"Dai diamanti non nasce nulla...". Radici e futuro di una impresa sociale

L’impresa sociale ritorna ciclicamente al centro dell’attenzione, per motivi diversi: è un settore economico in crescita, vive e si sviluppa in un quadro normativo in continua evoluzione (anche se l’evoluzione appare poco lineare…). Ma addirittura negli ultimi mesi, con le vicende di “Mafia Capitale” è stata accostata per la prima volta a forme di malavita organizzata…
In realtà, di un mondo così complesso e sfaccettato forse si sa ancora poco. Proviamo a capirne di più ascoltando una voce dall’interno: Rosario Giuliano è presidente di Lanza del Vasto, una cooperativa sociale genovese che si occupa da quasi trenta anni di servizi educativi e di assistenza agli anziani.
Ci presenta innanzitutto la realtà di Lanza del Vasto, così come è oggi?
Siamo una cooperativa sociale composta da oltre 250 soci lavoratori, con un fatturato che nel 2014 ha superato gli 8 milioni di euro. Lavoriamo a Genova e in Liguria gestendo strutture residenziali per anziani (dalle comunità alloggio fino alle residenze di riabilitazione), offrendo assistenza domiciliare ad anziani e disabili, e fornendo servizi educativi a ragazzi in difficoltà, sia in centri diurni che in comunità. La maggior parte dei nostri servizi sono convenzionati con i Comuni di residenza degli assistiti e con le ASL.
Da quale storia nasce questa realtà?
All’inizio degli anni ’80 un gruppo di studenti universitari aderenti al movimento di Comunione e Liberazione iniziò una attività di volontariato a supporto delle due Parrocchie di via Pre, nel Centro Storico di Genova. È la zona famosa per avere ispirato alcune canzoni di Fabrizio De Andrè: qui fioriva un mondo di piccolo contrabbando, prostituzione e disagio legato all’immigrazione del secondo dopoguerra, che rendeva il clima sociale certamente denso di spunti pittoreschi e poetici… ma nello stesso tempo creava condizioni di forte rischio di devianza per i ragazzi che crescevano abbandonati per i carugi (le strette vie dell’angiporto).
E voi avete risposto con il volontariato?
Non esattamente. Attraverso quei semplici gesti di condivisione (fare i compiti insieme, accompagnare i bambini in gite fuori dal quartiere e in piccoli soggiorni di vacanza, organizzare serate di festa), i ragazzi che iniziarono erano mossi dal desiderio di essere educati a guardare la realtà con lo stesso sguardo di carità che sperimentavano nella vita della comunità cristiana. Non c’era quindi un approccio “sociologico” o “imprenditoriale” al lavoro educativo.
Poi cosa è successo?
Il Comune di Genova avviò una politica di interventi sociali che riconosceva la pubblica utilità di queste attività nate dalla libera iniziativa delle persone, e nel giro di qualche anno, attraverso l’erogazione di contributi ai vari gruppi presenti in città, fu possibile per noi e un’altra decina di soggetti, strutturarsi in piccolissime cooperative.
Quindi il Comune di Genova si dimostrò un pioniere della sussidiarietà?
Solo in parte. La scelta di valorizzare l’esistente fu corretta. Ma il passo successivo fu la pretesa di omologare ogni realizzazione ad un modello imposto dal Comune, fino ad arrivare ad una sorta di “esproprio” dei servizi educativi. Mi spiego: noi avevamo fondato un centro diurno per minori, con una precisa offerta di servizi e radicato su un territorio ben definito. Nel momento in cui il Comune ha deciso di convenzionare i vari centri esistenti, ha scelto una strada che si è rivelato totalmente inappropriata: la gara d’appalto. Ritenendo che fosse l’unica procedura legittima, il Comune ha “finto” di avere inventato un centro diurno per minori con caratteristiche identiche al nostro e ha indetto una gara per affidarne la gestione. Dovendo procedere allo stesso modo per altre realtà cittadine, ha configurato un capitolato che omologava tutti i presidi (che avevano identità e storie differenti) ad un unico modello, snaturando per alcuni aspetti le varie opere già in atto… Questa non è sussidiarietà, ma statalismo opportunista!
Sono in tanti gli imprenditori sociali genovesi che la pensano come lei?
Credo che l’analisi sia condivisa da molti. I problemi sorgono nel momento in cui ci si confronta con le possibili alternative ad un sistema che negli ultimi anni si è molto involuto: la cooperazione sociale in Liguria è stata ridotta ad un serbatoio di manodopera a basso prezzo. La politica dell’affidamento con procedure inappropriate ha determinato il permanere di realtà imprenditoriali piccole, poco solide e poco stimolate ad innovare. Le tipologie di servizio per minori, ad esempio, sono le stesse da venticinque anni, benché la situazione sociale, antropologica e demografica del territorio sia profondamente mutata! Ma lo stesso potrebbe dirsi per gli anziani e per i disabili.
Riconosco, però, che molti operatori del sociale, pubblici e del terzo settore, non sono orientati a mettersi in discussione e a pensare a cambiamenti.
Voi avete una identità che vi ha reso più attenti al cambiamento? Quanto la vostra storia e la vostra identità hanno inciso ed incidono sulla cultura dell’impresa?
Penso che la storia incida sempre sull’identità. Nel nostro caso siamo in presenza di una identità “forte”. Di conseguenza, il riflesso nel corso degli anni è stato a mio parere determinante.
Da cosa si capisce, rileggendo la vostra esperienza?
Mi rendo conto che esiste una identità di noi stessi che percepiamo noi, e una o più identità che ci attribuiscono gli altri. Lanza del Vasto è nata, come accennato, da un gruppo di studenti universitari molto connotati, ed è nata in una città “rossa” come Genova. La combinazione di questi elementi ha determinato un “posizionamento”molto netto della cooperativa: noi ci sentivamo portatori di una cultura cattolico popolare che risultava veramente estranea ai nostri interlocutori, sia istituzionali che colleghi del settore. Basti pensare alla parola sussidiarietà: per noi già in quei primi anni ’80 era il criterio guida della azione sociale, mentre intorno a noi era diffusa e radicata una cultura che vedeva invece nella centralità della Pubblica Amministrazione il cardine dei servizi sociali.
Ma l’evoluzione del sistema, con le esternalizzazioni diffuse, vi ha dato ragione!
Non è proprio così. È vero che nel corso degli anni la quasi totalità dei servizi sociali è stata affidata a soggetti del terzo settore. Ma proprio il modo con il quale queste esternalizzazioni sono avvenute e ancora oggi proseguono, come ho raccontato, esprime una impostazione culturale della Pubblica Amministrazione profondamente statalista: l’impresa sociale conviene perché costa meno e toglie alcuni problemi gestionali all’Ente Pubblico. Ma deve limitarsi ad un sostanziale appalto di manodopera. Non può esprimere la progettualità di soggetti organizzati della società civile. Non ci è riconosciuto, in sostanza, l’esercizio della funzione pubblica!
Ma in base alla vostra esperienza, per lo sviluppo dell’impresa sociale è più importante il rapporto con la Pubblica Amministrazione, oppure il riconoscimento del mercato, cioè la possibilità di relazionarsi direttamente con gli assistiti? Qual è la vostra strategia oggi?
Noi partiamo dal cogliere un bisogno da soddisfare. Credo che questa azione che stia alla base di ogni strategia di impresa. Forse i bisogni di assistenza e di cura sono più elementari e quindi più facili da vedere. Certo, si tratta poi di costruire risposte adeguate alle esigenze dei “clienti”, e questo può presentare notevole complessità, perché il sistema italiano di welfare, nel quale noi ci muoviamo, è ancora caratterizzato da uno sdoppiamento tra il titolare del bisogno (la persona beneficiaria del nostro intervento) e un soggetto committente (di solito Ente Pubblico). Con il conseguente paradosso che l’impresa sociale rischia di curare più il committente (e pagatore…) che non l’assistito (che spesso viene spossessato del proprio diritto e della facoltà di scelta).
Posso testimoniare che nel tempo la capacità di lettura dei bisogni, e di costruzione di risposte anche innovative garantisce il consolidamento dell’impresa sociale e il suo sviluppo. Anche se vedo che molte cooperative sociali preferiscono assicurarsi fatturato nel breve periodo seguendo acriticamente il flusso delle gare di appalto, che spesso perpetuano uno status quo fondato su servizi anacronistici e mai sottoposti a revisione critica.
C’è stato un momento in cui tutti parlavano di impresa sociale, ci fu una legge in merito, si apri un dibattito. Cosa resta di tutto questo? Sono possibili davvero imprese sociali? Ne esistono davvero?
Rimpiango il dibattito sull’impresa sociale che aveva portato alla legge 155, perché era veramente animato da un desiderio di capire il fenomeno e creare un contesto favorevole, così come c’era un pensiero approfondito dietro alla legge 328 sul sistema dei servizi sociali.
Si andava nella direzione di un “quasi mercato”, riconoscendo la natura di pubblica utilità dei servizi alla persona, ma nel contempo consentendo alle imprese sociali di confrontarsi con la realtà dei bisogni dei cittadini senza filtri inappropriati da parte della Pubblica Amministrazione.
Certamente non si è riusciti a raggiungere certi obiettivi immaginati all’inizio degli anni 2000: la 328 è rimasta inattuata sul tema degli accreditamenti e dei titoli di acquisto, che ponendo al centro la libera scelta dei cittadini nell’individuare il soggetto erogatore della prestazione avrebbero stimolato il terzo settore ad innovare e a creare relazioni dirette con i beneficiari dei servizi.
La legge sull’impresa sociale è rimasta lettera morta, in quanto non ha tracciato un quadro giuridico chiaro e organico del settore, limitandosi ad inventare una “etichetta” da appiccicare a soggetti già normati. Il dibattito politico e in dottrina avrebbe potuto portare allora ad un assetto legislativo equilibrato, che oggi non vedo possibile per un generale decadimento del livello della discussione, sia a livello politico che culturale. Gli atti parlamentari sulla legge di riforma del terzo settore sono eloquenti: da un punto di vista tecnico non è nemmeno chiara la distinzione tra volontariato e impresa. Ma soprattutto, emerge una grande sfiducia nella capacità delle persone di organizzare risposte ai bisogni e nella possibilità che l’individuo possa perseguire il bene comune. Rimane solo la pretesa di uno Stato che pensi a tutto e controlli ogni cosa!
Quindi, secondo lei non ci sono le condizioni per la riforma del Codice Civile?
Spesso leggo proposte che rischiano di rendere ancora più complesso il quadro normativo e più opprimenti gli adempimenti formali.
Dialogando con realtà di varia natura, nell’ambito del Forum del Terzo Settore, mi rendo conto che le forme attuali previste dal Codice Civile non sono del tutto obsolete. Se proviamo a comparare i nostri istituti con quelli di altri ordinamenti, e riconosciamo il valore della nostra tradizione giuridica, non mi sembra che siano necessarie riforme rivoluzionarie.
Ad esempio, il vincolo di non distribuzione degli utili è un impegno di fronte alla comunità che va mantenuto rigorosamente, in quanto è la prova tangibile che la natura del soggetto è riconducibile al diritto tutelato dall’articolo 2 della Costituzione, prima ancora che dall’articolo 41.
Quindi è giusto mantenere un livello alto di controllo pubblico. Ma per i soggetti senza scopo di lucro non ci possono essere sempre percorsi ad ostacoli!
Il punto debole del sistema è la mancanza di distinzione tra organizzazioni complesse e strutture più semplici. Per esempio: esistono organizzazioni in forma giuridica di associazione di volontariato che hanno dimensioni e complessità organizzativa notevole. È chiaro che un sistema di controllo dei soci, di pubblicità dei bilanci, di revisione contabile, di vigilanza pubblica è utile e necessario. All’estremo opposto, esistono cooperative sociali che con un giro d’affari ridotto sono costrette a dotarsi di collegi sindacali costosi e ridondanti. Una riforma legislativa mirata alla semplificazione amministrativa, che coordinasse le norme civilistiche e quelle fiscali potrebbe rivelarsi più adeguata alla realtà attuale del terzo settore e dell’impresa sociale.
Come vede il mondo del terzo settore in Italia? Quanto la differenziazione interna rende poco incisiva la sua azione in termini di advocacy?
Le vicende del Terzo Settore seguono l’andamento complessivo della vita nazionale: viviamo una profonda crisi antropologica. Il nostro popolo è insicuro, sfiduciato, poco disposto al sacrificio e a rimettere in discussione certi stili di vita. Se ci paragoniamo alla generazione che ha affrontato la ricostruzione dopo la guerra, capiamo quanto siamo deboli.
Questa debolezza è presente nei singoli, nelle famiglie e anche nelle imprese, comprese le imprese sociali! Questo clima, a mio avviso, rende difficile anche i ruoli di advocacy.
Ma il problema più urgente penso sia un altro: in un momento di poteri deboli (debole la politica, debole l’economia, deboli le culture…) ci scontriamo ogni giorno con uno Stato Apparato inefficiente e nel quale gli uffici troppo spesso producono burocrazia e arbitrio.
Queste condizioni rendono difficile lo sviluppo anche per le imprese sociali. E anche per le imprese sociali aumentano i rischi di adagiarsi su piccole rendite, ricercare connivenze, cercare finte scorciatoie per sopravvivere. Sono convinto che le libere formazioni sociali accolgano ancora gli ideali più nobili delle persone, e le cadute siano delle rarissime eccezioni.
Quindi la sua visione del futuro è negativa?
Un imprenditore sociale, per definizione, non può avere una visione negativa! Noi partiamo da un positivo e su quello costruiamo il futuro.
Abbiamo delle grosse aspettative che richiedono, nel medio periodo, che si verifichino alcune condizioni, con la collaborazione di tutti.
Occorre rendere effettivo il concetto di funzione pubblica, ridisegnando i rapporti tra cittadini e Pubblica Amministrazione in modo conforme ai principi fondamentali stabiliti dalla nostra Costituzione.
Bisogna modernizzare il sistema di welfare potenziando forme di previdenza integrativa che consentano di destinare risorse economiche nuove ai servizi, sostenendo la domanda di prestazioni dei cittadini e garantendo la libera scelta.
Infine, seguendo esempi stranieri, si può considerare la forma dell’impresa sociale interessante anche per la gestione di beni e servizi pubblici che non siano solo assistenziali o sanitari: il grande tema dell’acqua, dell’energia, dei trasporti pubblici. La Liguria, ad esempio, ha un sistema di trasporto pubblico che ci si è ostinati a mantenere a monopolio pubblico, con conseguenze economiche disastrose. L’impresa sociale su questo potrebbe essere un interlocutore.
Mi sembra che le sfide non manchino!
a cura di Teresina Torre
January 2015