Le opportunità e le sfide della globalizzazione

In occasione del convegno internazionale sulla cooperazione promosso da Legacoop, che si è svolto a Genova lo scorso luglio, abbiamo incontrato Joseph Stiglitz, della Columbia University, Premio Nobel per l’Economia nel 2001, al quale abbiamo rivolto alcune domande sui nuovi scenari delineati dal processo di globalizzazione.
Prof. Stiglitz, nei suoi studi ha elaborato un’analisi estremamente lucida, ma anche critica del processo di globalizzazione, ridimensionando i trionfalismi di chi lo descrive come un fenomeno capace di risolvere autonomamente gli squilibri mondiali e suffragando le tesi più caute che chiedono a gran voce interventi regolatori.
La globalizzazione ha le sue radici nel fatto che dopo la fine della guerra fredda si è intravista la possibilità di stabilire relazioni internazionali diverse dal passato, basate su presupposti nuovi, liberi dalla tradizionale contrapposizione tra blocchi politici. Si pensava fosse possibile creare un ordine economico mondiale basato su valori e principi condivisi, privi di condizionamenti di natura politica.
Invece tutto ciò non è accaduto, anzi: la forza e il potere dei grandi stati capitalisti si sono ulteriormente rafforzati e le relazioni economiche e sociali sono diventate ancora meno eque. Questo è accaduto, tra l’altro, perché la globalizzazione costringe i Paesi a interagire tra loro, generando quindi cambiamento; e il cambiamento è sempre difficile da gestire.
Da quanto dice potremmo concludere che la globalizzazione è stata una “grande illusione”? Cosa non ha funzionato?
Si è fatto troppo affidamento sul ruolo del mercato, in una visione semplicistica che cerca di mettere in discussione la funzione dei governi, etichettandola come un’inutile o dannosa intrusione in un meccanismo che funziona bene da sé, si autoregola. Si è pensato, insomma, di applicare al nuovo mercato globale il vecchio concetto di mano invisibile di Adam Smith, ma questa mano invisibile è tale proprio perché non esiste! E una delle ragioni è la totale asimmetria informativa nell’accesso ai mercati e nel loro funzionamento; l’asimmetria informativa fa sì che il sistema autoregolatore del mercato venga meno e che di conseguenza la ricerca dell’interesse privato non si traduca in efficienza economica per il sistema, determinando, al contrario fenomeni socialmente ed economicamente dannosi come la disoccupazione ed un’iniqua distribuzione della ricchezza.
Ha ragione quindi chi si oppone in modo radicale alla globalizzazione?
Credo che all’interno dell’opinione pubblica sia avvenuto una graduale presa di coscienza del problema. Mentre fino a qualche tempo fa molti pensavano che la globalizzazione fosse comunque un fatto positivo, in grado da sola di portare benessere sia ai paesi sviluppati sia a quelli invia di sviluppo, nel corso degli ultimi anni qualcosa è cambiato.
Al movimento no global va riconosciuto senz’altro il merito di aver sollevato l’attenzione sul problema, imponendo una riflessione. Inizialmente si pensava fosse soltanto un movimento ideologico, che osteggiava la globalizzazione in quanto manifestazione del capitalismo.
Alcuni studi, invece, tra cui alcuni della Banca Mondiale, hanno rilevato che effettivamente le politiche di globalizzazione avevano aumentato il livello di ricchezza e benessere dei Paesi sviluppati a spese di quelli in via di sviluppo, ulteriormente impoveriti: insomma facendo stare meglio chi già stava bene e peggiorando le condizioni degli altri.
Un esempio per tutti: in Europa sono state attuate politiche comunitarie per sostenere l’industria del latte che prevedono l’erogazione di 2 Euro al giorno per ogni mucca. Ora, proprio 2 Euro sono considerati la soglia minima per la sopravvivenza. Ci sono molte persone nei Paesi del terzo mondo costrette a sopravvivere con meno di 2 Euro. Si potrebbe concludere che paradossalmente è meglio essere una mucca in Europa che una persona, per esempio, in Africa. E potrei continuare citando le politiche protezionistiche di sostegno all’agricoltura attuate dagli Stati Uniti a scapito dei produttori di materie prime dei Paesi in via di sviluppo.
Occorre fare attenzione, perché un modello di questo tipo non è sostenibile nel lungo periodo; anzi, finirebbe per negare i suoi stessi presupposti, con ripercussioni negative sugli stessi Paesi industrializzati. Pensiamo alla diminuzione dei livelli occupazionali a fronte della concorrenza della manodopera a basso costo dei Paesi in via di sviluppo o alla perdita di quote di mercato.
Ha delineato uno scenario preoccupante. Ma in fondo la globalizzazione è un processo con cui dobbiamo fare i conti, a cui non possiamo sottrarci. Ritiene possibile trarne anche dei benefici, magari attraverso opportuni correttivi o non ci resta che rassegnarci a questo stato di cose?
La globalizzazione presenta indubbiamente delle opportunità, ma anche delle sfide.
L’allargamento dei mercati e la possibilità di accesso alla conoscenza e alla tecnologia prodotte in tutto il mondo offrono l’opportunità per un sostanziale miglioramento della qualità della vita. D’altra parte, però, la concorrenza proveniente dall’estero ci pone dinanzi a sfide significative.
La concorrenza dall’estero è diventata in questi ultimi anni particolarmente agguerrita, dal momento che i Paesi in via di sviluppo si sono specializzati nella produzione e nella diffusione sul mercato di quei beni richiesti nei Paesi che attraversano una fase di industrializzazione avanzata.
Se i Paesi industrializzati non saranno in grado di fronteggiare questo tipo di concorrenza, i livelli occupazionali verranno ulteriormente ridotti e la qualità della vita peggiorerà.
Come rispondere, dunque, alle sfide per cogliere le opportunità e fronteggiare i rischi?
L’educazione e la tecnologia rappresentano la chiave per una risposta efficace alle sfide della globalizzazione.
Il solo modo di competere con i bassi salari nei Paesi in via di sviluppo è quello di migliorare le competenze e l’efficienza produttiva, oltre a rispondere più rapidamente e realmente alle esigenze dei consumatori.
I Paesi industrialmente avanzati che hanno avuto successo hanno fatto esattamente questo: hanno realizzato sensibili miglioramenti nei settori della tecnologia e dell’educazione per fronteggiare le sfide della globalizzazione.
Quote sempre più consistenti della popolazione frequentano corsi di studio superiore. Si sono attuati maggiori investimenti in ricerca e sviluppo. Questi Paesi hanno dimostrato, inoltre, flessibilità nel ristrutturare l’economia. Questo processo di ristrutturazione ha determinato un rafforzamento nel settore dei servizi e ha attribuito un’importanza crescente alle piccole e medie imprese.
Queste ultime, in particolare, hanno ricoperto un ruolo centrale nella creazione di posti di lavoro, anche se devono fronteggiare una serie di problemi, che devono essere risolti se vogliono realmente competere con le grandi imprese.
Esse necessitano di un adeguato accesso alle fonti di finanziamento, alle moderne tecnologie, ai mercati globali.
La sua ricetta prevede, quindi, un ruolo forte ed incisivo del soggetto pubblico, esattamente l’opposto della “mano invisibile”. Non si rischia, però, in questo modo di introdurre troppi vincoli all’economia?
Nella società globalizzata operano tre categorie di soggetti.
Le imprese, che ne sono evidentemente gli attori principali. I soggetti “sociali” come le cooperative e gli enti non governativi, che sono importantissimi per una globalizzazione più equa ed efficace, perché sono portatori di quei valori etici necessari a ridurre gli squilibri che essa può generare.
Ma coloro i quali saranno chiamati inevitabilmente a giocare un ruolo determinante nel processo in atto sono proprio i governi, la cui funzione non è quella di porre vincoli o di fare soltanto da “controllore”, bensì di favorire la produzione e la diffusione della conoscenza e della tecnologia, creando le condizioni più adatte per favorire lo sviluppo.
Alla base del successo americano degli anni ’90 c’erano internet e le biotecnologie; la ricerca di base sottostante a ciascuna di queste aree era finanziata dal Governo federale.
Come giudica la situazione dell’Italia, eterno fanalino di coda tra i paesi industrializzati dominati dal cosiddetto “nanismo imprenditoriale”, come la definiscono alcuni o sistema dinamico, creativo, innovativo per certi aspetti, come la vorrebbero altri?
L’Italia ha avuto un enorme successo in questi ultimi anni. Una delle ragioni è che alla base dell’economia italiana ci sono imprese di piccole e medie dimensioni, che spesso riescono a rispondere ai mutamenti dello scenario globale più efficacemente delle grandi imprese, governate da sistemi di tipo burocratico.
Ma un’altra ragione del successo dell’Italia negli ultimi decenni consiste nell’aver saputo sviluppare una struttura istituzionale praticamente unica per rispondere alle esigenze comuni delle imprese di piccole e medie dimensioni. Mi riferisco al movimento cooperativo.
Altri Paesi nelle zone del mondo che attraversano una fase di sviluppo, come il Messico, stanno studiando il caso italiano per verificare cosa possono imparare da quell’esperienza.
Il movimento cooperativo ha giocato per lungo tempo un ruolo importante, tra l’altro, nello sviluppo dell’agricoltura e dei business ad essa legati. Questo è accaduto anche in America, a lungo considerata la roccaforte dell’economia di mercato, riuscendo a coniugare la corretta gestione e il rispetto della disciplina fiscale con la garanzia di ampie prospettive sociali.
Questo aiuta a spiegare la ragione per cui esse sono potenzialmente in grado di giocare un ruolo così rilevante nel processo di sviluppo.
Il modello cooperativo può essere mutuato, dunque, anche nei Paesi in via di sviluppo?
In molti Paesi in via di sviluppo le ONG (Organizzazioni non governative), che sono di fatto cooperative, stanno assumendo un ruolo di importanza crescente.
In Bangladesh, per esempio, queste organizzazioni condizionano la vita di milioni di persone, fornendo piccoli prestiti per la creazione di nuove imprese.
Una volta identificati i nuovi bisogni, hanno incominciato anche a soddisfarli.
La globalizzazione offre grandi sfide e opportunità anche ai Paesi che fanno parte del mondo in via di sviluppo.
Quelli che hanno avuto maggiore successo, sia in termini di crescita che di riduzione della povertà - i Paesi dell’Asia orientale - hanno approfittato delle opportunità offerte dalla globalizzazione; questi Paesi hanno venduto i propri beni su un mercato internazionale, hanno accolto gli investimenti provenienti da tutto il mondo e si sono avvantaggiati della “tecnologia globale”, compiendo progressi notevoli nel ridurre il divario di conoscenza che separa i Paesi industrialmente più avanzati da quelli più poveri.
Spesso, però, questi Paesi hanno incontrato comunque difficoltà nel cogliere le sfide della globalizzazione.
Hanno trovato difficoltà nel competere con i beni prodotti all’estero con la moderna tecnologia; nell’acquisire quella tecnologia che avrebbe consentito loro di competere; e anche quando sono riusciti a produrre beni competitivi, hanno incontrato comunque difficoltà nel commercializzarli all’estero e nell’ottenere l’accesso ai capitali di cui avevano necessità.
A fronte di un consistente afflusso di importazioni dall’estero, che determina una perdita di posti di lavoro, essi non sono stati in grado di creare nuova occupazione e hanno incontrato difficoltà nel mantenere la stabilità politica e sociale.
Le politiche protezionistiche attuate in Occidente e accordi commerciali non favorevoli (come l’Uruguay Round agreement, concluso nel 1994) rendono ancora più difficile da attuare quello che sarebbe stato in ogni caso un compito arduo.
Occorre ripensare il ruolo della cooperazione internazionale?
Il sostegno finanziario estero è assolutamente essenziale, se intendiamo cercare di erodere la massiccia povertà dei Paesi in via di sviluppo. Abbiamo imparato come impiegare i finanziamenti nel modo giusto.
Occorre migliorare le condizioni sanitarie, rafforzare i sistemi educativi, attuare una politica che miri all’aumento dei redditi.
Ma molti dei profitti che, da un lato, sono stati realizzati vengono distrutti, dall’altro, dai nostri accordi commerciali sfavorevoli.
Il danno ai coltivatori di cotone dell’area sub sahariana, come risultato degli elevati sussidi al cotone americano, che abbassano i prezzi globali del cotone, eccede in alcuni Paesi il sostegno finanziario che essi ricevono dall’estero.
Ci stiamo, inoltre, rendendo sempre più conto di quale importante ruolo siano in grado di svolgere i programmi mirati ad aiutare direttamente le popolazioni - ad un livello precedente rispetto a quello dei Governi - non solo nella promozione dello sviluppo, ma anche nel farne comprendere l’importanza a livello internazionale.
Solo attraverso iniziative di impegno globale come questa saremo in grado di trasformare la globalizzazione. Per renderla quella forza positiva che può realmente essere, capace di migliorare le condizioni di benessere della popolazione di tutto il mondo.
November 2004