L'ospite
Gli imprenditori. Il valore dei fatti.

"Nel bel mezzo di una tempesta di dati sul PIL che ristagna, sul debito pubblico che cresce, sui consumi che sono fermi e sulla fiducia che crolla, un dato confortante c’è, un punto di leva esiste: l’Italia è il paese degli imprenditori. Da soli forse non basteranno, ma almeno li abbiamo. Una cosa però va detta: gli imprenditori sono destinati a cambiare. Nel 2020, tanto per ipotizzare una data, avranno profili diversi dagli attuali, svolgeranno compiti diversi, assumeranno ruoli diversi. Guardando avanti, ci sono infatti tante sfide aperte, tante questioni da dirimere, tanti nodi da sciogliere".
Una visione troppo ottimista? Gli autori, due studiosi che da anni approfondiscono le tematiche delle imprese minori, con un focus particolare sulle imprese familiari, non sembrano molto preoccupati per questo rischio e si cimentano con il tentativo di una riflessione sul valore del tessuto imprenditoriale italiano, sui limiti e sulle sfide in un momento particolarmente delicato dell’economia del nostro Paese. E’ il tentativo di una riflessione culturale di fondo: sollevata la testa dall’accademia, propongono ad un pubblico più vasto di quello degli addetti ai lavori ciò che hanno imparato dalla riflessione scientifica e da confronto con l’esperienza, come contributo all'identificazione di un cammino percorribile.
Un libro che si raccomanda agli imprenditori come stimolo di riflessione, ai policy makers per la formulazione di linee strategiche di respiro, ma soprattutto a chi si aspetta che gli studiosi scendano dalla loro turris eburnea per confrontarsi con i dubbi e le speranze di cui è intessuta l’esperienza quotidiana di tutti. Perciò si raccomanda in particolar modo ai giovani, come introduzione ad una conoscenza non superficiale, realista e non catastrofista della realtà imprenditoriale del nostro paese.
Attraverso i cinque capitoli in cui si snoda il contenuto del libro, siamo condotti a fare un percorso. Si inizia con alcune pennellate sulla realtà italiana e sulla sua diversità. Riprendendo Rullani, ci viene detto con forza che “l’autobus non è al capolinea”: le imprese stanno navigando in un mare in tempesta, ma i dati mostrano una sostanziale tenuta della vocazione manifatturiera e una tendenza alla polarizzazione nei risultati delle imprese, in particolare non sono poche le medie imprese e quelle distrettuali che hanno cercato di identificare il loro cammino e lo hanno trovato anche in tempi di crisi.
L’imprenditore appare come una risorsa insostituibile. Chi è dunque l'imprenditore? Un enigma, il più intrigante e il più elusivo personaggio tra i soggetti che popolano la scena economica, alla Baumol. Sicuramente, la sua rilevanza sociale è determinante, come motore dell’innovazione nella risposta ai bisogni, costruttore di un’opera che dura nel tempo, tessitore di un'atmosfera culturale orientata al cambiamento.
E’ una visione eccessivamente ottimistica? Il dubbio è legittimo, ma gli autori non mancano di prendere in considerazione le nubi che si addensano all'orizzonte: la questione demografica, la questione sociale, culturale, educativa, in un contesto drammaticamente segnato da quello che il Censis nel Rapporto 2010 ha efficacemente definito il "calo del desiderio".
Il passo successivo che gli autori ci fanno fare è la ricostruzione del patrimonio di valori e attitudini che caratterizza l’imprenditoria italiana: un enorme avviamento di capitale intangibile, descritto in quattro punti.
Il primo riguarda gli obiettivi dell’impresa e consiste nel fatto che per molti imprenditori lo sviluppo dell’azienda viene perseguito come "un bene privato di interesse pubblico". Il nemico in agguato è però il rovesciamento dei termini e la sostituzione del fine con il mezzo, cioè lo sviluppo asservito all’ambizione dell’imprenditore e, tragicamente, la massimizzazione del valore per gli azionisti invece che la crescita del valore dell’impresa.
Il secondo attiene alla sfera delle motivazioni ed è l’ambizione a lasciare il segno, in tutte le sue diverse sfumature. Ne viene la capacità di accettare le sfide (anche quelle poste dalla crescente globalizzazione) a partire dalle proprie radici, nonché la tensione a crescere e ad aggregarsi.
Il terzo punto sono le doti, in particolare l’attitudine a vedere le opportunità a partire dalla curiosità e creatività personali, la capacità di decidere in contesti incerti assumendo rischi ragionevoli, la perseveranza.
Il quarto aspetto è la tensione a far crescere una comunità di persone. Vengono citati alcuni esempi di particolare efficacia, ma più di quanto accade relativamente agli altri punti, qui sembra emergere una preoccupazione di fondo: questo aspetto viene messo a dura prova non solo dal contesto di crisi (che anzi forse ha in molti casi rafforzato questa tensione) ma soprattutto dal mutare del contesto di relazioni interne ed esterne, nel quadro anche della necessaria crescita dimensionale che implica la capacità di creare comunità allargate.
Nessuno di questi punti viene trattato in modo trionfalistico, ma ad ogni modo si incarica il capitolo successivo di metterci davanti ai nodi da sciogliere. Sono convinzioni ed atteggiamenti, di per sé non sbagliati, che se non vengono messi in discussione rischiano di essere il vincolo più profondo alla necessaria evoluzione del ruolo degli imprenditori.
Il primo è il mito della “one man band”, ovvero la gestione come una questione di presidio assoluto, di accentramento totale. Qui si tratta di trovare il giusto equilibrio tra imprenditorialità e managerialità, anzitutto professionalizzando la struttura interna (strumenti decisionali, competenze, revisione delle responsabilità, apertura a manager esterni). La strada maestra si basa sulla delega, la collegialità, il knowledge sharing, la lotta al conservatorismo, ecc.
Il secondo nodo è il familismo, da sciogliere con la reinterpretazione del patrimonio di valori familiari aziendali e l’introduzione di sistemi di governance adeguati. La lettura delle pagine dedicate a questo tema riflette tutta l'esperienza degli autori in anni di prossimità con le imprese familiari.
Il terzo nodo è la chiusura del capitale: un capitale spesso troppo paziente che vincola le prospettive di sviluppo. La dialettica tra apertura della compagine aziendale e mantenimento del controllo è un punto particolarmente importante.
Il quarto è il tema della dimensione. Troppe volte non si tiene in adeguata considerazione il posizionamento dell’impresa all’interno del suo settore, la capacità di dare risposte efficaci ai bisogni, la necessità di fare strategie in modo esplicito, senza procedere per adeguamenti successivi che sfuocano il posizionamento strategico. Da questo punto di vista, le imprese minori, soprattutto quelle familiari, rischiano di essere in una situazione di particolare debolezza: la storia, le competenze che possiedono, il radicamento territoriale, lo stretto legame familiare possono essere un condizionamento. Occorre governare una tensione fra opposti, sfuggendo alla Scilla e Cariddi del "small is not beatuful" e "big is not better", per affermare che "size is money", con le conseguenze in termini di dimensioni e di leadership. Da questo punto di vista, vengono proposti diversi percorsi possibili: il presidio della nicchia (segmenti di alta qualità, focalizzazione di fase, nicchie nazionali e internazionali) e la crescita per adiacenze.
Il successivo capitolo ci accompagna a vedere le strade percorribili: coniugare in modo equilibrato creatività imprenditoriale e professionalità manageriale, proiettarsi nel mondo e raccogliere la sfida dell’economia dell’informazione, affrontare la concorrenza in termini di collaborazioni e alleanze, crescere internamente ed esternamente, valorizzare la presenza femminile ancora troppo limitata.
Il volume si avvia così alle conclusioni, riproponendo il tema dell'Italia imprenditoriale e collocandolo in un quadro più ampio. Come ribadiscono le conclusioni, l’Italia per contrastare il declino ha bisogno della risorsa imprenditori, anche se non si tratta dell’unica risorsa: leggi, azioni di governo, meccanismi regolatori, ricerca, imprese di grandi dimensioni, sono solo alcuni dei titoli proposti.
Tre sono i messaggi conclusivi: l’Italia non è destinata al declino, l’Italia degli imprenditori è un fenomeno complesso che va conosciuto in profondità rifuggendo dagli stereotipi, gli imprenditori hanno bisogno di fatti, non di parole.
Termina così la provocazione di questo libro. E il desiderio che non finisca qui la riflessione sui temi sollevati. Gli autori partecipano ad un gruppo di lavoro costituitosi presso la Fondazione per la Sussidiarietà di Milano, di cui fanno parte diversi imprenditori e accademici (ed anche, fra gli altri, l’estensore della presente recensione). L’obiettivo è quello di individuare e suggerire modelli di imprenditore e di impresa che consentano all’Italia di "rimanere in serie A" e allo stesso tempo si caratterizzino per una significativa componente valoriale: non si batte la crisi, infatti, senza una decisa energia di cambiamento generata da una forte visione ideale. Le idee guida e i valori si cui si sta attualmente lavorando, senza pretesa di esaustività, sono essenzialmente la centralità della persona, la sussidiarietà aziendale, la tensione al bene comune, la solidarietà: per ciascuno di essi si sta cercando di identificare modalità concrete, proponibili e verificabili di declinazione a livello delle principali aree aziendali, anzitutto la governance, la strategia, l’organizzazione e le relazioni con gli stakeholder e la comunità. Si parte da una riflessione e una valorizzazione dell’esperienza concreta per cercare di dare spessore anche teorico ai tentativi più interessanti e formulare conseguentemente indicazioni di policy: pare a tutti coloro che si sono coinvolti in questo lavoro che il momento attuale richieda anche agli accademici di sporcarsi le mani per mettere le loro conoscenze al servizio della costruzione di un Paese migliore.
Recensioni e Riflessioni
- Davide Calandra
- Martin Dege
- Irene Strasser