Il purpose, ovvero: quale impresa per uno sviluppo sostenibile ed inclusivo?

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10.15167/1824-3576/IPEJM2022.1.1461

Nel loro recente libro Liberalismo inclusivo (Feltrinelli, 2021) Michele Salvati e Norberto Dilmore propongono una periodizzazione in tre fasi, ognuna ricondotta ad una specifica “narrativa”, dello sviluppo dei sistemi economici e politici avanzati a partire dalla seconda rivoluzione industriale: gli anni del liberalismo classico e del laissez faire (1870 – 1914), gli anni del compromesso socialdemocratico (1945 – 1975), gli anni del neoliberismo (1980 - 2008). Ognuna di queste fasi termina con un periodo più o meno lungo di crisi e di transizione che dal “vecchio” porta al “nuovo”: gli anni della crisi del ’29 e della grande depressione tra le prime due fasi, gli anni della stagflazione tra la seconda e la terza fase ed ora, al termine della terza fase, gli anni dell’instabilità e delle crisi sistemiche sull’uscita dai quali gli Autori si interrogano nel libro.

Questa periodizzazione non è concepita banalmente come un percorso lineare che traghetta deterministicamente da una fase all’altra, o come un processo ciclico che riporta la storia a rivisitare fasi già precedentemente vissute. Ogni fase è contraddistinta da un insieme di concezioni socio-politiche convergenti (a metà secolo le “code” del new deal roosveltiano negli USA, il laburismo in Gran Bretagna, la socialdemocrazia nei paesi scandinavi; alla fine del millennio il neoliberismo degli USA di Ronald Reagan e della Gran Bretagna di Margareth Thatcher), di un pensiero economico egemone (quello di Keynes prima, di Milton Friedman e della sintesi neoclassica poi),  di analoghe dinamiche economiche e sociali (prima la crescita economica del dopoguerra con la diffusione del benessere e la riduzione delle disuguaglianze, poi la globalizzazione di fine secolo caratterizzata dall’individualismo e da disuguaglianze crescenti).

Sono la compresenza e la coerenza interna di questi insiemi di condizioni che permettono, pur con possibili varianti ed aggiustamenti di carattere “locale”, di ricondurre queste fasi a “narrative” unitarie, in cui ogni aspetto riconduce all’insieme e l’insieme si spiega e prende senso nei singoli aspetti. Il carattere non deterministico del percorso sconta il fatto che le crisi e le transizioni da una fase all’altra, l’affermarsi di nuove e diverse “narrative” sono il frutto dei processi ma anche delle contingenze della storia: basti pensare a come hanno giocato in Europa nel dopoguerra, nell’innescare la fase del compromesso socialdemocratico, le esigenze della ricostruzione post-bellica e gli aiuti del piano Marshall e a come nel 1973 la crisi petrolifera abbia contribuito a determinare la stagflazione che avrebbe contrassegnato la fine di questa fase.

Venendo ad oggi, la crisi finanziaria e poi economica del 2008 ha posto fine alla fase del neoliberismo e la pandemia Covid 19 ha messo a nudo la natura sistemica dei rischi e delle minacce che gravano sulle economie e sulle società a livello globale. Sostenibilità ed inclusione sono oggi le sfide cui rispondere per assicurare un domani “alla gente ed al pianeta”. Il “vecchio” è in crisi ma il “nuovo” stenta a vedere la luce, e Salvati e Dilmore si chiedono se esistono le condizioni (consapevolezza della gravità della crisi e delle sue origini nelle politiche del neoliberismo, consenso teorico e politico intorno ad una nuova “narrativa” cui orientare gli assetti ed i meccanismi economici e sociali, l’aggregarsi di una coalizione sociale e politica sufficientemente forte e stabile per avviare e consolidare il cambiamento) che possono permettere di superare la crisi del neoliberismo in una direzione progressiva, da loro delineata in termini di “liberalismo inclusivo”.

L’analisi di Salvati e Dilmore è incentrata sui sistemi economici e politici, sul loro cambiamento e sulle relative cause. Al centro dell’analisi ci sono l’evoluzione delle teorie economiche, le dinamiche dello sviluppo economico e sociale, lo scomporsi ed il ricomporsi delle coalizioni sociali e politiche. Gli strumenti concettuali ed analitici utilizzati sono quelli dell’economia e della politica economica, della politologia e della sociologia. I temi della tecnologia, quale determinante e vettore dei processi di cambiamento, e dell’impresa, quale (co)protagonista di questi processi, restano sullo sfondo o ai margini del ragionamento, anche se traspare la rilevanza delle loro caratteristiche e del loro ruolo nel passare da una fase all’altra. Tuttavia è difficile non vedere come abbiano giocato l’imprenditorialità dei “capitani d’industria” nel connotare la fase del liberalismo classico e del laissez faire, le grandi corporations a guida manageriale quella del compromesso socialdemocratico, le imprese della shareholder primacy quella del neoliberismo. Ed è difficile non chiedersi se e come oggi il superamento dello shareholderism e la ricerca di nuove coordinate cui incardinare natura, logiche e finalità delle imprese possano interagire sinergicamente con il configurarsi di una nuova fase di sviluppo sostenibile ed inclusivo.

Superata la fase del capitalismo classico e del “laissez faire”, nel primo trentennio dell’ultimo dopoguerra le public companies USA di cui ci hanno parlato Baumol, Williamson e Marris perseguono funzioni-obiettivo più differenziate rispetto al solo profitto, considerato come condizione per rispondere alle attese dei proprietari ed assicurare la stabilità del controllo ma accompagnato da altri obiettivi, magari legati alle motivazioni ed agli interessi dei managers, quali per esempio l’aumento delle vendite e del saggio di sviluppo. In un contesto fordista ciò significa contributo alla crescita, all’occupazione, alla diffusione del reddito: obiettivi tipici della fase del compromesso socialdemocratico. E d’altra parte le politiche di crescita e di welfare state praticate dai governi in quella fase assicurano condizioni di stabilità della domanda e di consenso che permettono alle imprese di programmare il proprio sviluppo nel medio e lungo termine.

All’affermarsi del neoliberismo ha contribuito la perdita di competitività e di redditività delle public companies USA, irrigidite da logiche di standardizzazione produttiva e legate a politiche di crescita dimensionale, investite dalla pressione degli shareholders sul management per un recupero di redditività e di valore azionario. Il tema è stato teorizzato da Milton Friedman (shareholder primacy) e da Alfred Rappaport (shareholder value), è stato promosso dalla consulenza, è stato cavalcato dalle grandi corporations e dalle imprese multinazionali. L’idea era che le politiche neoliberiste avrebbero favorito il successo delle imprese grazie alla deregolamentazione e che a loro volta le imprese avrebbero contribuito al successo delle idee e delle politiche neoliberiste producendo una ricchezza destinata a tracimare dall’alto al basso della scala sociale e dal centro alla periferia del sistema capitalistico.

La fase del neoliberismo si è esaurita con la crisi prima finanziaria e poi economica del 2008 che ha messo in luce l’incapacità dei mercati ad autoregolarsi, in un quadro in cui intanto si facevano sempre più evidenti le diseconomie e le disuguaglianze generate da politiche aziendali troppo spesso orientate ad estrarre piuttosto che a creare valore, così che sui problemi in gioco nella transizione, richiamati da Salvati e Dilmore, si registra un’ampia convergenza di opinioni. C’è una intrinseca instabilità del capitalismo, da dominare e regolare attraverso l’azione pubblica. Le politiche aziendali producono diseconomie e disuguaglianze sempre meno sopportabili dalla società e dall’ambiente. L’elusione ed evasione fiscale praticate dalle grandi imprese privano gli Stati delle risorse necessarie a far fronte alle loro funzioni tra cui, particolarmente rilevanti oggi, la produzione di beni pubblici come istruzione e salute e di infrastrutture essenziali in campi come la digitalizzazione ed il cambiamento climatico. Lo Stato non può limitarsi ad intervenire quando il mercato fallisce ma deve se mai impegnarsi, di fronte a nuovi bisogni, nella costruzione stessa del mercato. La tecnologia andrebbe orientata in risposta ai bisogni emergenti ed alle grandi sfide sistemiche, ma Big Tech e Big Pharma privatizzano la conoscenza, sviluppano nuove forme di potere e di condizionamento e sfuggono ai tradizionali tipi di regolazione e di controllo. L’immagine e la credibilità delle imprese è pesantemente deteriorata a danno del capitale di fiducia necessario al funzionamento delle relazioni economiche e sociali. Soprattutto, le dinamiche evolutive del sistema comportano un intreccio crescente tra sfera economica e sfera sociale, sempre più interdipendenti, minando alla base l’approccio rigorosamente riduzionista del neoliberismo, che voleva separate la sfera economica e quella sociale: da un lato le imprese impegnate a creare valore e dall’altro lo Stato a far fronte ai problemi sociali.

Qualcosa dunque non ha funzionato nella “narrativa” neoliberista, che troppo spesso si è tradotta in un perseguimento di shareholder value nel breve termine risoltosi nella estrazione di valore a danno del lavoro, delle catene del valore e dei territori, generando diseconomie economiche, sociali ed ambientali, favorendo la concentrazione della ricchezza ed il crescere delle disuguaglianze. Si è così incrinata la fiducia nell’impresa, la cui immagine ha finito per essere compromessa ed il cui ruolo nel sistema economico e sociale ha finito per essere delegittimato.

 

Questa deriva non ha mancato di provocare reazioni volte a recuperare una diversa idea di impresa, da riproporre in quanto attore capace di giocare nel sistema economico e sociale un ruolo utile, di essere portatrice di soluzioni e non generatrice di problemi. Quando Porter e Kramer hanno elaborato il concetto di Shared Value, quando la Business Roundtable ha pubblicato lo Statement on the Purpose of a Corporation 2019, quando il World Economic Forum ha parlato di Stakeholder Capitalism, lo hanno fatto nella prospettiva di una ritrovata capacità del capitalismo di creare anziché distruggere valore. Ad alimentare questa reazione ha contribuito una pluralità di voci provenienti dall’accademia, dalla consulenza, dal business community, dalla finanza. Tra i suoi effetti vanno annoverati da un lato lo sviluppo della finanza e dell’investimento di impatto, che hanno raggiunto livelli particolarmente significativi, e dall’altro quello della comunicazione non finanziaria, che ha visto moltiplicarsi la proposta di indicatori e frameworks (GRI, IIRF) per monitorare gli impatti economici, sociali ed ambientali dell’attività delle imprese.

La crisi della shareholder primacy ha così riaperto, in un primo tempo, spazi per la Corporate Social Responsibility (CSR) e per la Stakeholder Theory, che negli anni del neoliberismo avevano vissuto sottotraccia, ridotte ad un ruolo di mera testimonianza.

Ma la CSR, che avrebbe dovuto incorporarsi nell’impresa come logica costitutiva dei suoi processi decisionali e dei suoi comportamenti al pari dell’economicità, non è poi andata oltre al richiamo ad obbligazioni morali, all’esigenza di legittimazione sociale, ai problemi reputazionali finendo per rappresentare più che altro una istanza di temperamento degli impatti più negativi dello shareholderism. Negli ultimi anni, e con significativi momenti di accelerazione quali l’Agenda 2030 dell’Onu con i suoi 17 SDGs, il tema della CSR si è andato poi incrociando con quello della sostenibilità e della responsabilità delle imprese per gli impatti economici, sociali ed ambientali delle loro attività. Questo ha comportato una crescente consapevolezza della radicalità e criticità dei problemi in gioco per la stessa sopravvivenza “della gente e del pianeta”, senza però esplicitarne le origini nella dinamica dei processi di estrazione del valore.

Per quanto riguarda invece lo stakeholderism va ricordato che la Stakeholder Theory affonda le sue radici negli anni ‘80 del secolo scorso, nei contributi di Freeman e nell’idea che il successo dell’impresa dipenda dalla soddisfazione delle attese di tutti i suoi stakeholders piuttosto che dei soli shareholders. Anche lo stakeholderism però soffre di debolezze che rendono difficile considerarlo come espressione di una “narrativa” dell’impresa incardinata in una nuova fase di sviluppo sostenibile ed inclusivo. Con lo stakeholderism infatti gli stakeholders non sono più considerati come meri strumenti del conseguimento dei risultati economici dell’impresa ma come destinatari dei processi di creazione del valore; tuttavia, come è stato recentemente ribadito da Giorgio Danna (Donna, 2020), senza una finalità sovraordinata, senza una bussola capace di indicare la rotta, l’impresa rischia di rimanere consegnata alla discrezionalità ed all’opportunismo del management.

 

Da limiti di questo tipo non sembra invece gravato il tema, recentemente emergente, del purpose. Il tema per la verità è parso inizialmente richiamare soprattutto il sensemaking di Karl Weick, inteso non come interpretazione ma come produzione della realtà e quindi come atto generativo (Weick, 1995). Il sensemaking dà identità all’impresa, rendendola riconoscibile fuori e dentro i propri confini, determinando sintonia con gli interlocutori esterni e coesione con gli attori interni; esso interagisce con il significato che le persone attribuiscono al proprio lavoro e diventa una chiave fondamentale per riconfigurare, soprattutto in questa fase di transizione digitale, la trama delle relazioni e dei ruoli organizzativi[1].

Questa tensione a restituire all’impresa una finalità positiva e trainante può spiegare l’insistenza con cui nelle lettere annuali ai CEOs il CEO di Black Roch Larry Fink ha ricordato l’esigenza di allineare gli obiettivi di business agli interessi degli stakeholders nell’ambito del perseguimento di un purpose, coerentemente con i principi gestionali che Black Rock suggerisce alle imprese in cui investe.

Sul piano manageriale il purpose è segnalato come la chiave di lettura della crescita esponenziale dei nuovi oligopoli high-tech. Secondo il modello Exponential Organizations (ExO) le Big Tech ispirano i propri business ad un Massive Transformative Purpose (MTP), inteso come espressione sintetica dell’impatto che vogliono avere nel mondo, come guida nella definizione degli obiettivi e delle scelte, come calamita capace di attrarre e trattenere i talenti. (Ismail, 2014 e Derchi, 2022). Andrebbero intesi in questo senso il Belong anyhwhere di Airbnb, il To organize the world’s information di Google, il To give people the power to build community and bring the world closer together di Facebook, anche se sintesi di questo tipo si prestano al rilievo di risolversi in costruzioni tipo Potemkin Village, ovvero artifici illusori per mascherare meno fantasiose realtà (Davis, 2021).

Oltre a tutto poi neppure nel sensemaking e nell’ExO il purpose fa i conti col problema della relazione, negli obiettivi dell’impresa, tra dimensione economica e dimensione sociale. In particolare l’MTP esplicita il ruolo che le Big Tech aspirano ad esercitare, ma nella rapidità e radicalità delle trasformazioni indotte dalle tecnologie, che spiazzano le tradizionali modalità di regolazione e controllo, questo ruolo è frutto di una determinazione autoreferenziale e si traduce in una inedita espressione di potere e di condizionamento.

Peraltro il problema della relazione, negli obiettivi dell’impresa, tra dimensione e economica e sociale era già stato posto esplicitamente nel 2005 da Luciano Gallino quando parlava dell’impresa della shareholder primacy come di una impresa oggettivamente irresponsabile, in quanto impresa che “al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dovere rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività” (Gallino, 2005, p.VII). Questa oggettiva  irresponsabilità si traduce poi in una soggettiva responsabilità verso la società di quelle imprese che perseguono estrazione anziché creazione del valore e che con le proprie attività generano diseconomie e disuguaglianze.

Ciò significa che il carattere di “responsabilità/irresponsabilità” dell’impresa va legato al modello di corporate governance che viene praticato piuttosto che ad una maggiore/minore attenzione agli impatti delle attività aziendali, riconducibile magari a valori e motivazioni soggettivi di azionisti e managers, ma senza che siano messe in discussione le logiche dei comportamenti aziendali (Fioravante e Del Baldo, 2021). In altri termini, il tema della “responsabilità sociale” va affrontato mettendo in discussione il riduzionismo tipico del neoliberismo che separa la dimensione economica e la dimensione sociale, e considerando l’impresa strutturalmente “responsabile” per le diseconomie e le disuguaglianze generate dalla sua attività.

 

E’ proprio rispetto a questo spartiacque che recenti contributi di Colin Mayer (Said Business School, Università di Oxford) da un lato e di Vittorio Coda (Università Bocconi) dall’altro hanno impresso al tema del purpose, sia pure filtrandolo attraverso le esperienze delle grandi corporations USA e UK da un lato e delle medie imprese famigliari italiane, un salto di qualità decisivo[2]. Secondo questi contributi shareholders e stakeholders vanno visti come attori che interagiscono in un gioco di produzione e distribuzione del valore regolato da una finalità sovraordinata, capace di ricomporre la dimensione economica e quella sociale, in cui l’impresa assume a tutto tondo il ruolo di attore sociale.

Secondo Colin Mayer il purpose esplicita i motivi per i quali un’impresa esiste, ovvero la sua “ragione d’essere”, i problemi “della gente e del pianeta” che l’impresa intende affrontare e le risposte produttive, che devono essere economicamente convenienti e non devono essere fonte di diseconomie e disuguaglianze, con cui essa intende risolverli. Per Coda invece scopo dell’impresa è la sopravvivenza dell’impresa stessa in quanto attore vitale del sistema economico e sociale, impegnato in una missione produttiva rappresentata dalla produzione di beni e servizi utili alle persone ed alle comunità secondo la logica del buon governo e della buona gestione, in una prospettiva di perseguimento del bene comune.

Tanto per Mayer quanto per Coda purpose e missione produttiva (termini convergenti sullo stesso concetto) rappresentano l’obiettivo sovraordinato cui finalizzare scelte e comportamenti aziendali, la chiave della ricomposizione della dimensione economica e della dimensione sociale nei processi di produzione e distribuzione del valore. Per Mayer l’impresa deve esistere in funzione del suo purpose e non del profitto che, pur necessario alla sua continuità, non è che una delle manifestazioni del successo nel perseguire il purpose. Coda, rifacendosi ad un “tardo” Freeman, recupera in senso strategico la Stakeholder Theory: la missione produttiva rappresenta la prospettiva a lungo termine entro la quale ricomporre in un sistema unitario l’insieme di obiettivi economici e finanziari, sociali ed ambientali dell’impresa, governandone le relazioni dinamiche nell’ambito della formulazione e dell’implementazione della strategia.

In sostanza tanto Mayer quanto Coda fanno dell’impresa la cornice istituzionale ed organizzativa entro la quale sviluppare un comportamento strategico interpretabile alla luce dello Shared Value di Porter e Kramer, secondo i quali i processi di trasformazione dell’economia e della società generano problemi e bisogni nuovi (per es. nel campo delle energie rinnovabili, della salute, della assistenza agli anziani) cui le imprese possono apportare risposte innovative grazie ai risultati del progresso scientifico e tecnologico. Creare valore condiviso combinando strategia e tecnologia significa quindi per le imprese assicurare congiuntamente benefici a livello sociale ed ambientale e creare valore economico.

Le finalità dell’impresa vengono dunque ricondotte al contributo che l’impresa intende dare alla soluzione dei problemi economici, sociali ed ambientali creando valore per gli shareholders e gli stakeholders, la comunità e la società. E’ a questo contributo che vanno orientate strategie e decisioni operative ed è questo contributo la chiave per risolvere i trade/offs tra interessi eventualmente in contrasto. Ad esso e non allo shareholder value vanno allineati gli interessi di shareholders e stakeholder, gli obiettivi del management, i sistemi di governance e di responsabilizzazione, i sistemi di misurazione delle performance e di incentivazione, i principi, i valori e la cultura aziendale.

Sono denominatori comuni dei contributi di Mayer e di Coda:

  • l’idea che l’impresa sia un attore sociale, la cui legittimità e cittadinanza dipende dalla capacità di contribuire al bene comune, fornendo risposte produttive economicamente convenienti e utili ai bisogni “della gente e del pianeta” senza generare diseconomie e disuguaglianze;
  • la consapevolezza dell’esigenza di un cambio di paradigma in tema di impresa, superando il riduzionismo neoliberista e ricomponendo la dimensione economica e la dimensione sociale in una prospettiva di vitalità dell’impresa nel lungo termine;
  • l’individuazione come “stella polare” che deve guidare la rotta dell’impresa di un obiettivo sovra-ordinato cui ricondurre strategie e comportamenti aziendali, integrandovi le responsabilità economiche e sociali della gestione.

A queste indicazioni può valere la pena di aggiungere alcune sottolineature ricavabili dai contributi di Colin Mayer e della British Academy:

  • il purpose non deve essere definito né in termini banalmente descrittivi né irrealisticamente ambiziosi; deve esprimere la ragione per la quale l’impresa è stata creata e ciò che aspira a diventare; esplicita in termini necessariamente astratti come l’impresa intende interpretare la propria funzione distintiva ma trovando espressione concreta nella progettazione di una efficace value proposition;
  • il purpose esprime il contributo che l’impresa si propone di apportare al raggiungimento di interessi pubblici ed alla soluzione di problemi sociali ed ambientali; ciò fa dell’impresa un attore sociale ma non un’impresa sociale: la sua funzione distintiva rimane quella di offrire ai problemi “della gente e del pianeta” soluzioni produttive economicamente convenienti, sia pure qualificate sul piano della sostenibilità e della responsabilità sociale.

Esse infine possono essere integrate da una considerazione finale:

  • come ricorda Lorenzo Caselli, nella vita dell’impresa la dimensione etica “non è un di più” (Caselli, 2020). Essa anzi è connaturata alla ricomposizione nel purpose della dimensione economica e di quella sociale, degli interessi di shareholders e di stakeholders, delle istanze della comunità e del territorio. Risolvendo problemi e soddisfacendo bisogni “della gente e del pianeta” senza generare diseconomie e disuguaglianze, attraverso una creazione di valore generativa e sostenibile, l’impresa concorre al bene comune, trova senso per quello che è e dà senso a quello che fa. Se come dice ancora Caselli il comportamento etico è quello coerente “con principi e valori che si pongono come antecedenti logici dell’azione” (Ibidem) il purpose risponde a questa esigenza scontando per la propria implementazione non solo l’attivazione di appropriati sistemi di management ma anche la diffusione di un coerente quadro di valori cui ispirare scelte e comportamenti aziendali.

 

Con questi contributi si delinea dunque una svolta radicale rispetto al paradigma dello shareholder primacy, ma occorre anche chiedersi se si tratta di elementi sufficienti per una riconcettualizzazione dell’impresa capace di integrarsi compiutamente nella “narrativa” di una nuova fase di sviluppo sostenibile ed inclusivo. In realtà la prospettiva del purpose non è esente da criticità ed interrogativi, la risposta ai quali oltre a tutto va declinata in rapporto ad una pluralità di fattori quali la dimensione dell’impresa (grande o piccola), la natura della proprietà e del controllo, la sua capacità di condizionamento dell’economia e della società, la rilevanza dei suoi impatti esterni. Si tratta in particolare di criticità e interrogativi che possono essere ricondotti a tre rischi che si configurano intorno alle dinamiche del purpose: rischi di unilateralità, di autosufficienza e di autoreferenzialità.

I rischi di unilateralità riguardano la legittimazione a definire il purpose dell’impresa; a chi ed in quale quadro di regole spetta tale compito[3]?

Da questo punto di vista si possono in realtà distinguere una pluralità di casi. Nelle imprese nascenti per esempio la definizione del purpose è intrinseca al progetto imprenditoriale in base al quale si dà vita all’impresa. Coda invece, facendo riferimento a quella media impresa italiana a controllo familiare la cui buona gestione è legata alla presenza di imprenditori lungimiranti, animati da una forte componente valoriale e da una idea chiara della missione produttiva da perseguire, ne considera la scelta e la salvaguardia compito della compagine imprenditoriale/famigliare. Infine Mayer e la British Academy, a proposito di imprese consolidate e a capitale ”aperto”, affidano al Board il compito di definire il purpose ed alla proprietà, se attiva, la responsabilità di  concorrere alla sua definizione e di supportarne l’implementazione. 

Inoltre quando sul governo dell’impresa si scaricano interessi ed attese differenziati di una pluralità di shareholders e di stakeholders si pongono problemi relativi alla struttura del Board (a uno o più livelli?) ed alla sua composizione (membri indipendenti o portatori di specifici interessi?). Gli interrogativi cui rispondere riguardano allora chi, e sulla base di quali criteri e di quali regole, è legittimato a designare i componenti del Board, e più in generale se il Board vada concepito come una sede in cui mediare tra interessi ed attese di shareholders e stakeholders o in cui ricomporli in una sintesi capace di valorizzarli nell’interesse dell’impresa.

Sullo sfondo del dibattito si delineano temi di democrazia economica, con richiami alle esperienze europee in tema di cogestione e di rappresentanza dei lavoratori negli organi di governo dell’impresa (Davis, 2021; Patriotta, 2021), ma allora ci si può chiedere perché rappresentare in questi organi solo i lavoratori e non anche altri stakeholders di volta in volta rilevanti, quali per esempio le comunità locali o le istituzioni pubbliche.

In ogni caso la definizione del purpose, comunque organizzata e regolata, si qualifica come il momento fondamentale dell’autonomia dell’impresa e del suo governo, e non dovrebbe essere sottoposta a limiti a patto di non implicare ricadute dannose su interessi individuali e collettivi. Da questo punto di vista assumono rilievo tanto l‘esigenza sottolineata da Mayer, ai fini della trasparenza e del controllo, che il purpose venga chiaramente esplicitato e formalizzato a cura del Board quanto, è sempre Mayer che lo ricorda, le normative di regolazione di settori ritenuti “sensibili” (come per esempio public utilities, banche, e simili), le leggi in tema di tutela del lavoro e dell’ambiente, gli strumenti e le politiche per il controllo di poteri e capacità di condizionamento vecchi e nuovi.

Ciò tuttavia non sottrae il purpose ad ulteriori criticità ed interrogativi, relativi a rischi che si configurano sul piano della autosufficienza e della autoreferenzialità.

Il rischio di autosufficienza riguarda la possibilità che il purpose venga a perdere la vitalità necessaria ad esprimere la propria funzione distintiva (risolvere in termini di convenienza economica problemi “della gente e del pianeta”, senza generare diseconomie e disuguaglianze). In proposito è stato osservato (Davis, 2021) che nello shareholder capitalism le grandi imprese sono sottoposte dai mercati finanziari e dai sistemi di corporate governance ad una spinta costante verso lo shareholder value, col rischio che il purpose venga riassorbito nella vecchia logica e si riduca ad essere un mero strumento di window dressing. Da questo punto di vista è evidente che per “garantire” il purpose non bastano le motivazioni soggettive o la buona volontà di azionisti e managers: servono sistemi di corporate governance e di corporate reporting, di misurazione delle performances e di incentivazione allineati al purpose piuttosto che allo shareholder value, servono mercati finanziari ed investitori forti attenti alla creazione di valore nel lungo termine ed al rispetto dei criteri ESG, e servono norme e regole pensate per contrastare la produzione di diseconomie e disuguaglianze.

Circa invece il rischio di autoreferenzialità va innanzitutto ricordato che secondo Mayer qualunque purpose, purché implichi una risposta utile a problemi “della gente e del pianeta” senza comportare diseconomie e disuguaglianze, si risolve in ogni caso in un miglioramento dei livelli di benessere e di prosperità. Esso sarebbe quindi comunque vantaggioso, salvo produrre risultati variabili tra il massimo profitto senza generazione di diseconomie e disuguaglianze ed il massimo beneficio sociale con la redditività minima soddisfacente per gli shareholders (Mayer, 2021).

E’ tuttavia possibile che purposes pur complessivamente vantaggiosi risultino però disallineati rispetto ai temi dello sviluppo sostenibile ed inclusivo, limitando così il contributo del sistema produttivo al perseguimento di obiettivi di interesse generale. Ciò può per esempio essere il frutto di limiti nel quadro delle capacità e delle competenze delle imprese e  degli incentivi che possono sollecitarne il contributo  nella risposta alle nuove sfide; e d’altra parte oggi le grandi sfide della transizione ecologica, della transizione digitale, delle emergenze sanitarie tendono ad eccedere le capacità di risposta del mercato non solo per il livello di incertezza e di rischio che grava sulle innovazioni necessarie, ma anche perché queste innovazioni hanno carattere non solo tecnologico ma anche organizzativo, sociale, politico e richiedono quindi una mediazione anch’essa eccedente i meccanismi del mercato.

A questo proposito va però tenuto presente che l’autoreferenzialità delle imprese si gioca entro un quadro che non è necessariamente dato ma sul quale è invece possibile intervenire per determinarne opportunità e convenienze, e che l’allineamento del purpose rispetto a finalità ed interessi di carattere generale può essere promosso attraverso azioni pubbliche di accompagnamento, partnership, regolazione e guida (Patriotta, 2021).

Da questo punto di vista possono giocare un ruolo rilevante:

  • l’attenzione, la sensibilità, le pressioni dell’opinione pubblica intorno ai temi della sostenibilità e dell’inclusione;
  • l’adozione di obiettivi e di politiche di governo finalizzati alla sostenibilità ed all’inclusione, al contrasto ai grandi rischi ed alla risposta alle grandi sfide (transizione climatica ed ambientale, transizione tecnologica e digitale, pandemie e minacce per la salute);
  • la promozione di partnership pubblico/privato costruite intorno a grandi missioni pubbliche e a nuovi tipi di agenzie/imprese pubbliche progettate per contrastare i grandi rischi e rispondere alle grandi sfide;
  • la diffusione di una cultura aziendale e di strumenti gestionali nuovi appropriati per organizzazioni purpose oriented.

In particolare vale la pena di ricordare, con riferimento al penultimo punto, alcuni recenti contributi di Mariana Mazzuccato e Massimo Florio. Secondo Mazzuccato infatti i processi di crescita sono caratterizzati non solo da un tasso ma anche e soprattutto da una direzione, per orientare la quale sono decisivi il ruolo dello Stato e delle partnership pubblico/privato: uno Stato non indebolito ed impoverito dalle politiche del New Public Management ma dotato di risorse, competenze, strutture, strumenti appropriati per attivare in chiave progettuale le “missioni” con cui affrontare le grandi sfide dell’ambiente, dell’energia e della salute, e partnership pubblico/privato non giocate in chiave di supporto passivo alle convenienze ed agli interessi privati ma concepite come ambiti di sviluppo di conoscenze e soluzioni innovative e di co-creazione di valore pilotate da uno scopo comune. E’ intorno a queste finalità che vanno articolate le missioni, la co-creazione del valore, il senso della crescita, il purpose delle imprese (Mazzuccato, 2021).

Massimo Florio invece osserva che la conoscenza oggi nasce come bene pubblico finanziato dallo Stato e generato dagli Enti pubblici di ricerca, circola secondo logiche di open source e finisce per essere appropriata da imprese che privatizzano risultati e vantaggi economici (Florio, 2021). Per contrastare queste tendenze occorrerebbe invece attivare, quando necessario a livello internazionale, agenzie pubbliche con le caratteristiche delle grandi infrastrutture di ricerca orientate da “missioni” a lungo termine come la salute, il cambiamento climatico ed il governo dei dati, ma operanti lungo l’intero ciclo della produzione e dell’utilizzo della conoscenza: dalla ricerca di base alla ricerca applicata ed alle soluzioni produttive immediatamente fruibili[4]. Intorno a queste agenzie potrebbero poi svilupparsi partnership, joint ventures, commesse per forniture innovative, coinvolgendo imprese private sulla base di una chiara condivisione del purpose.

 

In conclusione, le criticità e gli interrogativi che si pongono intorno all’impresa come organizzazione purpose oriented non sono pochi e non sono da poco. In particolare vale la pena di osservare come il successo del nuovo paradigma sia legato al configurarsi, in direzioni coerenti con la prospettiva di uno sviluppo sostenibile ed inclusivo, di una pluralità di fattori relativi alle dinamiche evolutive dell’economia e della società quali il coagularsi intorno a questa prospettiva del consenso dell’opinione pubblica, di coalizioni maggioritarie di forze sociali e politiche, degli indirizzi di governo in tema regolazione, intervento pubblico e politiche di investimento.

Si tratta sostanzialmente delle condizioni che Salvati e Dilmore indicano come necessarie per il diffondersi ed il consolidarsi di una nuova forma di liberalismo inclusivo, e da questo punto di vista si delinea il riprodursi della corrispondenza biunivoca tra paradigma di impresa e assetto dell’economia e della società già osservato con riferimento alle precedenti fasi di sviluppo. L’impresa purpose oriented può infatti trovare spazi in una società ed una economia sensibili ai temi della sostenibilità e dell’inclusione ed in un quadro di regole, norme, politiche ed attori pubblici capaci di orientare le scelte ed i comportamenti in questa direzione. Per parte sua l’impresa purpose oriented può concorre al successo di una prospettiva di sviluppo sostenibile ed inclusivo con le sue scelte ed i suoi comportamenti, fornendo ai problemi della gente e del pianeta soluzioni utili ed economicamente convenienti senza generare diseconomie e disuguaglianze.

In tutto questo, nei processi e nelle contingenze che condizionano da un lato le prospettive dello sviluppo sostenibile ed inclusivo e dall’altro la praticabilità dell’impres,a purpose oriented, non c’è naturalmente nulla di deterministicamente scontato. E’ tuttavia evidente, per quanto riguarda specificamente gli aziendalisti, lo spazio che si apre per un loro specifico contributo allo sviluppo ed alla diffusione delle conoscenze necessarie per alimentare questa prospettiva. Si tratta di mettere a fuoco e validare, attraverso la riflessione e la sperimentazione, nuovi modelli teorici e nuovi strumenti operativi appropriati, farne oggetto di formazione nelle Università e nelle business school, trasmetterli al management, alla consulenza ed alla business community, promuoverne la diffusione nella vita delle imprese.

 

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Il n.1/2022 di Impresa Progetto presenta ai lettori, in tutte le Sezioni della Rivista, un quadro ricco di contenuti e di stimoli.

La Sezione dei saggi referati ospita quattro papers che presentano analisi di particolare interesse ed attualità.

Nel primo (L’innovazione del modello di business nelle microimprese tradizionali attraverso il supporto esterno) Costantini, Vedovato e Paladini presentano uno studio di caso, relativo al progetto Venice Original, che mette in luce come l’attività di consulenza e di fornitura di servizi realizzata da una associazione di categoria si sia risolta in un processo di rinnovamento strategico nell’ambito di un tessuto di imprese artigiane, con effetti di sviluppo del capitale sociale e relazionale, di introduzione di nuovi prodotti e di apertura di nuovi canali distributivi, coniugando al contempo tradizione ed innovazione.

Nel secondo (Le donne nella professione contabile: un’analisi empirica delle competenze digitali) Macchioni, Fiondella e Santonastaso, basandosi sull’esame di oltre 6000 profili Linkedin, rilevano come nell’ambito della professione contabile ci sia una limitata presenza di competenze digitali avanzate e che questi limiti riguardino più le donne che gli uomini. Tali risultati suggeriscono l’opportunità di interventi formativi specificamente finalizzati ad ovviare a tali criticità.

Nel terzo (Growing brand ambassadors: The role of affective commitment, person-organization fit and networking behaviors in the context of alumni networks) Aliberti, Bissola, Imperatori e Mochi,  elaborando informazioni sui dipendenti di due imprese ad elevata intensità di conoscenza, esplorano il ruolo che gli incontri informali e la propensione al networking possono giocare nel valorizzare gli atteggiamenti positivi del personale verso la propria organizzazione e nell’accreditarla come valida sede di lavoro. Ciò può suggerire politiche di gestione delle HR, come l’attivazione di “alumni networks”, volte a migliorare l’immagine e l’attrattività dell’organizzazione.

Nel quarto Nataloni e Pilati (“Nothing is created, nothing is destroyed, everything is transformed”: a study on the Covid Manager identity-seeking process), prendendo spunto dalla attivazione nelle imprese della figura del Covid Manager, incaricato del coordinamento delle misure di prevenzione e controllo interne e delle relazioni con le strutture del sistema sanitario, delineano attraverso una ricerca basata su interviste semistrutturate le responsabilità, le competenze hard e soft, gli stili di leadership  e le relazioni che caratterizzano questo nuovo ruolo organizzativo. 

La Sezione dedicata ai contributi si apre poi con una sorta di “dialogo a distanza” tra alcuni interlocutori particolarmente accreditati che riflettono, affrontandoli con strumenti concettuali e metodologici che spaziano dall’aziendalismo all’economia, dalla sociologia alla filosofia, intorno ad importanti problemi di carattere valoriale ed etico emergenti in questa fase di transizione. Vittorio Coda e Antonio Calabrò si misurano col tema oggi dominante dell’incertezza: l’uno  (Coda, Governare l’incertezza) rileva l’esigenza di governarla liberando energie positive a livello individuale e collettivo, nei territori e nelle imprese, nell’ambito di progetti di sviluppo integrale finalizzati al bene comune, e l’altro (Calabrò, Nuova cultura politecnica per la twin transition ambientale e digitale) la declina in rapporto alle transizioni digitale, ambientale, sociale che esigono anche dalle imprese cambi di paradigma e nuovi modelli culturali. Secondo Calabrò le Digital Humanities, la contaminazione tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, una originale cultura politecnica sono chiavi privilegiate per affrontare il futuro e aprono spazi in cui l’Europa e l’Italia possono essere protagoniste. Lorenzo Caselli (Un’altra economia è possibile) affronta invece il tema del necessario “cambio di paradigma” a partire dall’esigenza di ricomporre dimensioni economiche, sociali, politiche, morali che l’ideologia neo-liberista aveva parcellizzato e frantumato, e di ricomprendere l’etica come componente costitutiva di una razionalità sottratta al mero calcolo economico. L’economia va riconnessa alla persona ed alla società ed agganciata ai valori etici alla luce della ricerca di senso e di solidarietà.  Il problema della “ricomposizione” ritorna infine nel contributo che Giovanni Maria de Simone (Sul senso del lavoro: dall’economia del valore all’economia del bene) dedica al lavoro in quanto attività umana. Che questa si esprima in termini di creatività, innovazione, leadership, organizzazione, tecnologia il lavoro ha senso solo se è finalizzato al bene comune, che è inclusivo, piuttosto ad un valore che sia tale solo per qualcuno.

La Sezione dei contributi è poi completata da altri due interventi.  Nel primo Francesco Derchi (Tales from the disruption world), dopo aver preso in esame gli effetti disruptive delle tecnologie digitali attingendo esempi dal settore dell’Ospitalità e del Turismo, introduce gli strumenti concettuali ed i modelli analitici, riconducibili al paradigma delle Exponential Organizations (ExO), necessari per comprendere la natura e la crescita di tipo esponenziale delle nuove grandi imprese High Tech, che hanno rapidamente acquisito una posizione dominante nello  scenario internazionale.

Nel secondo (Le zone economiche speciali per l’internazionalizzazione delle imprese italiane) Benevolo, Spinelli e Hansen, dopo aver presentato le tipologie, le caratteristiche, le finalità delle Special Economic Zones ed aver discusso le determinanti della loro attrattività, si focalizzano sull’Emirato di Dubai e sui benefici conseguibili dalle imprese che stabiliscono una presenza in quel territorio.

Nella Sezione dedicata alle Recensioni e Riflessioni Luigi Maria Sicca invita alla lettura di La voce artificiale. Un’indagine media-archeologica sul computer parlante di Domenico Napolitano. La voce artificiale come semplice assistente vocale, come sintesi sonora in aiuto a persone con disabilità (e qui pensiamo subito a Stephen Hawking), o come oggetto separabile dall’uomo, manipolabile e manipolatore? Le tecnologie vocali come nuovo capitolo delle interazioni (e contaminazioni) uomo-macchina, fino alla riconfigurazione delle dinamiche relazionali e delle modalità comunicative? Sicca ci porta così ad intravedere i tanti piani e le tante direzioni dell’esplorazione che Napolitano ha condotto su questo tema.

Infine, l’Ospite di questo numero è Fabio Fraticelli, Chief Operating Officer di TechSoup Italia ed esperto dei processi di trasformazione digitale nel settore non profit, intervistato da Terry Torre. Dopo aver richiamato la rete globale di partners di cui TechSoup Italia fa parte ed averne descritto l’attività finalizzata ad accompagnare le organizzazioni non profit nel percorso di trasformazione digitale, Fraticelli ne mette in luce la strategia, la logica ed i benefici apportati agli operatori del Terzo Settore, soprattutto con riferimento all’apporto di servizi consulenziali personalizzati sui  fabbisogni della singola organizzazione. Di particolare interesse i cenni al valore, nell’esercizio delle attuali funzioni, delle conoscenze e competenze maturate nella precedente esperienza universitaria.

Buona lettura!!!

 

Riferimenti bibliografici

 

Bissola, R., Cori, E., Mizzau, L. & Torre, T. (a cura di) (2021). Searching for meaning and purpose in human action. Work and working context. Impresa Progetto. Electronic Journal of Management, n.3.

Caselli, L. (2020). L’etica non è un di più. Impresa Progetto. Electronic Journal of Management, n.3.

Celli, P.L. (2021). Lezioni per imprese nostalgiche del futuro. ESTE: Milano.

Coda, V. (2020). Lo scopo dell’impresa. Impresa Progetto. Electronic Journal of Management, n.3.

Coda, V. (2021). Il buon governo dell’impresa tra stabilità e dinamismo. Milano: EGEA.

Davis, G.F. (2021). Corporate purpose needs democracy. Journal of Management Studies, 58(3), 902-913.

Derchi, F. (2022). Tales from the disruption world. Impresa Progetto. Electronic Journal of Management, n.1.

Donna, G. (2020). La “buona causa” dell’impresa. Impresa Progetto. Electronic Journal of Management, n.3.

Fioravante, R. & Del Baldo, M. (2021). Capitalism with a purpose: Can business ethics fight inequality?. Postmodern Openings, 12(1Sup1), 182-199.

Florio, M. (2021). La privatizzazione della conoscenza. Bari-Roma: Laterza.

Gallino, L. (2005). L’impresa irresponsabile. Torino: Einaudi.

Ismail, S. (2014). Exponential Organizations: Why new organizations are ten times better, faster, and cheaper than yours (and what to do about it). New York: Diversion Books.

Mayer, C. (2018). Prosperity. Better Business Makes the Greater Good. Oxford: Oxford University Press.

Mayer, C. (2021). The future of the corporation and the economics of purpose. Journal of Management Studies, 58(3), 887-901.

Patriotta, G. (2021). The future of the corporation, Journal of Management Studies, 58(3), 879-886.

Mazzuccato, M. (2021). Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo. Bari-Roma: Laterza.

Salvati M. & Dilmore N. (2021). Liberalismo inclusivo. Milano: Feltrinelli.

The British Academy, Future of the Corporation, https://www.thebritishacademy.ac.uk/programmes/future-of-the-corporation/

Weick, K.E. (1995). Sensemaking in organizations. Sage Pubblications: Thousand Oaks, CA.

 

[1] Recenti contributi in questo senso sono stati forniti nello Special Issue di Impresa Progetto Searching for meaning and purpose in human action. Work and working context (n.3/2021) e da Pier Luigi Celli (2021).

[2] Colin Mayer ha contribuito all’elaborazione del tema del purpose con Prosperity (2018), pilotando il progetto Future of the Corporation della British Academy (i documenti del progetto sono accessibili in rete) e con interventi su riviste ed in seminari scientifici tra cui The Future of the Corporation and the Economics of Purpose (2021), oggetto del Point-Counterpoint pubblicato sul Journal of Management Studies. Vittorio Coda a sua volta ha affrontato il tema intervenendo con il suo contributo Lo scopo dell’impresa nel dibattito sui I fini e la natura dell’impresa: una frontiera in divenire ospitato su Impresa Progetto (n. 3/2020), ed ha poi sviluppato il tema nella recente pubblicazione Il buon governo dell’impresa tra stabilità e dinamismo (2021), in cui si è avvalso anche dei risultati delle ricerche promosse dall’Istituto per i Valori dell’Impresa (ISVI).

[3] A tali rischi ci si potrebbe riferire chiedendosi, come fa Davis, perché dovrebbe essere un Board eletto dagli shareholders a decidere qualcosa di così importante come il purpose di imprese che con la propria azione investono interessi che vanno ben oltre a quelli degli  shareholders (Davis, 2021).

[4] Nel delineare la sua proposta Floro si ispira ai modelli di grandi organizzazioni come CERN ed ESA.