Dal lago d’Orta alla ricerca della Buona Impresa
Prima di dare vita nel 2018 alla “Fondazione Buon Lavoro” come veicolo per diffondere l’idea della Buona Impresa, Michele Alessi è stato a lungo insieme al fratello Alberto alla testa della Alessi SpA, l’azienda di famiglia nota in tutto il mondo per il design applicato agli accessori per la cucina e la casa, basata ad Omegna sul lago d’Orta.
Michele ed Alberto Alessi sono stati due esponenti della terza generazione alla guida della azienda fondata nel 1921 da Giovanni Alessi che, dopo aver conosciuto un primo momento di sviluppo nel dopo-guerra, negli ultimi decenni del secolo scorso ha trovato la strada del successo attraverso il design e la collaborazione dei più grandi nomi del design italiano ed internazionale: i prodotti Alessi sono oggi presenti nelle collezioni permanenti di oltre 60 musei di arte a livello mondiale.
Michele Alessi è entrato in azienda nel 1975 e ne è stato Amministratore Delegato fino al 2015, per esserne poi Vice-Presidente fino al 2018: l’anno della Fondazione Buon Lavoro.
La Fondazione è nata per diffondere l’idea del "Buon Lavoro" inteso “come fonte di realizzazione delle persone, nell’ambito di una economia responsabile, inclusiva e sostenibile”, e per realizzare iniziative finalizzate alla “creazione di opportunità di lavoro di qualità, attraverso il supporto ad organizzazioni ed enti che abbiano l'obiettivo di contribuire al bene comune”, all’aiuto di “persone in cerca di un'occupazione di qualità, che contribuisca alla loro realizzazione e, al tempo stesso, al bene comune” ed infine alla “tutela della dignità delle persone qualora il lavoro venga a mancare”.
Il risultato più significativo dell’attività della Fondazione è l’elaborazione del “Modello della Buona Impresa”: un framework per guidare le imprese conciliando etica ed economia che dà veste formale alle idee in tema di impresa e di fare impresa maturate da Michele Alessi nel corso della sua vita professionale, e che è stato oggetto di questo colloquio.
Ing. Alessi, in quale quadro culturale e valoriale sono maturati il suo modo di intendere il ruolo dell’imprenditore ed il modello della Buona Impresa?
Se penso a come è maturato il mio modo di concepire l’impresa ed il fare impresa non posso non andare indietro nel tempo fino agli anni dell’infanzia, ai discorsi in famiglia tra nonni, papà e zio intorno ai problemi aziendali, e poi ai pranzi intorno alla tavola di casa durante i quali papà e lo zio spesso intrattenevano collaboratori, clienti, funzionari di banca confrontando punti di vista e costruendo relazioni. In quelle occasioni si parlava dei prodotti, dei clienti, del capitale che incominciavo a vedere come i pilastri intorno ai quali far ruotare la gestione, ma venivano anche trasmessi e condivisi quei valori che sono poi rimasti alla base dell’idea della Buona Impresa.
Con questi problemi e questi valori mi sono poi confrontato una volta entrato in azienda, quando ho imparato a vedere la gestione ed il lavoro come problemi complessi, per i quali non bastano risposte “semplici” perché richiedono un approccio “sistemico”, rispettoso della pluralità esigenze in gioco.
L’idea della Buona Impresa è nata per così dire “sul campo”, nell'esperienza quotidiana maturata intorno ai problemi di gestione, ma nel tempo ha anche trovato riferimenti importanti in concetti espressi da autorevoli personalità.
In primo luogo ricordo una frase riprodotta e appesa dietro la scrivania di mio padre, tratta dal discorso “Dedica all’impresa dei Fratelli Guerrino di Dogliani” pronunciato da Luigi Einaudi del 1960, con cui Einaudi definiva la vocazione del buon imprenditore: “È la vocazione naturale che li spinge: non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno”.
Nel 1988 poi ho avuto occasione di incontrare Vittorio Coda, del cui pensiero ho fatto mia l’esigenza di adottare una “concezione economicamente e moralmente condivisibile del finalismo dell’impresa”, in cui “prosperità dell’impresa e soddisfazione degli interlocutori sociali vengono a saldarsi inscindibilmente, al punto di diventare tutt’uno.”
In altri termini va superata l’idea fuorviante dell’impresa come attore che si muove in contrapposizione a tutti gli altri e che ottiene il proprio successo a loro spese. Bisogna invece recuperare la buona natura dell’impresa, che si sviluppa in ragione della capacità di servire non solo l’azionista, ma la società nel suo complesso, non solo in relazione alla dimensione economica, ma rispondendo ad una molteplicità di bisogni.
Un’ulteriore conferma l’ho poi ritrovata nel discorso pronunciato il 23 aprile 1955 da Adriano Olivetti in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, in cui il ruolo dell’imprenditore veniva definito come un ruolo affascinante. Diceva infatti Olivetti: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”
Lungo questo percorso è maturata l’ispirazione che ha portato già nel 1988 a redigere un documento in cui la mission della Alessi veniva incardinata alle seguenti indicazioni:
- il profitto, riprendendo Coda, “scaturisce da una superiore capacità di servire i bisogni del cliente ed alimenta una superiore capacità di soddisfare le attese degli interlocutori sociali la quale ultima, a sua volta, produce la spinta motivazionale necessaria per una migliore performance competitiva”;
- la vocazione caratteristica dei prodotti della Alessi è legata alla Design Excellence, ovvero alla “ricerca della qualità culturale più avanzata nella produzione mondiale”, ed alla “esplorazione di un nuovo territorio situato tra la grande serie e l’artigianato” operando nel quale “trasformare il design della produzione di serie in qualcosa di molto vicino all’arte”;
- il modello organizzativo deve essere organico ed equilibrato, e tutte le funzioni devono concorrere alla gestione di problematiche con gradi di complessità molto elevati;
- in un “ambiente eterogeneo ma compatto…trovano spazio le persone motivate e capaci, si privilegiano meriti e professionalità in un’atmosfera rilassata e stimolante aperta ai contributi dei singoli, coscienti, a tutti i livelli, di partecipare alla mission aziendale pur nel pieno rispetto della gerarchia, della responsabilità e dell’autorità”.
Il modello della Buona Impresa è stato quindi il momento finale di un lungo percorso, umano e professionale. Quali sono gli aspetti costitutivi e distintivi di questo modello?
Il modello della Buona Impresa (un paradigma più generale applicabile a diversi tipi di impresa: imprese for profit, Società Benefit, imprese no profit, cooperative, e così via) nasce da una idea base: che ci sia un legame inscindibile tra lo sviluppo dell’impresa e quello della società, e che questo legame dipenda da una sostanziale coincidenza di interessi tra il benessere di lungo termine dell’impresa e quello degli stakeholder primari: i Clienti, i Lavoratori, gli Investitori.
Questa idea ha implicazioni di rilievo sul modo di concepire le finalità dell’impresa: mentre nell’impresa a puro scopo di lucro il prodotto ed il lavoro sono finalizzati alla realizzazione del profitto, nella Buona Impresa fra i tre pilastri rappresentati da Prodotto, Lavoro e Profitto si instaura una relazione sinergica da cui dipende la capacità di fornire risposte soddisfacenti alle attese degli stakeholder primari: Clienti, Lavoratori, Investitori. Ogni pilastro si rafforza per il buon contributo degli altri e a sua volta serve a rafforzare gli altri. L’impresa è gestita con un approccio sistemico: nessun elemento prevarica sugli altri e tutti si avvantaggiano del buon funzionamento complessivo del sistema.
I rapporti con gli stakeholder primari sono profondamente influenzati dal modo di concepire le finalità dell’impresa. Mentre nell’impresa a puro scopo di lucro il rapporto con i Lavoratori e con i Clienti ha un carattere “estrattivo”, nel secondo si caratterizza per essere “inclusivo” e si arricchisce sul piano delle relazioni che si sviluppano tra gli stakeholder: tra di essi non c’è solo scambio monetario ma si realizza la soddisfazione di specifici interessi.
Nella relazione tra Impresa e Lavoratori, questi forniscono all’impresa il loro tempo e, se vengono messi nella giusta condizione, il loro talento. A loro una Buona Impresa, oltre ad una retribuzione adeguata, può fornire l’occasione per realizzarsi dal punto di vista professionale, ricavare un senso forte dal loro impegno quotidiano, soddisfare esigenze di autonomia, di relazionalità, di riconoscimento e di appartenenza. L’impresa, da parte sua, se è stata capace di organizzare il lavoro in modo che ciascuno sia nella condizione di mettere a frutto i propri talenti, ne ricava una migliore partecipazione alla missione produttiva, e l’avvio del circolo virtuoso tra Lavoro, Prodotto e Profitto che in definitiva costituisce il suo bene.
Nella relazione tra Impresa e Clienti, questi comprano un prodotto che per loro vale di più del prezzo che pagano. La Buona Impresa persegue lo sviluppo di una superiore capacità di individuare e servire i bisogni del Cliente. Per essere davvero Buona però un’impresa deve introdurre un filtro irrinunciabile: non è sufficiente assumere come obiettivo assoluto del prodotto quello di soddisfare un bisogno del cliente, occorre che questo spinga la società in una direzione positiva. In altre parole, per contribuire al progresso della società, la Buona Impresa eviterà di rispondere a bisogni che la danneggiano.
Infine la Buona Impresa, oltre a remunerare adeguatamente gli investitori in relazione al grado di rischio che hanno assunto, fornisce loro un ritorno in termini di contributo allo sviluppo positivo della società che il loro investimento nell’impresa sta sostenendo. L’impresa, dal canto suo, riceve da questi la fiducia che la sorregge anche nei momenti difficili che inevitabilmente incontrerà. Nella pratica, questa sensazione di influenzare positivamente il sistema sociale di cui tutti facciamo parte, è un ritorno che gratifica e motiva ogni persona che entra in rapporto con una Buona Impresa, anche indipendentemente dalla rilevanza del ruolo che essa ricopre. Ed è ciò che rende più forte la Buona Impresa.
Il modello della Buona Impresa è maturato gradualmente negli anni, in termini informali, attraverso la pratica di adeguati comportamenti gestionali. Dopo il 2018 esso è stato formalizzato con la collaborazione di PWC e Goodpoint (una Società Benefit e B Corp creata da Nicoletta Alessi, figlia di Michele, che fa consulenza per imprese, non profit, enti filantropici interessati a migliorare il loro impatto sociale).
In proposito vale la pena di sottolineare che esso si basa sulla triplice finalità di soddisfare in modo equilibrato le attese degli stakeholder primari grazie a scelte gestionali attente alla circolarità delle relazioni tra Lavoro, Clienti, Investitori. Non c’è quindi in gioco il ricorso a particolari strumenti manageriali: ciò che conta sono la diffusione e la condivisione di una cultura aziendale che porta a valutare e selezionare le scelte gestionali in base a criteri utili a valorizzare tale circolarità.
Questo non esclude l’utilizzo di strumenti manageriali quali per esempio il Management by Objectives ed il controllo di gestione, che devono però essere usati per incentivare e controllare non il profitto ma la triplice finalità della risposta soddisfacente a Lavoratori, Clienti ed Investitori.
Il modello della Buona Impresa prende in considerazione i rapporti dell’impresa con i soli Stakeholder Primari, senza considerare gli altri di cui spesso si fanno lunghi elenchi che arrivano a comprendere entità come società, ambiente, istituzioni. Perché questa limitazione?
Nella classificazione degli stakeholder in due categorie - stakeholder primari e contesto generale - sta forse la differenza più rilevante tra il modello della Buona Impresa e tanti altri modelli stakeholder oriented: la Buona Impresa riconosce gli altri stakeholder e gestisce responsabilmente gli impatti della propria attività sulla società e sull’ambiente; tuttavia va tenuto presente che con gli stakeholder primari l’interazione è di natura diversa perché con essi l’impresa intrattiene uno scambio diretto e reciproco.
Parlare di scambio sembra privilegiare la componente economica, che però in questo caso è solo una parte di ciò che viene scambiato: ridurre solo ad essa la natura del rapporto è l’origine della distorsione rispetto al ruolo dell’impresa nella società. Rispetto agli stakeholder primari non si tratta di “bilanciare” o “armonizzare” l’interesse dei soci e quello della società (espressioni utilizzate, tra gli altri, anche nella norma sulla Società Benefit e nel Manifesto di Davos sullo Stakeholder Capitalism) ma di incorporare congiuntamente come finalità dell’impresa la qualità del contributo fornito alla società con i suoi prodotti, la soddisfazione di un’aspettativa di buon lavoro per lavoratori e fornitori, la creazione di valore per gli investitori.
Naturalmente, la Buona Impresa riconosce di essere inserita in un contesto sociale e ambientale di cui deve prendersi cura in ogni fase della sua attività: l’impatto di tutte le attività umane su società e ambiente devono essere una priorità per ogni soggetto responsabile, che si tratti di una persona, un’impresa, un ente o qualunque altro organismo che operi sul nostro pianeta.
Tutti i processi, tutti gli scambi, hanno un impatto potenziale – diretto o indiretto, attraverso le filiere di produzione e di distribuzione - che la Buona Impresa non può ignorare. Il senso di concentrare l’osservazione sulla “triplice finalità” non vuole certo essere quello di sminuire la rilevanza delle altre aree di impatto, quanto piuttosto quello di restituire dignità e dimensione al valore creato attraverso il business in sé. A scanso di equivoci, è essenziale ribadire qui come questo non possa in nessun caso sostituire un’adeguata assunzione di responsabilità rispetto al consumo di valore – economico, ambientale, sociale – nel contesto globale e per le future generazioni. Questo aspetto, pur non rappresentando il cuore del modello, resta una preoccupazione essenziale, non derogabile, della Buona Impresa.
Alessi spa dal 2016 è Società Benefit. Dobbiamo pensare che Società Benefit sia la soluzione giuridica per dare veste sul piano giuridico alla Buona Impresa?
Quando la normativa ha messo a disposizione delle imprese la figura della Società Benefit la Alessi ha approfittato di questa possibilità, avendo peraltro già in precedenza acquisito la certificazione B-Corp.
L’introduzione nella normativa di questa figura ha rappresentato certamente un passaggio importante, permettendo alle imprese italiane di adottare un modello di impresa diverso da quello tradizionale legato, come sta ancora scritto nel Codice Civile, alla ricerca del profitto. Tuttavia il modello della Società Benefit non è privo di criticità.
Innanzitutto c’è il rischio che un’impresa pensi di qualificarsi come Società Benefit semplicemente giustapponendo un obiettivo di beneficio comune ad una mission, perseguendo la quale poi magari si procurano danni agli stakeholder o alla collettività. La Buona Impresa invece postula che il beneficio comune sia connaturato agli obiettivi stessi dell’impresa e venga perseguito attraverso la circolarità virtuosa tra Lavoro, Prodotto e Profitto.
Un secondo rischio, che riguarda anche gli strumenti di rendicontazione non finanziaria su cui c’è oggi grande attenzione, è che tanto la Società Benefit quanto questi strumenti vengano vissuti come temi solo di sostenibilità ponendo l’attenzione, soprattutto se non esclusivamente, sul controllo delle diseconomie e degli impatti negativi generati dalle attività produttive. La Buona Impresa invece deve preoccuparsi non solo di evitare di generare negatività che distruggono valore, ma anche di creare valore grazie alla propria capacità di contribuire al bene comune.
Sul tema della gestione e del controllo della creazione di questo valore c’è un vuoto cui occorre porre rimedio tanto attraverso le riflessioni teoriche quanto attraverso le esperienze gestionali.
Oltre a tutto colmare questo vuoto significa contribuire, come è negli intendimenti della Fondazione Buon Lavoro, a sviluppare una relazione di reciproca fiducia tra Impresa e Società. La nostra convinzione è che un’impresa, se persegue in modo responsabile i propri fini, se ricerca coscienziosamente il proprio bene, produce al tempo stesso il bene del contesto in cui è inserita. Occorre riportare l’attenzione sulla buona natura dell’impresa, che è fatta per crescere in armonia col proprio contesto e rappresentare un bene prezioso per la società.
Nota dei curatori.
A nostro avviso il modello della Buona Impresa si inserisce validamente nel dibattito in corso intorno alla natura ed al ruolo dell’impresa, e fornisce indicazioni significative a proposito del superamento del paradigma neo-liberista della massimizzazione dello shareholder value.
Da questo punto di vista sono di particolare rilievo:
- la sostituzione dell’ipotesi del Profitto come unica finalità dell’impresa con una triplice finalità di perseguimento di risposte soddisfacenti agli interessi degli stakeholder primari (Clienti, Lavoratori, Investitori) attraverso la valorizzazione sinergica dei “pilastri” rappresentati da Prodotto-Lavoro-Profitto;
- la configurazione dell’impresa come attore sociale che, senza dimenticare il vincolo della economicità, persegue il bene comune sulla base di questo triplice finalismo, il che permette una più adeguata valutazione critica di approcci tradizionali come quelli della Corporate Social Responsibility e di soluzioni recenti come la Società Benefit;
- l’enucleazione, dal solitamente indistinto coacervo di attori considerati come stakeholder, degli stakeholder primari in quanto direttamente interagenti con l’impresa in un comune disegno di creazione di valore (ci si può chiedere da questo punto di vista se anche i fornitori, quando siano legati all’impresa da relazioni di partnership, non possano essere allo stesso modo considerati come stakeholder primari).
Al di là di possibili osservazioni su singoli punti e sull’insieme del modello, rimane il fatto che esso nasce da riflessioni legate alla gestione di una media impresa a controllo famigliare, sulle cui caratteristiche sembra tarato. Si tratta di capire se, a quali condizioni, con quali adattamenti esso possa essere applicabile a realtà aziendali diverse, a partire dalle grandi corporations.
May 2023