Sussidiarietà: molte potenzialità ancora da scoprire

In occasione della presentazione a Genova del volume "Sussidiarietà e Riforme Istituzionali - Secondo Rapporto sulla sussidiarietà", abbiamo avuto modo di intervistare Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione omonima - nonché fondatore e primo presidente della Compagnia delle Opere - e professore presso l'Università Bicocca di Milano.
La Fondazione per la Sussidiarietà nasce nel 2002 per iniziativa del nostro interlocutore e di un composito gruppo di professori, imprenditori e professionisti, con l’obiettivo di fornire strumenti di giudizio stabili e strutturati sulla realtà sociale, politica ed economica, nazionale e internazionale. Ha come mission l'approfondimento culturale-scientifico e la diffusione di una visione della società basata sulla centralità della persona e sul principio di sussidiarietà, con particolare rilievo agli aspetti educativi connessi.
Il prof. Vittadini rappresenta pertanto una delle più autorevoli voci con cui affrontare un tema complesso e di grande attualità, quale è appunto quello della sussidiarietà.
Da dove nasce, innanzitutto, questa idea di sussidiarietà come "terza via"?
Nasce e si concretizza nell'ambito della Compagnia delle Opere, negli anni '80; nasce all'interno del tentativo condotto di confrontarsi con la realtà economica e sociale, che ci poneva davanti problematiche complesse in relazione a diversi temi, tra cui, in particolare, le esigenze del mercato del lavoro e le prospettive di crescita per le PMI.
Ci siamo presto resi conto, osservando la realtà - le imprese e le opere con cui si intrattenevano rapporti - di come esistessero soluzioni che non erano collocabili né nello statalismo – all'epoca ancora molto forte – né in un'idea di liberismo spinto in cui la ragion d'essere dell’azione economica risiede semplicemente nel la ricerca della massimizzazione del profitto e della sua distribuzione tra gli shareholder. Si vedevano già allora i prodromi di ciò che si può osservare oggi, non solo a livello micro ma anche macro. Nessuno si sogna si riproporre un modello economico nel quale il ruolo dello Stato era preponderante, ma l'attuale crisi finanziaria mette altresì in luce come la soluzione non sia – come continuano a sostenere alcuni pensatori a mio modo di vedere "poco illuminati" – il liberismo e la presunta capacità di autoregolazione dei mercati, perché i mercati non sono in grado di rispondere da soli a situazioni di questo genere.
Che alternative rimangono? Rimane quella che per semplicità definiamo la terza via, vale a dire una visione dell'economia in cui è importante la posizione ideale, perché essa porta a costruire soluzioni in cui la persona è centrale; la persona intesa a tutto tondo, quindi in termini di relazioni e motivazioni e con tutte le ripercussioni di ciò sul modo di concepire l'economia, sulla definizione stessa di mercato, sulla struttura delle aziende, sul rapporto con clienti e fornitori, ecc.
Ricordiamo che non era ancora stato assegnato il Premio Nobel per la pace ad un teorico del microcredito (Muhammad Yunus, premiato nel 2006, n.d.r.) come è avvenuto recentemente. Si era consci di come fosse strutturata la finanza, ma al contempo si percepiva che nel piccolo erano in movimento esperienze interessanti e intelligenti; ci si rendeva conto che le posizioni consolidate – mortificate da un appiattimento dei cattolici sullo Stato e da un movimento operaio ridotto allo statalismo o all'opposizione di governo – facevano acqua.
Esisteva (e stava sempre più richiamando l'interesse degli studiosi), però, una pluralità di esperienze italiane e internazionali, legate alle opere dei movimenti storici, cattolico ed operaio, alla tradizione delle casse rurali, delle casse di risparmio, delle banche popolari… Lester Salamon si riferisce a ciò in termini non di sussidiarietà, ma di partenariato pubblico-privato nella società americana; Helmut Anheier studia le esperienze di non profit a livello internazionale in chiave positiva; sociologi dello Stato – come Paul Hirst o Peter Wagner - approfondiscono, sia pur in diverso modo, il tema del ruolo della società civile e dell'importanza della cooperazione a livello internazionale, di fronte al fallimento dei tentativi di sviluppo basati esclusivamente sul trasferimento di denaro. E si potrebbe proseguire con gli esempi…
Quindi la sussidiarietà è il punto di arrivo di una serie di riflessioni che la Compagnia delle Opere stava facendo sulla realtà economico-sociale italiana?
Di fatto sì. La Compagnia delle Opere era (ed è tuttora) una realtà che nasce dall'esperienza: quindi, per noi, la parola sussidiarietà non può che essere frutto di un'osservazione della realtà.
Va però sottolineato che stava emergendo, nel mondo, un approccio diverso, si stava affermando la convinzione che ci fosse "qualcosa" che non regge nelle vecchie ideologie, nella contrapposizione tra destra liberista e sinistra statalista. Si trovano tracce di questo cambiamento un po' ovunque: nella teoria dei quasi mercati di matrice anglosassone; nel laburismo "alla Blair" che esprime elementi estranei alla sinistra tradizionale; nella crescente importanza riconosciuta alla responsabilità sociale dell’impresa, per fare alcuni esempi.
La parola sussidiarietà (e il suo contenuto) sembrava tradurre questo nuovo modo di guardare alla realtà economica e sociale, al dinamismo che in essa si genera a partire da un rinnovata attenzione alla persona che opera. Se ben ricordo, la usammo per la prima volta al Congresso Eucaristico di Bologna del 1997, dove venne affrontato questo tema e le sue implicazioni. Trovammo largo consenso nel Forum del terzo settore, nella Lega delle cooperative e, più in generale, nella società italiana.
Il termine sussidiarietà, peraltro, ha le sue radici nella dottrina sociale della Chiesa, giusto?
In effetti esso era stato utilizzato nel 1934, ma era stato subito dimenticato, confinato in una nicchia, quella nicchia in cui sembrava destinata a collocarsi la dottrina sociale della Chiesa Cattolica di quegli anni.
La nostra ripresa – e l'intuizione che la sussidiarietà potesse costituire il punto di svolta di un approccio nuovo e diverso all'economia, al ruolo dei soggetti che ne fanno parte, alla dinamica sociale ed al ruolo della politica – si tradusse in una proposta di legge di iniziativa popolare, finalizzata all'introduzione del principio di sussidiarietà nel testo della nostra Costituzione, proposta che raccolse oltre un milione di firme consegnate poi in Parlamento. Ci fu, quindi, una convergenza crescente del mondo politico post-prima repubblica che, dovendo ricercare soluzioni nuove ai problemi della società, trovò e trova tuttora consenso nella riscoperta di questa parola; essa ha il merito di dire che la democrazia non si riduce al Parlamento o alle elezioni, ma che si esprime in forme partecipate, forme di mercato con esigenze etiche, in un rapporto tra Stato e privato (di qualunque connotazione esso sia) non conflittuale ma complementare.
Un esempio è interessante citare. I "centri di solidarietà per il lavoro": luoghi che, 15 anni prima della legge cd. Biagi, si ponevano la domanda (e sperimentavano tentativi di risposta) di come aiutare il bisogno delle persone di trovare lavoro, di attrezzarsi ad affrontare i cambiamenti del mercato del lavoro, di fatto sopperendo alle mancanze ed ai limiti dei centri di collocamento statale ed interpretando quella che si sarebbe poi chiamata gestione attiva del mercato del lavoro. Era evidente, a chiunque la guardasse, che quella iniziativa non nasceva dalla volontà di massimizzare il profitto, ma che la ragione dell'intervento risiedeva altrove…
In un certo senso, potete vantare la primogenitura nella riscoperta del termine…
Molti studiosi dicevano queste cose già da tempo… Basti pensare alla "battaglia" sulle fondazioni bancarie, quando si attribuiva a questa impostazione un valore che usciva dal ristretto mondo del non profit, facendole diventare soggetto regolatore del mondo bancario. Oggi questa governance salva le nostre banche, mentre qualcuno sosteneva che il mercato e le regole avrebbero fatto meglio!
Ma, per tornare alla questione, la parola sussidiarietà è, in buona sostanza, un topos letterario per esprimere una forma ragionevole di intervento nell’economia, in cui l'economia non è solo fatta di curve, modelli ed equazioni, ma è ambito in cui si esprime l’aspetto umano. In tanti settori questo si fa ogni giorno più evidente, laddove, cioè, la questione della valorizzazione del merito, i temi della valutazione e dell’accreditamento, la rilevanza della qualità – tutti aspetti legati alle soggettività degli individui ed alla loro espressione nell’economia – stanno diventando cruciali.
In altri termini, l'affermazione della sussidierietà è stata l'emergere di una mentalità che nasceva da mille realtà, dalla vitalità di un mondo di PMI che rimane tuttora uno dei patrimoni dell’Italia, anche se mortificato in ragione del fatto che è "poco finanziarizzato"…
La sussidiarietà non è una formula rigida, è un modo di approccio in cui la posizione ideale impatta sull'etica dell'impresa; un'esperienza cristiana, socialista, liberale, in cui il valore della persona interviene a cambiare le scelte che si fanno nella vita dell'impresa, perché, date le leggi economiche, si può sempre scegliere (come amministrare, come dirigere..).
La posizione ideale è quella che pone l'uomo al centro. Si badi bene: questo è un aspetto di economia, non di etica. Incontrando manager di alto livello – ad esempio Passera, Profumo, Colao, Colaninno – ci si rende conto di come per loro questo pensiero diventi un fattore di impresa. Profumo, ad esempio, ha affermato più volte che per gestire una banca grande e complessa come Unicredit si deve "fidelizzare il dipendente"; non solo però con strumenti finanziari, bensì motivando la sua appartenenza alla banca, all'organizzazione: questo significa spostare l'attenzione e l'enfasi da risorsa a persona.
Tutto ciò ha un nemico ideologico, poiché i teorici dello statalismo o del liberismo dicono che questo non è scienza, non è economia…
Liberismo e statalismo sembrano presentarsi sempre insieme…
Sono ideologie, sono frutto di modelli lontani dalla realtà, modelli di scienza in cui la verifica statistica o econometrica non esiste. Si costruiscono modelli che rinunciano poi alla verifica: è scienza che si arrotola su se stessa e che non impara nemmeno da sconvolgimenti quali quelli a cui assistiamo in questi mesi!
In questi giorni (l'intervista si è svolta il 27 settembre, n.d.r.) c’è chi continua a negare che ci sia una crisi nel mondo finanziario, inneggiando al liberismo americano, che però non ha salvato Lehman Brothers ed ha portato il governo statunitense a fare un intervento di portata pari al PIL della Turchia!
Parlando con tanti amici aziendalisti mi sono reso conto di come siano in forte disaccordo con gli economisti politici, proprio perché capiscono che l'impresa e l'economia sono qualcosa di assai più complesso. Si deve rimettere in discussione il concetto di razionalità dell'uomo economico, una razionalità che è diversa da quella di Smith – o, meglio, di come ci spiegano Smith! – e diversa da quella che certa scienza economica e politica hanno a lungo considerato come vera…
Questo concetto di razionalità ci riporta forse a Simon ed al concetto di razionalità limitata?
L'osservazione di cos’è veramente l'uomo dovrebbe far ripensare la razionalità limitata. Il principio di Yunus non sarebbe stato concepito da una razionalità limitata: Yunus colloca il meccanismo della fiducia dentro un percorso economico ed è per questo che vince il Nobel. Gli economisti tradizionali costruiscono un idea di razionalismo, lo chiamano razionalità limitata e pretendono che tutti gli uomini si comportino così. Al contrario, bisogna ripartire dall'osservazione per capire quale sia la razionalità dell’uomo, una razionalità ben diversa da quella che sembra aver vinto nell'economia. Quella è la razionalità dell'uomo del '600, un uomo non relazionale che, secondo Hobbs, ha come unico metodo di competere la violenza. Tutto ciò sfocia nell'idea del mercato come guerra darwiniana o nello Stato che controlla tutto. In una simile ottica non si può pensare ad un rapporto relazionale, in cui l'uomo ha un approccio positivo; tuttavia, concetti come la fiducia, la responsabilità, la voglia di investire non si costruiscono partendo da un atteggiamento così!
Riprendiamo il vero Smith: l'origine della ricchezza è una razionalità aperta, legata al sentimento religioso in senso lato, che arriva ad affermare come mezzo di gestione l'ottimo; ma non si può sostituire il mezzo di gestione al punto originante le scelte e le motivazioni. Per questo parlare di sussidiarietà vuol dire osservare comportamenti, azioni, modi di agire e vedere che c’è una razionalità in atto più elastica, la razionalità positiva, che ha desiderio di costruire e diventa quindi relazionale. Non può essere semplicemente un meccanismo figlio di una filosofia antica!
Alla luce di tutto ciò, che cosa vedi nel futuro della Fondazione per la Sussidiarietà?
Siamo di fronte alla necessità di rileggere il mondo economico. Nel momento in cui viene meno il welfare state, le alternative sono o rivolgersi verso un modello "all'americana" o inventare il Banco Alimentare, stimolare la competizione positiva tra scuole o nella sanità, capendo il valore delle reti. Il tema diventa cruciale nel momento in cui le risorse si fanno sempre più scarse ed il metodo assistenziale di prima non è più in grado di rispondere ai bisogni della società: trovare soluzione che non vadano verso l'America o la Cina – oggi forse il più forte esempio di liberismo – presuppone però che ci sia una ripresa ideale. Non bastano i meccanismi economici, deve esserci un soggetto che si muova per innescare i processi; in questo, il magistero papale è guida perché ha una posizione ideale di partenza. Senza una ripresa ideale, l'unico modo di allocare risorse scarse è la guerra…
E da dove scatta la ripresa ideale?
Scatta dall'uomo che riprende in mano il suo desiderio, dal cuore: non è religione, è economia! Questa è la novità della Fondazione per la Sussidiarietà: la miriade di persone che da posizioni diverse converge su questa idea. Tutti sentono questa necessità di ritornare alle origini, all'idea di giustizia, alla convinzione che tutti devono avere una dignità. Altrimenti si va alla deriva e al conflitto e a degenerazioni tecnocratiche. E' uno scontro di pensiero, un'evoluzione in atto dentro di noi ed intorno a noi.
Ma qualcosa sta cambiando: dopotutto, poco tempo fa nessuno avrebbe mai detto che una multinazionale dovesse avere una responsabilità sociale!
Ottobre 2008