Ambiente, sviluppo e fini dell’impresa al tempo del Covid-19

Abbiamo incontrato Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano, Vice Segretario Generale e Responsabile per l’azione climatica dell’Unione per il Mediterraneo, già Coordinatore dell’area Ambiente della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri, Autore di svariati saggi, articoli e pubblicazioni ufficiali sui temi dell’ambiente, del cambiamento climatico e dello sviluppo umano sostenibile, attento alla dottrina sociale cattolica e alle nuove prospettive introdotte dall’Enciclica Laudato si’ nel discorso ecologico. A Grammenos Mastrojeni abbiamo rivolto alcune domande sul rapporto ambiente e sviluppo e sui fini dell’impresa nell’attuale scenario caratterizzato dall’emergenza economica, sociale e sanitaria da Covid-19.
L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite ha ridefinito gli obiettivi di sviluppo umano entro un sistema naturale reattivo. Pensa che l’attuale pandemia di Coronavirus possa essere interpretata come una risposta dell’ambiente ai nostri comportamenti?
Credo anzitutto che la narrazione di una "vendetta della natura" sia falsa e nociva. Altro è comprendere che parte abbiamo come causa del problema e, soprattutto, rendersi conto che Covid-19 è solo la punta dell’iceberg: un sintomo di un’economia che crea valori diversi dal benessere, mentre – anche secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – benessere e salute coincidono.
Per diverso tempo, la salute è stata considerata solo come "lo stato in assenza di malattia", definizione semplicistica e tutto sommato deresponsabilizzante. Fortunatamente si diffonde ora - all’inizio del terzo millennio e in considerazione delle nuove conoscenze socioculturali non solo mediche - un più ampio concetto di salute, non meramente legato alla sopravvivenza fisica o all’assenza di malattia, ma inglobante anche gli aspetti psicologici e mentali, le condizioni naturali, ambientali, climatiche e abitative, la vita lavorativa, economica, sociale e culturale, tutti status in grado di interagire, positivamente o negativamente, con l’esistenza dell’essere umano. In realtà l’OMS evoca sin dal 1946 questa nuova ampiezza della concezione di salute, definendola come "uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente come assenza di malattia e di infermità". Secondo la Carta di Ottawa per la Promozione della salute, essa è una risorsa per la vita quotidiana, non l’obiettivo del vivere, è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche dell’individuo. Se però andiamo a vedere dove concretamente si costruisce questo stato di benessere della persona scopriamo che è il riflesso individuale di un equilibrio complessivo fra diversi valori: quelli che sono difesi come "obiettivi" nell’Agenda 2030, gli SDGs.
Ritiene che esista un legame tra cambiamenti climatici, degrado ambientale e crisi epidemiologiche?
Ci siamo: è iniziata l’era degli impatti. Appena un paio di anni fa ancora non volevamo credere a una scienza che ci pareva fantascienza quando indicava che presto il clima alterato avrebbe colpito i nostri raccolti o devastato un porto in Liguria, e altrove avviato conflitti e migrazioni. E non ci siamo neanche accorti che la stessa scienza ammoniva sui forti pericoli sanitari causati dal degrado ambientale. Ora siamo costretti ad ascoltare.
Benvenuti in un piccolo assaggio del mondo che ci aspetta se non cambiamo rotta e tuteliamo l’ambiente: crescita esponenziale degli impatti su agricultura, territorio, sicurezza e pace; ma anche moniti su batteri resistenti a ogni antibiotico o sullo scongelamento di virus preistorici con la fusione del permafrost artico. Questa stessa scienza che finora ha colto nel segno certifica anche un altro fatto essenziale: abbiamo pochissimo tempo, ma possiamo ancora invertire rotta se solo capiamo bene cosa è successo e ne traiamo le logiche conseguenze.
Non si tratta di lodare gli aurei tempi passati, funestati da guerre, carestie e pestilenze e con attese di vita alla nascita di molto inferiori alle nostre: benvenuta scienza, grazie tecnologia! Si tratta invece di cogliere il paradosso. Oggi avremmo tutto – scienza e risorse – per liberarci di tutti questi mali del passato e invece abbiamo abbracciato un sistema che ce li restituisce amplificati e invincibili, e che si può cambiare al solo prezzo di vivere tutti meglio. Non serve costruire un mondo più sanitario, bensì un mondo più sano per tutti a 360 gradi.
Non si può rigorosamente affermare che proprio Covid-19 sia causato dal degrado ambientale, così come non si può asserire che uno specifico ciclone sia causato dal riscaldamento globale: fa solo parte di una tendenza statistica che suggerisce, ad esempio, che AIDS ed Ebola sono entrati nel circuito umano grazie al nostro rapporto distruttivo con le foreste, o che il prossimo invincibile Superman dei batteri nascerà in uno di quegli allevamenti crudeli ove si stipano animali imbottendoli di antibiotici a incubare la resistenza a qualsiasi farmaco. E non è un problema in più rispetto al clima o alla drammatica perdita di biodiversità; è lo stesso problema perché ha le stesse cause.
Cosa è successo? Pensiamo a come mangiamo: grazie scienza, grazie tecnologia che ci fate produrre calorie sufficienti a sfamare più di 10 miliardi di persone. Ma chi dobbiamo ringraziare se ciò si è trasformato in un sistema che spreca il 30% di quel cibo, depreda risorse – invadendo le foreste di Ebola che poi non assorbono più neanche CO2 – per creare 1,5 miliardi di ipermangiatori insalubri a fronte di 815 milioni di denutriti? Se iniettassimo giuste dosi di tecnologia su produzioni più piccole, sovrane e locali, culturalmente ricche e varie, avremmo cibo per tutti, migliore, e in abbondanza. Non solo, ma le diete sarebbero meno intasate di proteine avvelenate, provenienti in dosi salutari da animali che hanno vissuto un’esistenza dignitosa e senza antibiotici, fertilizzando le terre con le loro deiezioni e quindi aiutando ad assorbire carbonio con la crescita vegetale. Tutto al posto di quell’agricultura degli obesi contro denutriti che invece è responsabile di oltre il 20% dei gas serra.
Questo vale in tutti i settori: se alcuni sprecano le loro vite a produrre un reddito intasato di oggetti che non hanno il tempo di usare mentre altri cercano brandelli di oggetti nelle discariche; se io mi complico l’esistenza con tre auto in garage mentre una donna in un villaggio deve fare 10 miglia a piedi per un orcio d’acqua, madre natura ci restituisce il conto con gli interessi. E Covid-19, su questo, ci sta dando anche l’ultima lezione essenziale: non c’è governo al mondo che possa risolvere il clima, la natura e le pandemie se tutto non parte dalla libera responsabilità individuale e di impresa.
Quale lezione pensa possano trarre le imprese dal cambiamento in atto?
Una lezione fondamentale, su una vecchia questione: sostenibile conviene, perché crea esternalità positive eliminando quelle nocive. E l’esternalità torna indietro all’impresa come vantaggio territoriale se è positiva, o come un prestito ad altissimo interesse se crea delle vittime. Sta succedendo il miracolo tanto atteso e finalmente la politica e la società si stanno appropriando dell’idea vera di sostenibilità: il contrario della decrescita – più o meno felice – bensì la radice di un sostenuto ciclo espansivo dell’economia che produce qualità utile al posto di quantità dannosa. Un’economia sostenibile non è un sistema che si autolimita nel produrre benessere per non oltrepassare i limiti della natura; al contrario è un’economia che mette in armonia i valori che si possono misurare con la moneta – quelli del PIL, per intenderci – con i valori non monetizzabili come la salute, la legalità, la realizzazione personale, la famiglia o il territorio. Ne risulta un sistema molto più competitivo perché cura le vere basi della competitività che non sono solo bassi costi di produzione. La creatività del lavoratore coinvolto, la generosità del territorio rispettato, il clima di favore e difesa per gli investimenti nella società che li circonda, danno molto più impulso di una spasmodica ricerca di taglio dei costi di produzione.
Ritiene che l’impresa sia chiamata a riorientare i suoi fini?
No: basta che comprenda che i suoi fini, compreso il profitto, si raggiungono meglio in armonia con il territorio invece che in una relazione predatoria. Non credo a una visione etica della RSI, come un costo o un sacrificio di competitività in nome di emergenze o valori antieconomici; credo che "sostenibile conviene". E – per fortuna – non sono il solo a concludere che un’impresa responsabile raggiunge meglio i suoi obiettivi di sempre. Questa, autentica, economia sostenibile ci porta a sovvertire una narrativa a cui si era assuefatto il pubblico più attento ai temi ambientali: non ci sono più i tradizionali "buoni" e "cattivi" dell’ambiente, perché a tutti convengono i vantaggi competitivi di un’economia sostenibile. Ad esempio, è cambiata la percezione dei più vituperati, quella della finanza. Per troppo tempo, sbagliando assieme a tutti gli altri, la finanza ha trattato i valori del bene comune alla stregua di un serbatoio di costi aggiuntivi che deprimono la competitività – legati a obiettivi nobilissimi, ma da affidare alla filiazione filantropica dell’impresa perché business is business e quei valori parevano del tutto estranei alla meccanica economica. Oggi, la stessa finanza scorge nell’attenzione dell’impresa al bene comune un fattore di competitività, solidità e durata dell’investimento. Un’autentica inversione a U, e i numeri parlano: gli investimenti ESG (Environment, Society, Governance) rappresentano a livello mondiale circa un quarto di tutti gli asset gestiti e si situano intorno ai 20.000 miliardi di U$, in capo a operatori che rappresentano 70.000 miliardi di U$ e che stanno rapidamente convertendo in questa direzione l’insieme dei loro portafogli. I dati relativi agli USA parlano ancor più chiaro: oggi gli investimenti ESG ammontano a circa 12.000 miliardi - il 26% degli asset gestiti - erano 8.600 nel 2016 e solo 639 nel 1995, anno in cui iniziarono a essere censiti. Un volume cresciuto 18 volte in vent’anni e un tasso composito di crescita annua del 13,6% non si spiega solo con cuori più illuminati.
Che "sostenibile conviene" è vero sia a livello macroeconomico che microeconomico; a fronte di supply chains protette, relazioni industriali armoniche come solo il sentimento di partecipare tutti a una missione può dare non vi sono costi per il sistema. Il prodotto coerente col territorio e la sua società richiede l’apporto di lavoratori qualificati e rispettati e sostiene quindi un’occupazione stabile, remunerativa e dignitosa e ciò, a sua volta, porta a una redistribuzione del reddito essenziale per un nuovo ciclo espansivo.
Per l’Italia, inoltre, è un’occasione unica: un’economia che produce qualità e servizi, invece di concorrere al ribasso sul prezzo, è la proiezione naturale della nostra storia e del nostro territorio. Si dice che l’Italia ha poche risorse naturali, e sarebbe vero nell’ottica dell’economia tradizionale. Per una nuova economia della qualità e del benessere, abbiamo la più alta concentrazione mondiale delle risorse in assoluto più richieste dal mercato: bellezza e paesaggio, cultura, sapere e scienza, innovazione spontanea, imprenditorialità e molto altro. Una gestione sostenibile dell’economia è già stata scelta dalle nazioni più forti, come la Germania o i Paesi scandinavi. Un territorio valorizzato fa bene a tutti, ma loro non hanno per natura le risorse migliori. Quelle le ha un’Italia che racchiude il 50% del patrimonio storico artistico mondiale, la metà della biodiversità europea e una capacità imprenditoriale straordinaria. Se riusciamo a trasformarci in un paese che gestisce il suo territorio in armonia a 360 gradi, con efficienza solidale, diventiamo il modello globale per il futuro.
L’interruzione delle attività produttive previste dai Governi per affrontare l’emergenza sanitaria ha determinato un generale miglioramento degli indicatori connessi al cambiamento climatico, in particolare riguardo alle emissioni di CO2. Tuttavia, c’è il rischio che tali indicatori peggiorino - anche rispetto alla situazione precedente alla pandemia - in conseguenza delle misure per rispondere all’emergenza economica e sociale. È possibile evitare che ciò accada? Pensa che l’adozione di misure per un uso efficiente delle risorse ambientali possa essere strumentale per rispondere all’emergenza economica e sociale? L’utilizzo degli strumenti digitali all’interno dei processi produttivi può essere di supporto in questo senso?
Sembra la dimostrazione che la più invincibile legge della fisica è quella di Murphy: se qualcosa può andare storto, sicuramente lo farà. Così - proprio nel momento in cui si stava varando una svolta forse epocale nella relazione fra esseri umani e con il pianeta, il Green Deal europeo - è giunto Covid-19 a farci cambiare priorità, e a minacciare che i fondi previsti per la svolta verde vadano impiegati su altre urgenze.
Ironia della sorte, dobbiamo fare proprio il contrario: non perché "verde" sia più importante della salute, ma poiché le misure più efficaci per riprenderci dalla crisi sanitaria in tutti i suoi aspetti, e prevenirne una nuova, sono esattamente quelle previste nel Green Deal.
Il Coronavirus ci lascia con l’economia rallentata, disoccupazione, disparità acuite fra ricchi e poveri e fra i Paesi, quelli che hanno retto l’onda d’urto dell’inatteso arresto economico e quelli che non hanno i mezzi per farlo. Ma ci lascia anche alcune consapevolezze: che qualcosa nella biosfera può diventare nemica; un esperimento di telelavoro di massa; la prova che, rallentando alcune condotte non necessarie, la natura è pronta a riprendere il suo posto. Sono tornati gli uccelli in cielo, i pesci a Venezia, e si respira meno di quel particolato che favoriva condizioni preesistenti di vulnerabilità al virus e forse anche agiva come un taxi aereo per portarlo nei nostri polmoni. Infine, Covid-19 consente il superamento dei tabù di spesa pubblica che ingessavano l’Europa: investire, quando ci vuole ci vuole, anche oltre i sacri parametri. Il Green Deal è una politica espansiva dell’economia che, finanziando la riconversione di vari settori, crea crescita e occupazione qualificata. La crescita contemplata nella svolta verde si distingue tuttavia dalle precedenti perché può creare valore aggiunto nella qualità invece che nella quantità: qualità e durata del prodotto, ma anche del processo produttivo e nelle vite di chi vi partecipa. Ed era già nei piani: una produzione di beni migliori e servizi più avanzati e accessibili, che richiede un contributo di sapere più che la presenza fisica in catena di montaggio, riporta gli uccelli in cielo e i pesci a Venezia. Una società che mangia, consuma, si muove meno ma molto meglio, genera più reddito e più rapidamente, non a discapito bensì assieme alla sua finalità: qualità della vita. E poi, non va trascurato, la qualità sostenibile caratterizza una produzione che recupera il vantaggio specifico dell’Europa e ancor più dell’Italia: tanti possono batterci sui costi e le quantità, ma noi abbiamo il DNA della qualità.
October 2020