Una o più scienze?

Saggi
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Management
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Presentazione a cura di Marco Di Antonio

Nell’ambito dei propri incontri periodici di aggiornamento e approfondimento su argomenti di attualità e di confronto interdisciplinare, quest’anno il Ditea ha affrontato il tema epistemologico dei diversi metodi di conoscenza e della loro applicabilità allo studio delle discipline aziendali. In un primo incontro la dottoressa Cinzia Panero, dottoranda del dipartimento, ha presentato la metodologia dei casi aziendali; successivamente, il Prof. Michele Marsonet, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, ha svolto la relazione che viene ospitata in questo numero della rivista.
In questa breve presentazione intendiamo sottolineare alcuni spunti che ci sono sembrati di particolare interesse. Il tema del dibattito è già introdotto dal titolo del lavoro: “Una o più scienze?”.
Con particolare riferimento alle nostre discipline, la domanda appena formulata si articola e specifica in ulteriori quesiti: “Cosa significa applicare un metodo scientifico di indagine al campo dell’economia aziendale?” “La piena certezza della conoscenza è ottenibile solo con i metodi empirici delle scienze naturali (o esatte)?” “Le tecniche di analisi quantitative (ad esempio regressioni statistiche) sono superiori a quelle qualitative (ad esempio studio dei casi aziendali)?”
Le domande proposte vanno inquadrate in una tendenza che si va affermando da qualche anno e che vede una crescente fiducia nelle metodologie di analisi quantitative. Queste ultime si vanno sempre più diffondendo anche nelle discipline aziendali, contraddicendo per certi versi una storia e una tradizione dottrinale in cui vi è scarsa traccia di tali approcci. Oggi, gli articoli di management pubblicati nelle principali riviste internazionali si basano su modelli formalizzati: il ricercatore dapprima formula determinate ipotesi, in base a un’attenta review della letteratura esistente; in seguito procede con metodologie di analisi statistica a verificare la validità di tali ipotesi. Il legame di causa-effetto tra le diverse variabili rilevanti per la comprensione dei fenomeni viene testato e il suo grado di attendibilità e importanza quantificato.
In tale contesto, una determinata affermazione (ad esempio: “la soddisfazione dei clienti produce un impatto positivo sui profitti”) viene ritenuta “scientifica” solo se si basa su una serie di dati empiricamente rilevati e se viene specificato il suo grado di probabilità (o di errore).
Il diffondersi di tali approcci è forse spiegato già nell’incipit del lavoro di Marsonet: “Le scienze empirico-naturali (e specialmente la fisica) hanno alle spalle una lunga tradizione e una storia di brillanti successi intellettuali. Di conseguenza esse hanno influito notevolmente sulla nostra concezione di “scienza” in quanto tale: le loro caratteristiche tendono ad essere considerate come criteri ai quali ogni disciplina che voglia definirsi scientifica deve adeguarsi. Invece i risultati conseguiti dalle scienze umane e sociali sembrano piuttosto scarsi”.
In definitiva, la diffusione degli approcci quantitativi sarebbe motivata da una sorta di “complesso di inferiorità” provato dalle discipline sociali nei confronti di quelle esatte, quanto a livello di certezza e dimostrabilità dei risultati raggiunti.
Marsonet aiuta invece a capire che il mito del metodo empirico-quantitativo come strumento unico di conoscenza è, appunto, un mito. Meglio, esso è il frutto di una precisa ideologia, quella neopositivista, che adotta una visione determinista dei comportamenti e delle intenzioni umane, che costituiscono l’oggetto di studio della scienza sociale. Si cerca di ricondurre tali comportamenti a relazioni di causa-effetto rappresentate da “leggi scientifiche”, cioè di applicazione generale e di natura quantitativa. L’“ideale” perseguito dal neo-positivismo è quello di ricondurre le scienze umane, “secondarie” e particolari, alle scienze fisiche, primarie e generali.

Ci sembra che un uso esteso e indiscriminato dell’approccio empirico-quantitativo sconti due gravi limiti concettuali. Innanzitutto, esso viola il fondamentale principio di realismo, secondo il quale è l’oggetto di ricerca che deve dettare il metodo. Conoscere le leggi della natura è cosa diversa da conoscere i principi che muovono le decisioni umane o le dinamiche interpersonali e affettive. Il metodo di ricerca non potrà quindi che essere diverso(1).
Secondariamente, le leggi naturali, attraverso l’osservazione empirica della realtà fisica, si limitano a descrivere “come il mondo è”. Differentemente, quelle sociali si ancorano a imprescindibili relazioni con la sfera del significato e dell’etica: esse quindi non possono eludere il problema di “come il mondo dovrebbe essere”, e non possono esimersi dal formulare giudizi di valore.

Riprendendo alcuni spunti di Marsonet, vanno ricordate ai neopositivisti semplici verità: l’individuo non è una cosa; le sue scelte e i suoi comportamenti non sono l’esito di leggi fisiche, ma nascono dall’interagire di una sfera intangibile di intenzionalità e di libertà. La natura opera senza perseguire proprie finalità, l’uomo sì. Non si possono comprendere i comportamenti umani collegandoli a determinate variabili di contesto “saltando” la conoscenza delle finalità di chi agisce.
L’azione umana, certo condizionata da una serie di fattori individuabili e analizzabili, è però governata anche da credenze e valori, aspettative, finalità e motivazioni, principi morali: tutti elementi “non scientifici”, ma certo non per questo meno reali e importanti.

D’altronde, ricondurre l’azione manageriale a leggi e modelli empiricamente individuati e testati la priva del suoi vero fattore di successo: l’innovazione radicale (la “disruptive innovation” di Schumpeter), che per definizione rompe gli equilibri e le prassi passate e afferma il nuovo, l’imprevisto, il non pre-determinabile.

Le argomentazioni sviluppate da Marsonet trovano un interessante punto di conferma in due recenti e autorevoli contributi comparsi su primarie riviste di management. Gli autori segnalano gli effetti negativi conseguenti a una diffusa e rigida applicazione del “metodo scientifico” alle scienze del management.
Bennis e O’Toole(2) evidenziano la crescente distanza delle scuole di management dalla pratica manageriale. Ciò è dovuto all’adozione generalizzata da parte delle prime dello scientific model: l’attività di ricerca si basa sul metodo empirico-quantitativo e giunge alla formulazione di modelli astratti e lontani dalla realtà; i criteri di reclutamento e carriera dei docenti premiano le pubblicazioni di taglio scientifico-quantitativo. Ne risulta una diffusa incapacità di cogliere la complessità delle decisioni manageriali, di evidenziare i mutevoli collegamenti tra fenomeni e i molteplici e diversificati impatti delle scelte, di mettere in luce gli aspetti etici e discrezionali che sono determinanti nelle azioni del management: “When applied to business, - essentially a human activity in which judgements are made with messy, incomplete, and incoherent data – statistical and methodological wizardry can blind rather than illuminate”(4).
Gli autori indicano le vie d’uscita dalla situazione descritta: ridimensionare (non negare) l’importanza del metodo scientifico, coltivare approcci multidisciplinari (in particolare enfatizzando il ruolo delle discipline umanistiche), fertilizzare la conoscenza delle leggi astratte con l’osservazione dei concreti comportamenti aziendali, considerare il management una professione più che una disciplina scientifica, valorizzare il metodo dei casi accanto alle tecniche di indagine quantitative.

L’ultimo articolo di Sumantra Ghoshal, prima della sua prematura scomparsa, assume il valore di un testamento spirituale del geniale studioso(5).
Ghoshal riconduce molte disfunzioni e bad practices manageriali (ad esempio i recenti scandali: Enron, Worldcom ecc.) a specifiche responsabilità da parte della dottrina e delle istituzioni educative che la diffondono (business school). In particolare, vengono sottolineati due errori: da un lato la pretesa di applicare il metodo scientifico alla sfera del management (the pretense of knowledge); dall’altro, la visione cupa e pessimistica dei comportamenti delle persone e delle organizzazioni, che sta dietro alle ipotesi su cui si basano le nuove teorie (ideology-based gloomy vision). Tali presupposti sono tanto più pericolosi, oltre che limitati, in quanto, nel management, a differenza che nelle scienze naturali, le teorie influenzano i comportamenti (sono “profezie autoavverantisi”). Ne consegue che le false ipotesi sulla natura umana diventano reali e che aumenta quindi la probabilità del verificasi dei comportamenti negativi che si vogliono evitare.
Il limite del metodo scientifico, su cui si basano teorie come quella dell’economia dei costi di transazione o quella dell’agenzia, è proprio quello di ricorrere ad analisi parziali e semplificate e cercare di spiegare la condotta di uomini e organizzazioni basandosi su relazioni deterministiche tra variabili quantificabili, ricercando modelli e leggi di funzionamento astratti e generali che ignorano il ruolo assunto dall’intenzionalità umana e dai fenomeni mentali (etica, valori). Certe teorie sono prevalse su altre (ad esempio la visione dell’impresa shareholder oriented rispetto a quella stakeholder oriented) non perché sono più vere, ma perché matematicamente formalizzabili.
La visione negativa dell’uomo fa propri assunti quali la massimizzazione del tornaconto personale, come finalità unica o prevalente dell’azione dell’individuo e la forte inclinazione di quest’ultimo ad adottare comportamenti opportunistici.

Certamente, affermare con Marsonet, Bennis e O’Toole e Ghoshal che il management non è una scienza esatta e che sono fuorvianti e pericolosi quegli approcci che lo trattano come tale, non “risolve” il problema della conoscenza in tale ambito disciplinare, ma rende anzi più ardua e ambigua la ricerca svolta.
Non si tratta di rinunciare completamente all’eleganza dei modelli e alla rassicurante certezza delle relazioni quantitative, ma di collocarle nel loro ruolo appropriato quanto a contributo conoscitivo fornito (ridimensionandole, molto probabilmente). Si tratta piuttosto di riconoscere la complessità delle discipline in discorso e la loro natura di scienze umane; si tratta di rispondere a tali caratteristiche arricchendo i metodi di indagine con approcci multidisciplinari, soft, qualitativi, che diano il giusto peso alle variabili psicologiche, sociali, etiche, culturali, senza negarne però la maggiore difficoltà di analisi e modellizzazione.

Note:
(1) - Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano, 1997. Le tre premesse del conoscere (e dell’agire) umano sono identificate dall’autore nella ragione, nel realismo e nella morale. E Marsonet: “poiché il comportamento degli individui (considerati come persone) costituisce l’oggetto di studio delle scienze sociali, il modello della fisica è, ad avviso di molti, inadeguato sotto parecchi aspetti (anche se non tutti), poiché gli individui non possiedono solanto un corpo fisico, ma anche…una mente consapevole”.
(2) - Cfr. W.G. Bennis e J. O’Toole, “How Business Schools lost their way”, in Harvard Business Review, May, 2005.
(3) - Cfr. W.G. Bennis e J. O’Toole, op. cit., p. 99.
(4) - “The problem is not that business schools have embraced scientific rigor but that they have forsaken other forms of knowledge” cfr. W.G.Bennis e J. O’Toole, op. cit., p. 104.
(5) - Cfr. S. Ghoshal, “Bad Management Theories Are Destroying Good Management Practices”, in Academy of Management Learning & Education, n. 1, 2005.