da una risposta convincente a questo interrogativo, declinata sulle varie aree di trasformazione economica e sociale, dipenderanno le scelte più importanti – dipenderà la definizione delle politiche e degli obiettivi collettivi, a tutti i livelli.

Gli studiosi di organizzazione, insomma, possono e debbono avere un ruolo in questo, nel dibattito accademico e anche, forse ancora di più, nel dibattito pubblico. In fin dei conti, uno dei padri nobili degli studi organizzativi, il premio Nobel Herbert Simon, affermò oltre 70 anni fa che il ragionamento organizzativo non può che partire dall’analisi delle catene mezzi – fini, dunque dagli obiettivi e dalle politiche.

 

***

 

In questo numero speciale ospitiamo alcuni contributi presentati al convegno WOA- Workshop dei Docenti e dei Ricercatori di Organizzazione Aziendale, tenutosi a Pisa nel febbraio del 2017. Il tema del convegno fu appunto: “Organizing between reality and appearance in times of change”. Fu un evento molto vivace, con molti contributi interessanti. Non vi è dubbio che gli organizzativi hanno cose da dire sul tema. Hanno competenze, strumenti e idee. Molti ricercatori tra i più giovani, in particolare, hanno sviluppato contributi interessanti, e qui ne offriamo una selezione che illustra alcuni tra i vari punti di vista mediante i quali si può affrontare il tema della retorica del cambiamento. E’ interessante segnalare che i saggi offerti alla vs. attenzione toccano temi centrali e per molti aspetti trasversali, temi che in realtà sono meglio descrivibili come “questioni” o “problemi”. Nel dettaglio, si tratta di: l’alimentazione e il contenimento degli sprechi (cui è dedicato il saggio di Francesca Ricciardi e Sabrina Bonomi); la riduzione della corruzione (esaminato da Pietro Previtali nel suo paper); la retorica aziendale in rapporto alle pratiche manageriali (tema al centro del saggio di Raimondo Ingrassia); il lavoro e la sua trasformazione in rapporto alla centralità delle persone (che Davide De Gennaro, Filomena Buonocore e Maria Ferrara sviluppano nel loro lavoro); la gestione della cultura e il rapporto con gli utenti (che è il tema approfondito da Cavaliere, Sassetti e Lombardo)

Sono appunto “problemi”, sfide del nostro tempo. Se ne potrebbero aggiungere altre naturalmente, di portata ancora più globale: la disuguaglianza, la convivenza e la diversità, il cambiamento climatico etc. Non sono temi “classicamente” organizzativi, si potrebbe dire. Ma dovrebbero diventarlo. Perché sono le grandi sfide collettive. E sono sfide che vengono agite per lo più in contesti organizzati. Su queste sfide, quindi, gli studi organizzativi possono e debbono dire qualcosa di decisivo: possono aiutare il dibattito a distinguere tra cambiamento e retorica del cambiamento e, in relazione a ciò, a identificare rapporti tra mezzi e fini, tra azione organizzativa e obiettivi desiderabili. E’ un dibattito decisivo, anche per il futuro ruolo della comunità scientifica organizzativa, e che va affrontato con la velocità e la prontezza di risposta che i tempi in cui viviamo richiedono.

 

Il numero è arricchito da due interviste, che offrono sulla questione del cambiamento il punto di vista dei practitioners. Si tratta di Isabella Covili, presidente nazionale di AIDP- Associazione Italiana per la Direzione del Personale e di Salvatore Merando, presidente di Assochange – Associazione Italiana di Change Management, di cui fu uno dei fondatori. Rispondendo alle domande che abbiamo posto loro, i nostri interlocutori mettono in gioco la loro personale esperienza e quella dei contesti operativi di cui sono parte e ci offrono spunti interessanti per approfondire come l’inevitabilità del cambiamento possa (e debba) diventare “efficace” ed “effettiva”, allo stesso tempo.