Nuove sfide per le Start Up e per l’ecosistema dell’innovazione
Le ricerche presentate al Convegno su “Corporate Entrepreneurship e Open Innovation: innovare con un occhio alle startup!”, organizzato dal Politecnico di Milano e svoltosi il 30 novembre 2017[1], e la Relazione 2017 del Ministero dello Sviluppo Economico sull’attuazione delle politiche di sostegno alle Start Up ed alle PMI innovative, presentata a Roma il 19 dicembre[2], hanno messo a disposizione degli operatori e degli studiosi importanti elementi di informazione e di valutazione sulle prospettive evolutive del sistema produttivo del Paese.
La Relazione del MiSE fornisce il quadro delle Start Up e delle PMI innovative iscritte negli appositi Registri alla data del 30 giugno 2017, aggiornandolo in alcuni casi a fine anno; essa inoltre documenta i risultati delle politiche di sostegno previste dal Decreto Legge 179/2012 (Decreto Crescita 2.0).
Dalla Relazione emerge una significativa crescita delle Start Up e delle PMI innovative. Il numero delle prime tra marzo 2013 e dicembre 2017 è passato da 544 a 8.315, con una dinamica che non ha avuto interruzioni. La loro presenza è più forte in Lombardia (1.936 unità di cui 1.207 solo a Milano), Emilia Romagna (862), Lazio (813), Veneto (754) e Campania (616), con una diffusione che solo in parte riproduce i tradizionali modelli di distribuzione territoriale delle attività produttive. Le PMI innovative (che si sono aggiunte alle Start Up innovative col Decreto Legge 3/2015) sono invece passate, anch’esse con una crescita costante, dalle 49 del settembre 2015 alle 705 del dicembre 2017. La forza lavoro complessivamente impiegata in queste imprese viene stimata, tra soci e dipendenti, in 46.107 unità; dai Bilanci del 2016 si rileva inoltre che il loro fatturato ha superato i 2 miliardi di Euro, con una crescita notevole non solo del fatturato complessivo ma anche di quello medio per impresa.
Accanto a questi dati quantitativi la Relazione fornisce anche alcune valutazioni di carattere qualitativo: rispetto ad altre società di nuova costituzione le Start Up innovative sono imprese con imprenditori più giovani, investono di più soprattutto in immobilizzazioni immateriali, generano più valore, sono più presenti nei settori economici più innovativi. La Relazione inoltre nota che “il tasso di sopravvivenza delle start up innovative è ancora relativamente elevato”: solo il 6,4% delle imprese costituite nel 2014 e circa in 10% di quelle iscritte prima del 2013 ha cessato l’attività (non si può peraltro non osservare che, nel caso delle Start Up, un modesto tasso di mortalità non è necessariamente un riscontro positivo in quanto potrebbe segnalare comportamenti di “fuga” dal rischio poco compatibili con la natura di queste imprese).
Sembra dunque legittimo un giudizio positivo sui risultati delle politiche degli ultimi anni in tema di creazione di impresa, e si può condividere la valutazione del Ministro Calenda che nella sua Premessa alla Relazione osserva che “le start up e le PMI innovative…non sono più considerabili una realtà di nicchia”.
La crescita del sistema delle Start Up evidenziata dalla Relazione viene confermato anche da alcuni risultatati delle ricerche presentate al Convegno del Politecnico di Milano, ed in particolare dall’aumento degli investimenti in Equity nel loro capitale che passano da 217 mln€ a 261 mln€ (+20%). E’ vero che tale dato nasconde un decremento degli investimenti degli attori formali (fondi di Venture Capital indipendenti, fondi di Corporate Venture Capital e Finanziarie Regionali) più che compensato però dall’incremento degli investimenti degli attori informali (Business Angels, piattaforme di Equity Crowdfunding, incubatori, aziende, famiglie) e soprattutto degli attori internazionali, formali ed informali. Al di là dei problemi che emergono dall’analisi del contributo dei diversi attori (in particolare la debolezza del Venture Capital nazionale), resta comunque il fatto che questi investimenti dopo essere rimasti stagnanti intorno ai 120 mln€ annui dal 2012 al 2014 nei tre anni successivi hanno più che raddoppiato la propria consistenza rivelando una aumentata attrattività delle Start Up italiane, anche e soprattutto agli occhi degli investitori stranieri. Altre rilevazioni incoraggianti di queste ricerche riguardano poi la propensione delle Start Up all’internazionalizzazione (più fatturato e più sedi all’estero) ed alla collaborazione con imprese consolidate.[3]
In tema di Start Up sembra dunque delinearsi un quadro promettente che va tuttavia ricollocato, ai fini di una migliore valutazione, in una prospettiva più generale. Lo fa d’altra parte lo stesso Ministro Calenda, nella sua Premessa alla Relazione, quando accenna a dimensioni di questo sistema ancora lontane “da benchmark internazionali”, ed ai problemi di finanziamento legati alla debolezza dell’apporto del Venture Capital italiano, “ancora modesto rispetto ai risultati raggiunti da altre economie europee”.
Dal punto di vista del posizionamento del nostro sistema di Start Up nel quadro internazionale una indicazione, indiretta ma efficace, è ricavabile dal Global Startup Ecosystem Report 2017[4]. Il Global Startup Ecosystem Report censisce annualmente i principali sistemi territoriali di Start Up mettendone in luce le caratteristiche costitutive, i meccanismi ed i fattori di successo, le fasi che ne contraddistinguono i percorsi di sviluppo. Esso inoltre presenta un ranking dei primi 20 Startup Ecosystems, costruito classificandoli in base alle performance di sviluppo, alla capacità di funding, all’apertura sui mercati, alla attrattività dei talenti ed alla startup experience (cioè alla conoscenza ed alla padronanza dei meccanismi di funzionamento delle Start Up negli ecosistemi). Questo ranking rappresenta dunque un significativo elemento di conoscenza della gerarchia e della distribuzione territoriale degli Start Up Ecosystems, permettendo di seguirne anno dopo anno l’evoluzione.
E’ quindi particolarmente significativo che questa rilevazione non abbia intercettato nessuna area territoriale del nostro Paese. Secondo la classifica 2017 i primi 20 Start Up Ecosystem a livello globale sono, nell’ordine: Silicon Valley, New York, Londra, Pechino, Boston, Tel Aviv, Berlino, Shangai, Los Angeles, Seattle, Parigi, Singapore, Austin, Stoccolma, Vancouver, Toronto, Sidney, Chicago, Amsterdam, Bangalore. Si tratta di 10 ecosistemi nord-americani (USA e Canada), 4 asiatici, 4 europei, uno mediorientale (Tel Aviv) ed uno australiano. New Entries di questo elenco sono Pechino, Shangai e Stoccolma; ne sono invece uscite Montreal, Mosca e San Paolo. Il dato nord-americano conferma come la concentrazione territoriale pesi nello sviluppo dei processi innovativi; l’ingresso di Pechino e Shangai conferma il prepotente emergere della Cina anche nella geografia dell’innovazione; Italia e Giappone, pure due tra i principali paesi industriali a livello mondiale, non rientrano invece in questo quadro. L’Italia in particolare non è presente neppure tra le aree considerate promettenti in prospettiva, che per l’Europa sono Barcellona, l’Estonia, Francoforte, Helsinki, Gerusalemme, Lisbona, Malta e Mosca.
Pur senza considerare il Global Startup Ecosystem Report un benchmark indiscutibile[5], le indicazioni che ci fornisce rappresentano comunque un robusto campanello d’allarme circa il valore del nostro sistema di Start Up: il numero delle Start Up innovative aumenta, ma la scala del sistema è ben lontana da quelli più evoluti.
Il Report 2017 approfondisce in particolare tre aspetti: la concentrazione del fenomeno[6], la connettività globale come fattore di successo[7], il fattore tempo nel successo di un ecosistema. Si tratta di aspetti di particolare interesse perché indicano un possibile limite capace di penalizzare le prospettive delle Start Up del nostro Paese: il Report infatti osserva che il tempo necessario per sviluppare un ecosistema di successo può andare da 10 a 20 anni, mentre nel nostro paese politiche attive di promozione delle Start Up datano da fine 2012. C’è dunque un ritardo da recuperare nei confronti dei sistemi più evoluti, ma se lo sviluppo pregresso facilita la crescita degli ecosistemi, per gli ecosistemi più giovani e più piccoli recuperare il ritardo sembrerebbe una scommessa persa in partenza.
Un ulteriore limite sembra poi configurarsi anche con riferimento ai problemi del finanziamento delle nostre Start Up ed in particolare alla debolezza del Venture Capital.
Anche intorno a questo problema tanto la Relazione del MiSE quanto le ricerche del Politecnico di Milano documentano un quadro che, a parte il dato sul Venture Capital, non è privo di aspetti positivi. Tanto gli strumenti pubblici previsti per il sostegno delle Start Up e PMI innovative (il Fondo di Garanzia per le PMI, la finanza agevolata di Smart & Start Italia, gli incentivi fiscali agli investimenti in Equity[8]) quanto quelli attivati autonomamente nel sistema (come le piattaforme di Equity Crowdfunding e gli interventi dei Business Angels) hanno animato la scena e permesso un crescente afflusso di capitali al sistema delle Start Up.
In quattro anni, grazie al Fondo di Garanzia, 1.661 Start Up e PMI innovative hanno ricevuto finanziamenti per 573 mln€; Smart & Start Italia con una dotazione complessiva di 266 mln di euro ha permesso di approvare finanziamenti per 144,5 mln di euro (di cui però solo 14,6 mln erogati); gli incentivi fiscali hanno mobilitato investimenti in Equity per 25,85 mln di euro nel 2013, per 41,6 mln nel 2014 e per 82,3 nel 2015. Le piattaforme di Equity Crowdfunding , i Business Angels ed attori simili hanno assicurato in questo periodo un volume crescente di investimenti: 57 mln di euro nel 2014, 71 mln nel 2015, 81 mln nel 2016 e 89 mln nel 2017. Già si è detto dell’andamento stagnante degli interventi del Venture Capital nazionale, importanti soprattutto per supportare le Start Up nelle fasi successive al seed.
Anche in questo caso però si tratta di dati che vanno meglio apprezzati ricollocandoli nel quadro internazionale, ed anche da questo punto di vista il gap tra l’Italia e gli altri Paesi, segnalato dai diversi Osservatori che seguono il fenomeno, si rivela preoccupante.
Secondo Atomico dal 2012 al 2017 gli investimenti di Venture Capital sono ammontati a 0,6 mld di dollari in Italia, a fronte dei 18,7 miliardi di dollari nel Regno Unito, degli 11,4 miliardi in Germania, dei 9,0 mld in Francia, dei 4,4 mld in Svezia, e così via. Dealroom indica valori diversi che però non cambiano il posizionamento gerarchico dell’Italia ed inoltre segnala un allargamento del gap tra il nostro ed altri Paesi come Francia e Spagna. Secondo EBAN nel 2016 gli investimenti dei Business Angels sono ammontati in Italia a 14,1 mln€, a fronte dei 98,0 mln nel Regno Unito, dei 66,0 mln in Spagna, dei 53,0 mln in Finlandia, dei 51,0 mln in Germania, e così via.
A proposito dei dati resi disponibili dalle diverse fonti che monitorano gli investimenti di capitale nelle Start Up va osservata una frequente difformità dei valori attribuiti a tali investimenti nei diversi Paesi osservati[9]. Ciò rende problematico il confronto degli investimenti di capitale nelle Start Up italiane con quelli nelle Start Up degli altri Paesi, tuttavia ciò su cui le diverse fonti concordano è il posizionamento gerarchico, che vede il nostro Paese sistematicamente e pesantemente svantaggiato[10].
Si configura così un circolo vizioso per cui da un lato le ridotte dimensioni del sistema delle Start Up fanno sì che il fabbisogno di capitali non sia tale da sollecitare lo sviluppo di un sistema di finanza innovativa, dall’altro i limiti di questo sistema finiscono per rappresentare un freno per lo sviluppo delle Start Up.
Con riferimento ai limiti che rischiano di compromettere le prospettive di sviluppo del nostro sistema di Start Up va fatto ancora un cenno al tema degli startupper e cioè del talent. Da questo punto di vista se si esaminano i 20 ecosistemi del ranking prima richiamato, con riferimento ai fattori da cui dipende il loro posizionamento, si può notare che gli ecosistemi europei in genere sono forti per l’apertura ai mercati (che dipende dalla posizione geografica e dalle reti di relazioni costruite storicamente) ma sono deboli per quanto riguarda funding e talent.
Come si è appena visto la debolezza in tema di funding riguarda anche il nostro paese e ci si può chiedere se ciò valga anche per quanto riguarda il talent, e se i limiti dimostrati dal nostro sistema formativo nel rispondere ai fabbisogni qualitativi e quantitativi di professionalità tecniche specializzate[11] non si riproducano anche quando si tratta di abilitare i percorsi degli startupper di successo. In proposito recentemente su “Il Sole 24 Ore” è stata citata una classifica del blog TechCrunch sulle Università USA aventi più ex alunni diventati startupper che avessero raccolto nell’ultimo anno almeno un 1mln di dollari di finanziamenti. Ne è emerso un quadro popolato dalle Università più prestigiose, con ottimi programmi di business o in ambito STEM, collocate in aree metropolitane o inserite in forti ecosistemi tecnologici con facile accesso al venture capital, orientate allo sviluppo di tutte le professionalità necessarie per la vitalità di uno Start Up Ecosystem[12], e quindi non si può non osservare che se le attitudini imprenditoriali non sono programmabili, lo sono invece le condizioni, le strutture, i processi che possono permettere a queste attitudini, quando ci sono, di esprimersi e di contribuire allo sviluppo delle attività produttive.
Nel nostro Paese dunque le Start Up crescono, ma i limiti ed i ritardi nella loro crescita non sono pochi e non sono di poco conto, e ci si può chiedere se ciò non rappresenti un problema non solo sul piano del contributo che queste imprese forniscono alla quantità ed alla qualità della produzione, dell’occupazione e dell’innovazione, ma anche su quello del ruolo che le Start Up possono giocare nell’evoluzione del sistema produttivo. Questo aspetto è stato particolarmente sottolineato nel Convegno del Politecnico di Milano, che ha indicato come fondamentale chiave di lettura di tale evoluzione il ruolo, disruptive rispetto al paradigma produttivo, giocato oggi dalle tecnologie digitali e dal diffondersi dei processi di Open Innovation.
L’innovazione digitale infatti permette alle imprese di disintermediare le catene del valore e di interagire coi clienti valorizzando creatività e flessibilità, di accrescere il contenuto di servizio dei prodotti fino a concepirli come proposte di esperienza, di adottare nuovi modelli operativi e di business utili per sviluppare customer experience e perseguire customer satisfaction[13]. D’altra parte l’innovazione diventa più costosa e rischiosa, richiede nuove risorse e competenze, mentre i cicli di vita dei prodotti diventano sempre più brevi. Diventa quindi vantaggioso per le grandi imprese, in un contesto sempre più volatile e complesso, attingere risorse e competenze dall’ecosistema, condividere costi e rischi, cooperare nello sviluppo di prodotti e servizi, riconfigurandosi come piattaforme aperte, progettuali ed evolutive, capaci di rapidità nel catturare nuovi business, lanciare progetti, fare innovazione e puntando a gestire piuttosto che a controllare le relazioni con l’ecosistema[14].
In proposito le ricerche degli Osservatori del Politecnico di Milano rilevano nelle imprese di maggiore dimensione non solo l’aumento degli investimenti in ICT ma anche l’introduzione di soluzioni organizzative adeguate per la gestione dell’innovazione digitale, la formalizzazione di strutture e meccanismi di coordinamento, l’attivazione di Direzioni o ruoli dedicati all’innovazione, la ricerca di competenze digitali. C’è più attenzione all’esigenza di diffondere e interiorizzare la cultura imprenditoriale, di coinvolgere il personale nei processi innovativi, di gestire in termini cooperativi le relazioni sia interne che esterne. Si segnala inoltre per il prossimo triennio un aumento dei programmi o delle intenzioni di ricorso a forme di Open Innovation, soprattutto nella forma Inbound: la maggior parte delle imprese interessate sviluppa collaborazioni con Università e centri di ricerca, altre svolgono azioni di Start Up intelligence, attivano Call for Ideas e Contest esterni. In questo quadro la maggior parte delle imprese (soprattutto le maggiori) fa o intende far ricorso alla collaborazione con Start Up, secondo modalità che possono andare dalla semplice fornitura di prodotti e servizi una tantum alla partnership in attività di R&S per la co-creazione di prodotti e servizi.
Su queste basi si traguarda dunque un’evoluzione del sistema produttivo trainata dalle logiche dell’Open Innovation, con grandi imprese rimodulate secondo modelli di Corporate Entrepreneurship e Start Up in grado di partecipare attivamente ai processi innovativi, in un ecosistema popolato da attori e processi in continua interazione.
Rispetto a questa prospettiva, posto che i segnali citati per convalidarla siano destinati a consolidarsi, ci si trova di fronte ad una sfida particolarmente impegnativa. Per quanto riguarda le grandi imprese i modelli della Corporate Entrepreneurship ne implicano una trasformazione guidata dalla cultura dell’innovazione e dell’imprenditorialità, dalle logiche della trasparenza e della cooperazione.
Per quanto riguarda le Start Up invece uno scenario di questo tipo implica non solo una accelerazione[15] ma anche un deciso riorientamento degli sforzi per promuoverne lo sviluppo. Ciò che si chiede alle Start Up infatti è di riconfigurare la propria funzione, da quella di terminali di processi lineari di technology transfer con cui portare sul mercato nuovi prodotti e tecnologie frutto della ricerca o in alternativa da quella di sedi di sperimentazione di nuovi prodotti e tecnologie destinati ad esser catturati dalle grandi imprese, a quella di agenti capaci di cooperare interattivamente con gli altri attori dell’ecosistema nello sviluppo dei processi innovativi in termini di technology exchange[16].
Start Up ed ecosistema dell’innovazione finiscono allora per rappresentare due facce di uno stesso problema. Senza rinunciare allo strumento delle agevolazioni e degli incentivi su cui fino ad oggi si è fatto leva, e che pure possono essere ancora necessari, lo sviluppo delle Start Up dipende infatti dalla formazione di un ecosistema dell’innovazione, inteso come un insieme di attori (imprese high-tech, centri di ricerca, Università, talenti imprenditoriali, tecnici ad elevata professionalità, operatori della finanza innovativa, fornitori di servizi specializzati) e di processi (di comunicazione, collaborazione, partnership, finanziamento) continuamente interagenti, capace di rappresentare un contesto favorevole alla nascita ed allo sviluppo delle Start Up supportandole con una qualificata gamma di economie esterne. L’ecosistema per l’innovazione si configura quindi come condizione per lo sviluppo delle Start Up le quali a loro volta, cooperando con gli altri attori dell’ecosistema nello sviluppo del processi innovativi, concorrono al suo sviluppo.
Questi ecosistemi tuttavia non nascono spontaneamente, ma si formano sotto l’impulso di forze (nei maggiori Start Up Innovation Ecosystem internazionali si è trattato di grandi imprese high tech, di investimenti pubblici nel settore militare, di Università e centri di ricerca di avanguardia) che ne hanno guidato e strutturato lo sviluppo. Da questo punto di vista allora riconfigurare il nostro sistema produttivo sulle tracce egli ecosistemi dell’innovazione pone un problema che non è diverso da quello di Industria 4.0 e che riguarda non solo e non tanto l’entità delle risorse messe in gioco quanto l’introduzione nel sistema di efficaci input evolutivi.
In proposito vale la pena di richiamare il contributo di Fabrizio Onida nel suo libro L’industria intelligente, recensito in questo stesso numero di Impresa Progetto da Marco Frey. Secondo Onida lo Stato può giocare un ruolo decisivo nello sviluppo dell’ecosistema per l’innovazione promuovendo alcuni grandi programmi[17], focalizzati su sfide innovative per rispondere alle quali disponiamo di risorse, competenze e tecnologie adeguate, grazie ai quali aggregare intorno a champions industriali riconosciuti risorse ed energie pubbliche e private, di imprese grandi e piccole, di strutture di ricerca e di servizio, interconnessi secondo logiche cooperative di open innovation. Si tratta di un modo nuovo (per noi, ma non per altri Paesi) e sfidante di fare politica industriale e dell’innovazione, a proposito del quale lo stesso Onida, in un intervento su Il Sole 24 Ore, indica come chiave di lettura una raccomandazione di un gruppo di studio europeo presieduto da Pascal Lamy che dice: ”Adopt a mission-oriented, impact-focused approach to address global challenges”[18].
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Questo numero di Impresa Progetto presenta sei paper sottoposti alla procedura di referaggio, due contributi non referati, due recensioni e due interviste.
I paper referati coprono un ampio ventaglio di problemi legati sotto diversi profili ai temi dell’innovazione e della sostenibilità:
- Mizzau, Rinaldini, Montanari e Rodighiero, a partire da un case study relativo ad una esperienza territoriale, esaminano gli ecosistemi come sede privilegiata dei processi innovativi e gli innovation hub come filtri della combinazione di input e output che ne condizionano la formazione del valore economico e sociale. Sono approfonditi i criteri che permettono una efficace governance degli innovation hub ed emergono come dimensioni critiche il networking necessario per interconnettere hub ed ecosistema e l’identità dell’hub e degli attori coinvolti.
- Varra e Timolo, dopo aver richiamato la rilevanza ma anche la complessità del concetto di sustainable leadership, esaminano le connessioni tra tali pratiche e le linee guida e gli indicatori proposti da alcuni standard internazionali in tema di Corporate Social Responsibility. In particolare presentano un modello basato sul Global Reporting Initiative che verificano con l’applicazione ad un caso aziendale.
- Rusconi, Contraffatto e Burgia forniscono con una ampia rassegna della letteratura in tema di accounting for water. Viene individuato un preciso percorso evolutivo della problematica, che si configura ormai come un tema di ricerca riconosciuto e consolidato.
- Paniccia, Silvestrelli, Leoni e Baiocco assumono l’agriturismo come vettore di processi di sviluppo sostenibile a scala locale e propongono un framework di analisi, che viene applicato a 10 casi aziendali, basato sulle relazioni co-evolutive tra imprese agricole, territorio e turismo.
- Dameri, Garelli e Resta presentano una sperimentazione dell’uso delle reti neurali in ambito accounting. Sono oggetto di analisi gli Spin-off accademici italiani di cui, attraverso l’elaborazione di un set di dati contabili opportunamente selezionati, si cerca di clusterizzare il profilo strategico. Si consegue una migliore comprensione di realtà dai profili spesso sfuggenti e si apre una finestra sulle potenzialità dell’Intelligenza Artificiale nell’accrescere la conoscenza dei fenomeni aziendali.
- Buratti, Parola e Satta approfondiscono il tema dell’utilizzo dei Social Media nel marketing di imprese di servizi B2B, con riferimento a 60 imprese operanti nel settore dei trasporti marittimi con caratteristiche di attività di servizio commodity-based. I risultati evidenziano il contributo che il Social Media Marketing può fornire anche in settori tradizionali nel far fronte al cambiamento e creare vantaggio competitivo.
Accanto a questi paper, sono poi ospitati due contributi, proposti da Pietro Genco e da Franco Rubino e Stefania Veltri. Il primo riprende il tema di “Industria 4.0”, già affrontato nel n. 1/2017 del Journal e oggetto del libro di Fabrizio Onida recensito in questo stesso numero, con riferimento ai suoi impatti sui concetti e modelli propri del management; il secondo invece, attraverso una rassegna di studi dedicati al tema delle migrazioni, apre una finestra sull’approccio del Critical Accounting e sui suoi caratteri alternativi rispetto al Financial Accounting tradizionale.
Nelle sue “riflessioni sulle scienze manageriali nell’era dell’Industria 4.0” Genco si chiede se e come alcuni temi classici del management siano destinati a subire torsioni indotte dalla diffusione delle tecnologie digitali. I temi presi in considerazione sotto questo profilo sono quelli delle dimensioni di impresa, dei rapporti tra catene del valore aziendali e sistema del valore, del rapporto tra manifattura e servizi, delle strategie di internazionalizzazione e globalizzazione. Sono molti i problemi aperti, destinati a trovare risposte più riconoscibili con il progressivo definirsi dei processi e dei cambiamenti in atto, esaminati comunque individuando le tendenze evolutive emergenti. Nell’insieme, secondo Genco, si tratta di cambiamenti che si collocano nell’ambito di un’onda lunga che vede nelle tecnologie digitali lo strumento del pieno dispiegarsi del post-fordismo.
Una rassegna di studi sul tema delle migrazioni è invece l’occasione che Rubino e Veltri colgono per parlare del Critical Accounting. Si tratta di un approccio che si colloca fuori dal mainstream, ritenuto funzionale al consolidamento degli assetti economici e sociali dominanti in quanto focalizzato sui fabbisogni informativi degli shareholder e dei finanziatori, e che punta ad attribuire valori finanziari alle pratiche sociali dando visibilità e riconoscimento a problemi etici, sociali e politici (quali appunto quelli delle migrazioni) altrimenti ignorati. Si tratta dunque di un approccio lontano anche dalle logiche del non financial reporting, che è comunque centrato sull’impresa di cui cerca di monitorare gli impatti esterni in una prospettiva di creazione di valore sostenibile, e forse meglio strumentale nei suoi utilizzi agli studi di Sociologia e di Scienza Politica piuttosto che a quelli di Economia Aziendale. Rimane comunque lo stimolo forte per una seria riflessione sugli oggetti, sui contenuti, sui metodi e sulle finalità degli studi in tema di Accounting.
Anche in questo numero i saggi, referati o non referati sono accompagnati da interviste e recensioni focalizzate su temi di sicuro interesse.
Per quanto riguarda le interviste, Clara Benevolo ha dialogato con Massimo Pollio sulla storia e sul profilo imprenditoriale di Imagro: un caso di successo che nel corso di 20 anni ha visto una realtà aziendale, nata nel trading della componentistica industriale, svilupparsi e trasformarsi dando vita ad una attività logistica arricchita da servizi a valore aggiunto. Nell’intervista emergono sia le determinanti economiche e di mercato di questa trasformazione sia i fattori immateriali (capacità di “mediazione culturale”, relazionalità, fiducia, progettualità) che concorrono al business model ed alla sua unicità. Non sorprende poi che la cultura aziendale di Imagro abbia potuto ispirare una iniziativa umanitaria, Flying Angel, con riferimento alla quale viene presentato un breve video.
Per quanto riguarda invece le recensioni, Teresina Torre si occupa del libro di Luca Solari su Freedom Management. How leaders can stay afloat in the sea of social connections rilevando come l’Autore, assumendo come punto di osservazione quello dello scienziato sociale collocato sul confine tra ricerca e prassi, si ponga il problema di come progettazione organizzativa e management possano promuovere libertà, iniziativa e varietà. Ci sono in gioco i rapporti tra organizzazione e libertà, iniziativa e varietà, controllo e ordine spontaneo: temi cruciali in un momento in cui le realtà aziendali, economiche e sociali si fanno sempre più complesse e mutevoli.
Marco Frey infine commenta L’industria intelligente. Per una politica di specializazione efficace: il libro che Fabrizio Onida ha dedicato alla problematica di Industria 4.0 in rapporto alle prospettive del sistema produttivo italiano. Frey mette in luce il contributo che Onida dà all’aggiornamento delle idee in tema di politica industriale e dell’innovazione, con un ancoraggio robusto ai cambiamenti che le tecnologie digitali stanno introducendo nel funzionamento e nelle logiche delle imprese. Vengono sottolineati in particolare i contributi forniti a proposito del rinnovato ruolo che lo Stato, ma anche gli altri attori pubblici e privati dell’eco-sistema dell’innovazione, sono chiamati a giocare secondo logiche non gerarchiche ma cooperative e l’importanza che gli sforzi vengano finalizzati ad “alcuni grandi drivers di sviluppo tecnologico-economico-sociale”.
[1] Si vada la pubblicazione del Politecnico di Milano con i materiali del Convegno: “Corporate Entrepreneurship e Open Innovation: innovare con un occhio alle startup”, novembre 2017.
[2] “Relazione Annuale al Parlamento sullo stato d’attuazione e l’impatto delle policy a sostegno di startup e PMI innovative. Edizione 2017” (http://www.sviluppoeconomico.gov.it).
[3] I dati di queste ricerche sono stati ottenuti attraverso interviste da un lato a tutti gli investitori formali con sede in Italia ed ai principali attori informali e dall’altro alle Start Up finanziate da questi attori tra settembre 2016 e ottobre 2017. Essi sono stati poi integrati e verificati attraverso l’utilizzo di fonti secondarie. Gli investimenti internazionali sono invece il frutto di stime, basate su fonti primarie e secondarie.
[4] Il Global Startup Ecosystem Report 2017 è stato presentato in collaborazione col Global Entrepreneurship Network da Startup Genome, che è una organizzazione fondata a San Francisco nel 2012 Essa attualmente è guidata da J.F.Gauthier e da M. Penzel ed è supportata da studiosi del fenomeno delle Start Up come Steve Blank. Grazie ad una rete di partner e di collaboratori Startup Genome svolge un monitoraggio capillare e continuo del fenomeno delle Start Up a livello globale.
[5] Ranking come il Global Ecosystem Report presentano normalmente problemi metodologici relativi alla qualità e controllabilità delle informazioni raccolte, alle modalità della loro elaborazione, alla ponderazione dei vari fattori nel calcolo degli indicatori di performance.
[6] Si segnala in proposito che i primi 10 ecosistemi accumulano l’85% del valore delle exit e che questi ecosistemi appartengono a 4 soli Paesi.
[7] Si ritiene che l’inserimento in un network globale acceleri la crescita dell’ecosistema ed aumenti la probabilità che vi nascano Start Up top level.
[8] A questo andrebbero poi aggiunti gli interventi previsti con provvedimenti autonomi dalle Regioni e da altri enti territoriali.
[9] Da questo punto di vista va osservato che esistono problemi tanto di individuazione delle Start Up da monitorare (in Italia per esempio è ormai pratica corrente riferirsi come Start Up a quelle iscritte all’apposito Registro, che non necessariamente ne identifica la popolazione) quanto di fonti attraverso le quali monitorare il fenomeno.
[10] Gli investimenti in Start Up nei paesi con cui è più immediato il confronto, come Francia, Germania, Spagna, equivalgono a multipli di quelli nelle Start Up del nostro Paese.
[11] Un dossier di Confindustria e Unioncamere di fine 2017 valuta per i prossimi cinque anni, nei settori della meccanica, della chimica, del tessile, dell’alimentare e dell’ICT, un fabbisogno di addetti pari a 272.000, di cui il 60% relativo a periti e laureati tecnico-scientifici.
[12] M.D’Ascenzo e S.Pasqualotto, Lo startupper di successo studia nelle università Usa, Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2017.
[13] Si veda in proposito M.Morchio. La competitività passa dagli ecosistemi, Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2017.
[14] Si veda la già ricordata pubblicazione del Politecnico di Milano ed anche l’intervista di Alberto Di Minin ad Henry Chesbrough: “Logiche d’influenza aperta e distribuita”, Nòva24, Il Sole 24 Ore 13 dicembre 2017.
[15] Da questo punto di vista non sembra irragionevole ritenere che gli investimenti nel sistema delle Start Up dovrebbero passare nel nostro paese dall’ordine del milioni a quello dei miliardi di euro.
[16] Sul passaggio da logiche di technology transfer a logiche di technology exchange si veda M. Caccia su Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2017 (L’Europa sceglie lo scambio di conoscenza).
[17] Onida ne parla come programmi di ricerca pre-competitiva.
[18] F.Onida, Dare più spazio alla ricerca pre-competitiva, Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2018.