Il sistema industriale italiano tra evoluzione strutturale, segnali di declino e responsabilità sociale

Uno dei principali filoni su cui si sta articolando la riflessione scientifica in ImpresaProgetto è costituito dalla responsabilità sociale d’impresa; su questo tema abbiamo intervistato Edoardo Garrone, Presidente del Gruppo ERG, che rappresenta sicuramente una delle best practises italiane per quanto riguarda l’attenzione alle ricadute sociali ed ambientali dell’attività di impresa.
Il dott. Garrone, inoltre, è stato vicepresidente di Confindustria, all’interno della quale ricopre attualmente il ruolo di Presidente del “Comitato tecnico per l'impatto del federalismo sulle imprese”; in ragione di questa sua costante partecipazione alle attività confindustriali, è quindi in grado di osservare da un punto di vista privilegiato i grandi mutamenti che interessano il sistema industriale del nostro Paese e ciò ne fa per noi un prezioso interlocutore su queste tematiche, di estrema attualità.
E’ di estrema attualità, a livello tanto accademico quanto imprenditoriale, il tema del rapporto tra impresa e società civile: sono ormai temi di discussione comune sia l’etica di impresa sia la Corporate Social Responsibility. Qual è la Sua opinione in proposito?
Oggi come oggi, i rapporti con tutti gli stakeholder, ed in particolare con il territorio e le realtà sociali, rappresentano un elemento fondamentale nella gestione strategica dell’impresa.
Sono lontani gli anni ’60, quando la funzione sociale dell’impresa era implicitamente limitata al suo ruolo di creatore di posti di lavoro: oggi, come evidente, tutto questo non basta più!
Sia che, come nel caso del Gruppo Erg, si realizzi un’attività industriale con un significativo impatto sul territorio, sia che si producano e vendano prodotti di uso quotidiano, il “modo” di produrre ha profonde ripercussioni non tanto e non solo sul marketing, quanto sulla percezione che si ha, a livello sociale, dell’impresa.
La sostenibilità a lungo termine del proprio modello di business, infatti, si basa sempre più sull’essere percepiti in maniera positiva dal territorio e dalla società, e ciò si realizza soltanto se l'impresa presta attenzione a fattori quali l’impatto ambientale, le relazioni con gli stakeholder esterni e con la società civile, e così via.
A questo scopo, non basta rispettare le leggi ed i regolamenti, poiché questi assai spesso sono in ritardo rispetto alle istanze ed ai fabbisogni della società: bisogna andare oltre quello che ci viene imposto, individuando le aree gestionali ove si possono fare dei passi avanti nella direzione di una vera e maggiore responsabilità sociale.
In questo senso, la mera redazione di un bilancio sociale non è sufficiente; la Corporate Social Responsibility si esplicita nel ripensamento dei processi, nel ridisegno dell’organizzazione, nella formulazione di nuove strategie: vuole dire, ad esempio, selezionare i fornitori non solo in base a semplici criteri economici, ma anche in virtù dell’impegno che essi stessi hanno nei confronti della società.
Così come il bilancio “tradizionale” fotografa la situazione economica e finanziaria dell’azienda e permette di valutarne, da un anno all’altro, l’evoluzione, così il bilancio sociale dovrebbe diventare il documento che esplicita i risultati dell’impresa per quanto concerne le sue relazioni con la società civile e che permette, anche in questo caso, di valutare se le azioni intraprese abbiano comportato o meno dei miglioramenti. Il risultato economico è un obiettivo imprescindibile per l’impresa, ma con il passare del tempo anche il “risultato sociale” lo diventerà!
Il suo approccio alla Responsabilità Sociale evidenzia la necessità di una sensibilità diffusa a livello di “sistema imprenditoriale”, di “comunità degli affari”.
Ma esiste veramente in Italia una business community? O ha ragione Tommaso Padoa Schioppa quando ne mette provocatoriamente in dubbio l’esistenza?
Per rispondere a questa domanda è necessario ripensare ai pilastri su cui ha poggiato il sistema economico italiano dal dopoguerra fino ai primi anni ’90.
Il primo pilastro era costituito dai cosiddetti “salotti buoni”, ovverosia un ristretto gruppo di soggetti nelle cui mani era concentrato il potere economico e finanziario del nostro Paese: basti pensare alle grandi famiglie imprenditoriali, ad esempio gli Agnelli, ed a figure chiave nel mondo finanziario, come Enrico Cuccia. Ad essi era affidata, in un certo senso, la regia del capitalismo italiano. Erano una business community? Probabilmente no, poiché il salotto, per quanto buono, era piuttosto “stretto” e chiuso…
L’altro pilastro del sistema era costituito dalla politica, imperniata, nella “prima repubblica”, intorno al ruolo della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati. Anche in questo caso, parlare di una vera e propria business community è del tutto inappropriato.
Con la seconda metà degli anni ’90 questi pilastri vengono a mancare.
I “salotti buoni” iniziano a disaggregarsi, sia a causa di cambiamenti sulla scena economica globale, quali l’abbattimento delle barriere economiche tra Stati e l’entrata in gioco di nuovi importanti Paesi, sia in conseguenza della fisiologica uscita di scena di molti protagonisti “storici” del capitalismo italiano. Al contempo, gli scossoni del sistema politico della “prima repubblica” portano alla ribalta nuovi soggetti politici ed un nuovo modo di intendere ed interpretare la politica stessa.
Il sistema, in una parola, va in crisi e sta tutt’ora cercando una sua configurazione. Probabilmente Padoa Schioppa ha ragione: non esiste ancora una business community italiana, così come – citando le parole del presidente di Confidustria Luca Cordero di Montezemolo – non esiste più la vecchia classe dirigente e non ne esiste ancora una nuova. Non serve a molto indagare le responsabilità di questa assenze: molto più utile e prioritario è impegnarsi per colmarle!
Il tema dell’assenza di una classe dirigente ci porta ad un’altra questione ormai quasi “di moda”: il parlare, per l’Italia, di “declino industriale”; tuttavia, alcuni studiosi (ad esempio, lo storico Giuseppe Berta) tendono ad usare l’espressione “metamorfosi industriale”, dai connotati decisamente meno negativi. Come qualificherebbe l’attuale situazione italiana?
Giocare sul significato delle parole è un esercizio molto spesso assai sterile.
Tuttavia, se il termine declino può essere forse eccessivo, il termine metamorfosi può sembrare eufemistico e prematuro.
Eufemistico poiché è innegabile che ci si trovi di fronte ad una progressiva e costante perdita di competitività del nostro sistema industriale; è come trovarsi su una salita ghiacciata, cercando di arrancare per non scivolare: anche se magari non ce ne accorgiamo, la discesa verso valle è inesorabile!
Prematuro perché, prima di parlare di metamorfosi, bisogna arrestare la discesa, e per farlo sono necessarie riforme importanti e profonde, che produrranno i loro risultati solo nel medio termine; in seguito, forse, si potrà iniziare a parlare di metamorfosi: ora, senza indugiare oltre, bisogna iniziare a rimuovere i non pochi vincoli che frenano la nostra competitività!
Proprio su questo tema, ricordiamo come numerosi campanelli d’allarme, tra cui un’autorevole ricerca di Confindustria, riconducano la grave perdita di competitività del sistema-Paese ai troppi vincoli che lo stringono: vincolo burocratico, vincolo fiscale, vincolo delle risorse umane e delle relazioni industriali, ecc. Mi pare di intuire che lei si trovi d’accordo con queste affermazioni.
In particolare, ritiene che l’Università possa costituire una “opportunità” per le imprese?
Indubbiamente non posso che trovarmi d’accordo con quanto affermato, tra gli altri, da Confindutria.
In Italia si soffre di un immobilismo assai dannoso: gli obiettivi da raggiungere ed i punti critici sono chiari – pensi solo alle infrastrutture – ma poi, al momento di decidere, tutto si ferma! E così, mentre gli altri costruiscono intere città – come in Cina – o, guardando i nostri vicini di casa europei, sono in pieno fermento verso il cambiamento e la modernità, noi restiamo sempre fermi al palo, impantanati in processi decisionali che non trovano mai il loro compimento.
E’ necessario iniziare a rimuovere le tante, troppe zavorre burocratiche, fiscali, infrastrutturali, sindacali che limitano la nostra flessibilità, così da riuscire a tenere il passo dei nostri concorrenti e cercare di recuperare le tante posizioni perdute.
In quest’ottica, l’Università costituisce sicuramente un’opportunità da sfruttare. Uno degli imperativi che Confindustria non cessa di ripetere è riferito alla necessità di aumentare l’investimento in ricerca da parte del nostro sistema industriale: si badi bene che aumentare l’investimento non si traduce solo in una crescita della spesa, ma anche nella creazione di un sistema di incentivi che premino le imprese che scommettono sulla ricerca e che sostengano la creazione di efficaci rapporti tra imprese ed Università.
Il sistema universitario, dal canto suo, non è esente da problemi, legati soprattutto – a mio modo di vedere – al persistere di modelli organizzativi vecchi ed a una scarsa capacità di “mettersi sul mercato”. Le imprese utilizzano quotidianamente i servizi di soggetti esterni, anche nel campo della ricerca e della consulenza, ed il ruolo ancora marginale dell’Università è forse dovuto anche al fatto che manca un vero e proprio mercato in cui si possa incontrare l’offerta dell’Università con la domanda delle imprese. L’Università – ripeto – deve imparare a mettersi sul mercato!
D’altro canto, anche da parte delle imprese ci sono sicuramente delle responsabilità, riconducibili ad elementi strutturali del nostro sistema industriale. Non possiamo dimenticare che il 98% delle nostre imprese sono PMI che, da sole, non hanno i mezzi per investire in ricerca: ciò che attori come Confindustria devono fare è sostenere la formazione di consorzi o altre aggregazioni di imprese che raggiungano la massa critica necessaria per innescare un attivo investimento in ricerca ed innovazione.
Al contempo, la piccola dimensione di impresa si riflette spesso in un problema culturale: il piccolo imprenditore, magari erede di una tradizione famigliare, troppo spesso sposa il motto “meglio piccolo ma solo”, escludendo la possibilità di crescere attraverso l’apertura del proprio capitale o la creazione di accordi ed alleanze; inoltre, è comune che abbia una spiccata cultura del prodotto, mentre assai più rara è la cultura dell’innovazione e, quindi, della ricerca. Così facendo, tuttavia, la PMI italiana rischia di uscire dal mercato, per colpa di chi, puntando sulle leve della crescita e dell’innovazione, è stato capace di superarla.
La soluzione, a mio avviso, è costituita dall’innovazione nel modo stesso di concepire l’impresa, nel modo di “fare” impresa: se si riesce a cambiare sotto questo punto di vista, allora anche la cultura della ricerca riuscirà a farsi strada!
January 2006