Retorica e realtà: riflessioni sul sistema bancario italiano

A margine della cerimonia per il conferimento della Laurea Honoris Causa in Economia Bancaria al Dott. Alessandro Profumo, AD di UniCredit, da parte dell'Università di Genova, abbiamo raccolto il confronto con il Prof. Marco Di Antonio, Ordinario di Economia delle Aziende di Credito presso l'Università di Genova, sugli scenari che si stanno delineando nel sistema bancario italiano.
Marco Di Antonio: E' un onore per Impresa Progetto confrontarsi con uno dei più validi top manager del nostro Paese, a capo di un gruppo bancario riconosciuto come best performer da analisti ed operatori, che si distingue per eccellenza dei risultati e chiarezza della visione strategica. Vogliamo sentire l’opinione che un così autorevole esponente del mondo bancario ha su alcuni tra i temi di dibattito più attuali; vogliamo avere la sua valutazione sulle sfide e sui “nodi critici” che caratterizzano la situazione attuale del nostro sistema finanziario. Spesso le risposte più comuni a tali sfide si riducono a slogan o a mantra consulenziali. Questa “retorica manageriale” ha anche un contenuto di verità o serve solo a esorcizzare problematiche di grande complessità ?
Alessandro Profumo: Quello della crescente complessità è uno dei principali problemi che i manager di oggi si trovano a gestire. Ritengo che si tratti di una sfida che richiede da un lato disciplina e rigore analitico, dall’altro la capacità comunque di “scremare”, di cogliere gli elementi essenziali del problema. Oltre a questo c’è però anche un aspetto “comunicativo”, che al giorno d’oggi ha un’importanza tutt’altro che secondaria, ma che per definizione deve essere sintetico. Lo slogan ha sicuramente un contenuto di verità, ma rappresenta, per così dire, la forma; la sostanza si costruisce attraverso un lavoro serio. Il rischio è che a volte gli slogan banalizzino questo lavoro.
LA RETORICA DEL MERCATO
MDA: Qualche anno fa, Unicredito voleva acquistare Commerzbank, ma è stata dissuasa dalla valutazione negativa dei mercati. Si dice: “questa è la logica del mercato, la “disciplina” che esso impone”. Ma, per chi è al comando di un’organizzazione, non è inaccettabile subire questa dittatura dei mercati, assistere a una sorta di esternalizzazione della funzione strategica? Le strategie vengono dettate non più dal top management o dal CDA, ma dagli analisti finanziari, soggetti esterni per lo più in posizione di svantaggio informativo rispetto al management. Non pare preferibile un mondo dove le scelte chiave sono compiute da azionisti fidelizzati, investitori “pazienti”, con disegni industriali e lungimiranti di lungo periodo?
AP: Non parlerei di esternalizzazione della funzione strategica e men che meno di dittatura dei mercati. Subire l’influenza del mercato è una fisiologia, non una patologia. Se decidi di stare nel mercato, ne accetti le regole. Il vero tema è la trasparenza dei mercati e delle regole. A volte il mercato impone dei vincoli all’azione del management ma, se c’è trasparenza, si tratta di vincoli “sani”, volti ad impedire errori più che a precludere opportunità. È dove non c’è mercato (o il mercato non è trasparente) che i vincoli sono maggiori e il management si trova disarmato.
LA RETORICA DEL MERCATO UNICO
MDA: Con l’operazione Santander-Abbey National e le due OPA su BNL e Antoniana Veneta è iniziato il processo di concentrazione europeo. Forse il colpo di pistola è stato sparato troppo presto per le nostre banche, in una corsa dove paradossalmente vince l’atleta più grosso e non il più agile, dove le dimensioni contano forse più dell’efficienza e della profittabilità. Rispetto alla paura che le nostre banche siano (solo) prede e non cacciatori, la risposta rassicurante è: “il mercato europeo è unico”. Tutti sono d’accordo che la contendibilità degli assetti proprietari deve attuarsi in un quadro di trasparenza e pieno rispetto delle regole di mercato. Ma ciò che pare inevitabile è anche desiderabile? Nella sostanza, cioè, il rischio che i centri di comando nell’allocazione del credito siano al di fuori del nostro Paese non avrà effetti svantaggiosi sullo sviluppo delle nostre imprese e della nostra economia nazionale?
AP: Penso che su questo tema non si possa partire da posizioni preconcette. Premesso che trovo piuttosto discutibili alcune polemiche sulla chiusura del sistema italiano visto che oggi, per esempio, la percentuale di capitale bancario quotato è attorno al 70% in Italia mentre in Germania è al 30%, credo che ormai sia chiaro per tutti che, anche nel nostro settore, l'unico orizzonte di riferimento possibile può essere solo quello europeo. E quindi, da questo punto di vista, il problema degli assetti proprietari è relativo. Il tema vero è quello di avere un sistema finanziario efficiente in grado di garantire una corretta allocazione delle risorse... Noi come UniCredit siamo presenti in misura significativa in otto paesi dell’Europa Centro-Orientale, dove abbiamo trasferito know how e risorse manageriali, migliorato l’efficienza delle banche partecipate, introdotto nuovi prodotti e dove continuiamo a fornire un contributo per sostenere la crescita e lo sviluppo dei sistemi produttivi locali. In questi Paesi, la percentuale di capitale bancario in mani estere è superiore al 70% e, ciò nonostante, il sostegno all’economia locale è sicuramente più efficiente di quello che veniva garantito pochi anni fa dalle sole banche locali. Se vedo un problema per l’Italia è quello della perdita di competitività e del minore appeal per gli investitori. Un problema da risolvere indipendentemente dalla composizione delle compagini azionarie delle banche.
LA RETORICA DELL’EFFICIENTAMENTO
MDA: Efficientare! Abbassare il cost/income! Sono le nuove urla di guerra. Poi però le banche si scontrano con i vincoli di rigidità del personale, che rendono più problematiche e meno apprezzate dai mercati le fusioni italiane e alzano il nostro cost/income su valori non comparabili a quelli dei competitors esteri. In Italia bisogna efficientare in modo soft, si dice, e in effetti Unicredito si è distinta per il conseguimento di ottimi risultati senza praticamente toccare, a differenza di altri gruppi, il personale. Ma quando i tempi si fanno duri anche nelle migliori famiglie le “buone maniere” finiscono. L’ultimo piano triennale di UniCredit (non a caso salutato con grande soddisfazione dai mercati) aggredisce in modo deciso i costi del personale. In definitiva: le banche italiane possono diventare efficienti come le banche estere? E se sì, su quali leve devono agire?
AP: Rispetto ai concorrenti esteri, le banche italiane hanno cominciato solo dai primi anni ’90 a misurarsi seriamente con il mercato. È chiaro che ciò ha creato un gap di efficienza, che tuttavia si sta progressivamente stringendo. Il cost/income medio delle prime tre banche italiane è oggi sostanzialmente allineato alla media europea.
Le spese del personale sono sicuramente una delle voci di costo più significative, ma non certo l’unico parametro sul quale incidere per migliorare l’efficienza. Penso per esempio alla rilevanza di molte spese amministrative che potrebbero essere ancora ulteriormente abbattute rivedendo i processi operativi. Del resto in Europa, e specialmente in Italia, esiste una cultura di tutela del lavoro che merita il massimo rispetto e che impedisce soluzioni per così dire “americane” del problema.
Le leve su cui agire per migliorare l’efficienza sono quindi numerose. Attenzione però, perchè qualsiasi scelta di intervento richiede l’applicazione di buone dosi di intelligenza.
LA RETORICA DELLA BEST PRACTICE ORGANIZZATIVA
MDA: Le grandi società di consulenza non hanno dubbi: il modello organizzativo vincente per i grandi gruppi è il gruppo multidivisionale o multispecialist. Con la struttura S3 (divisioni e banche specializzate per segmento: private, retail, corporate) , UniCredit ha buttato all’aria la vecchia struttura e ha percorso tale strada con molta più decisione di altri grandi gruppi, più cauti, in alcuni casi soggetti a ripensamenti e passi indietro. Le dò una bilancia, dottor Profumo: metta su un piatto i vantaggi della nuova struttura e sull’altro gli svantaggi, li descriva, e poi mi dica dove pende la bilancia.
AP: La focalizzazione sul cliente è la chiave di successo di qualsiasi azienda sul mercato. La capacità di servire al meglio il cliente è per noi direttamente collegata ai concetti di segmentazione e di specializzazione, ovvero individuare classi omogenee di clienti ed essere in grado di offrire loro i prodotti più adatti a soddisfare i loro bisogni. Si tratta di concetti all’apparenza semplici, ma che per trovare concreta applicazione hanno richiesto una profonda rivisitazione organizzativa. A partire dalle nostre sette ex banche federate, per loro natura “generaliste”, abbiamo creato tre nuove banche specializzate per segmento di clientela, oltre ad una serie di società-prodotto (le “fabbriche”), in grado di offrire la gamma più completa e avanzata di servizi. I vantaggi sono evidenti e testimoniati da risultati in continua crescita. Come in ogni processo di cambiamento, qualche “effetto collaterale” in termini di disservizi, e anche a volte di disorientamento dei colleghi, si è verificato. Si tratta comunque di fenomeni fisiologici e che, come tali, sono stati gestiti in maniera adeguata.
LA RETORICA DEGLI STAKEHOLDER
MDA: Nella nostra cultura non è bello dire che scopo dell’azienda è creare profitto; più “politically correct” e quindi accettato (anche perchè forse meno compreso) è dire che lo scopo è creare valore per l’azionista. Ma la standing ovation si ottiene solo se la mission dichiarata è creare valore per gli stakeholder: clienti, personale, comunità di riferimento (da cui i recenti accenti sulla corporate social responsibility, sul bilancio sociale). Certamente nel lungo periodo e qualora si miri a un profitto sostenibile, i due aspetti convergono. Ma nel breve no. Nella gestione dei meccanismi organizzativi, che operano nel breve (si pensi solo ai budget economici, agli obiettivi commerciali, ai sistemi incentivanti), non è facile coniugare il profitto con gli interessi degli altri stakeholder. Come agisce a tale proposito UniCredit, che ha esplicitamente scelto di “camminare sul filo del rasoio” dando (pari?) importanza a entrambe le dimensioni?
AP: Vorrei innanzitutto sgombrare il campo da un equivoco che spesso riecheggia quando si discute di corporate social responsibility, ovvero che applicare principi di responsabilità sociale significhi essere “buoni”. Per noi la CSR è funzionale ad accrescere il valore dell’azienda, è una scelta di convenienza economica, non morale. Quando parlo di valore dell’azienda mi riferisco poi a due componenti fondamentali: il profitto, in assenza del quale l’azienda non può sopravvivere, ed un moltiplicatore, che riflette la sostenibilità nel tempo di certi livelli di profitto. Agire nell’interesse di tutti gli stakeholders, senza privilegiarne alcune categorie, è ciò che garantisce la nostra “indipendenza imprenditoriale”, un modus operandi volto a favorire la sostenibilità dei risultati nel tempo.
Fatta questa premessa, riconosciamo comunque l’esistenza di alcuni “dilemmi” nel vissuto quotidiano di tutti noi, nel momento in cui ci troviamo a dover scegliere tra alternative che privilegino una dimensione (il profitto) piuttosto dell’altra (la sostenibilità).
Al fine di fornire una bussola per i comportamenti di tutti i dipendenti (anche del top management) abbiamo elaborato una “Carta dell’integrità”, che contiene un sistema valoriale frutto di una lunga elaborazione e di un diffuso processo di condivisione all’interno dell’azienda. Tra gli aspetti più qualificanti della Carta c’è proprio la declinazione dei singoli valori aziendali sulle diverse categorie di portatori di interesse. Si tratta di uno strumento che tende ad allineare i comportamenti delle nostre persone con lo scopo di aumentare il valore - e non necessariamente il profitto - dell’azienda.
LA RETORICA DEL MANAGEMENT
MDA: Anche la figura del manager va di moda. Da un po’ di tempo a questa parte, la grande maggioranza degli articoli della prestigiosa Harvard Business Review tratta del tema della leadership. In realtà, il lavoro del manager ha un risvolto drammatico. Molto potere e prestigio, ma anche molta responsabilità. Come dice Francois Michelin: “L’esercizio del potere senza responsabilità è dittatura. L’esercizio del potere con le relative responsabilità è servizio” (“Et puorquoi pas?”, 1998, p. 66 dell’ediz. it.). Nella sua attività di comando, qual è stata la decisione più dolorosa che ha dovuto prendere e quale la maggiore soddisfazione?
AP: Le decisioni più dolorose sono sempre quelle che riguardano le persone, in quanto i risvolti emozionali possono a volte essere molto forti. Tuttavia la responsabilità di queste scelte è insita nel ruolo del manager, sarebbe un errore tentare di evitarle. Per quanto riguarda la maggiore soddisfazione... l’auspicio è che debba ancora arrivare.
Leggi la Lectio Magistralis tenuta presso la Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Genova il 5 novembre 2004:
Giugno 2005