L'ospite
The future of management

È difficile sottrarsi alla lettura di un volume di Gary Hamel - autore così noto da non richiedere alcuna presentazione e non solo per di chi si occupa di management, tanto per dire: The Wall Street Journal lo ha recentemente classificato come il più influente “business thinker” al mondo e Fortune magazine lo ha qualificato “the world’s leading expert on business strategy”. Di un volume, per di più, più volte ristampato e a lungo, dopo la prima uscita nel 2007, in cima alle classifiche dei best seller. Lusinghiere le presentazioni apparse sulla stampa internazionale, opportunamente inserite in quarta di copertina della traduzione italiana uscita a cura dell’editore Etas. Non mancano, poi, su youtube i video di presentazione del volume, nei quali si possono apprezzare le brillanti doti oratorie dell’autore, valorizzate da una sapiente regia che accompagna il suo eloquio con la comparsa sullo sfondo delle frasi cruciali dell’esposizione, a consolidarne l’essenzialità ed a stigmatizzarne il contenuto.
Insomma, un libro che deve comparire sullo scaffale, lì riposto con il convinto intento di una lettura tanto inevitabile quanto dilazionabile, così dilazionabile da scivolare rapidamente verso posizioni non prioritarie e poi accantonata in attesa dell’occasione “buona” (buona non si sa perché e per cosa, ma sempre possibile). L’occasione buona è casuale. La prima lettura, frettolosa (che diventa tale anche per la scorrevolezza del testo) aveva avuto come esito il classico shakesperiano “tanto rumore per nulla” e la ricollocazione sul ripiano senza troppi rimpianti. Lo ammetto, la diffidenza è stata il primo sentimento che ha accompagnato l’avvicinamento a questo volume. Diffidenza per un titolo accattivante, volutamente e palesemente profetico. Diffidenza, per l’implicita presunzione di chi pensa di saperne, del futuro.
L’ho ripescato, in questi tempi di crisi in cui il presente, pesante e faticoso, allontana la passione per il futuro, in cui sembra farsi sempre meno nitida la proiezione su un futuro possibile e soprattutto interessante. L’ho ripescato alla ricerca di risposte sul cosa fare per venirne fuori dalla crisi, di risposte alla portata di chi si occupa di management, di risposte formulate ancora in un tempo non sospetto, nella convinzione che davvero – occorrendo pensare in modo nuovo al futuro come ci siamo abituati a sentire dire – questo valga anche il management.
La lettura è assolutamente gradevole; scorre rapida e convincente nelle sue argomentazioni, provocatorie ed esaurienti al tempo stesso. Lo stile è quello del migliore prescrittivismo suadente “non potete trascinarvi sulla prossima curva a S.. Dovete andare al di là dei vostri preconcetti “ (pag. 16), in cui non mancano le domande retoriche “Stiamo cambiando con la stessa rapidità con cui muta il mondo intorno a noi? “(pag. 45) che aiutano il lettore a seguire il ragionamento proposto, sviscerato e discusso, ed a convincersi della logica ragionevolezza delle argomentazioni.
Il filo conduttore è ben sintetizzato nella prefazione. La questione fondamentale della quale l’autore ragiona viene esplicitata nella seconda pagina - “Il management è superato.. ha sostanzialmente cessato di evolversi, il che non va assolutamente bene. Perché? Perché il management – la capacità di mettere in campo delle risorse, di definire dei piani, di programmare il lavoro e di promuovere lo sforzo – è fondamentale per la realizzazione dei fini umani. Quando è meno efficace di come potrebbe essere, o di come dovrebbe essere, paghiamo tutti quanti un prezzo” – così come con uguale chiarezza viene segnalato l’obiettivo del libro “Anziché cercare di “vendervi” il mio punto di vista sul futuro, voglio aiutarvi a costruire il vostro… Il mio obiettivo è fornirvi gli strumenti concettuali che vi consentiranno di costruire la vostra agenda per l’innovazione manageriale…Alla fine la visione la dovete sviluppare voi”. È passata l’epoca della one best way, in cui qualcuno – che aveva trovato la soluzione buona – la proponeva a tutti. E scatenando ricordi di antecedenti famosi, Hamel chiude con un evocativo “Io ho un sogno.. Sogno organizzazioni in grado di rinnovarsi spontaneamente …Sogno imprese in cui la corrente elettrica dell’innovazione pervade tutte le attività .. sogno aziende che meritino effettivamente la passione e la creatività delle persone che ci lavorano..” Chi di noi non si riconosce descritto da una tale speranza? E chi di noi non gradisce essere accompagnato, passo passo, a trovare la personale risposta ai propri quesiti?
Il percorso proposto appare quindi assai semplice quanto stimolante e viene sviluppato attraverso una struttura del volume agile: quattro parti, due in cui domina il tema dell’innovazione manageriale, altre due in cui emerge la parola futuro.
Che il management sia finito è il dubbio insinuato all’inizio del primo capitolo della prima parte e poi via via consolidato mano a mano che il ragionamento si dipana, anche se il management di cui si decreta la fine è quello fermo alla metà del secolo scorso, quello che antepone il perseguimento dell’efficienza a tutti gli altri obiettivi (peraltro come Hamel ricorda, il management moderno è stato inventato proprio per risolvere il problema dell’inefficienza). Ciò che occorre è l’innovazione manageriale, che il nostro definisce come “tutto ciò che altera sostanzialmente il modo in cui si esercita il lavoro del management o modifica significativamente le forme organizzative tradizionali e così facendo promuove il perseguimento degli obiettivi aziendali” (pag.19). L’innovazione manageriale costituisce, quindi, la vera sfida: ad essa Hamel dedica la seconda parte. Ricordandoci che è da essa che derivano i vantaggi duraturi nelle posizioni competitive delle aziende che li realizzano, il nostro si addentra nella ricostruzione di alcune storie - tre, quella di Whole Foods Market, quella di W.L. Gore e quella di Google – note, molto note (si tratta di aziende di indiscusso successo); di ciascuna evidenziando le specificità e da ciascuna facendo emergere “le lezioni fondamentali”, quelle indicazioni che hanno fatto la differenza e da cui, nelle parti successive, si trarranno spunti per accompagnare il lettore (uno di quelli “che si sentono strangolati dalla burocrazia… si chiedono perché la vita aziendale debba essere cosi deprimente… sanno che il management così come viene praticato è di ostacolo al successo e vogliono fare qualcosa al riguardo” (pag. 128) verso la costruzione del futuro del management. Tre sono le lezioni fondamentali: principi e valore realmente agiti, indipendenze dalla “gabbie cognitive del management” e un buon bilanciamento tra trade-off apparentemente inconciliabili. Difficile (forse anche per la notorietà delle imprese presentate) trovare novità nelle pratiche di management esperite: verrebbe da aggiungere difficile, forse soprattutto, per il lettore italiano avvezzo al nostrano tessuto imprenditoriale, che questi insegnamenti pratica da tempo più per istinto che per apprendimento (basti al riguardo riprendersi la buona letteratura sulle piccole e medie imprese, quella alla Paolo Preti, per intenderci)
Dopo l’innovazione, il futuro del management, immaginato (parte terza del volume) e costruito (parte quarta). Quando si tratta di rappresentare ed ideare, la via tracciata è ardua, occorre liberarsi dalle catene che la tradizione del management pone come eredità e dalle cui ortodossie pare così difficile liberarsi, tanto sono intrisi di assunti per lo più condivisi i nostri comportamenti. Non mancano, all’uopo, i suggerimenti operativi “…radunate una decina o ventina di colleghi…elencare 10 idee consolidate sul tema .. invitate a chiedere in continuazione perché..” (pag. 142) volti ad accompagnare il lettore nell’avanzamento del percorso. Buon senso? Pratica sperimentata? Certo si fa fatica a considerare molto innovative, queste indicazioni; sicuramente ben presentate e ancor meglio argomentate, ma troppo evocative di pratiche manageriali neppure troppo moderne (i famosi 5 perché di Ohno non sono esattamente l’ultima novità in fatto di impostazione, ma non si riesce a non pensarci quando la domanda fatidica viene lanciata come lo snodo di passaggio per avanzare nella ricerca nel nuovo management) per convincere della loro innovatività (perché di questo si tratta, non della loro utilità indubbia), ma di quanto essi indichino la via per alterare sostanzialmente il modo in cui si esercita il lavoro del management, per rammentarci con precisione la definizione di Hamel.
È chiaro che il nuovo management deve fondarsi su nuovi principi: su questa missione si concentra il capitolo successivo. Alla scoperta del genoma del management, Hamel contrappone l’orientamento al controllo del XX secolo all’orientamento all’adattabilità del XXI e ne identifica i caratteri salienti documentando cinque principi, arditamente qualificati come la rappresentazione del paradigma dell’adattabilità: la vita (creare la varietà), i mercati (allocare flessibilmente le risorse), le democrazie (promuovere l’attivismo), la fede (trovare coraggio nel significato), le grandi città (accrescere le probabilità del colpo di fortuna). Su ciascuno l’autore si attarda a descrivere, con suggerimenti e spunti, concrete indicazioni operative che consentano di mettere in atto i principi nelle proprie situazioni e di cercare anche all’esterno dell’azienda. Il punto di arrivo ha del sorprendente. Hamel ci informa che, in fondo, ciò che del management non va, sono i manager e le strutture gerarchiche: “Andate alla ricerca di soluzioni che non prevedano manager e le strutture gerarchiche. A quel punto saprete di aver trovato la nuova frontiera, da cui potrete gettare uno sguardo sul futuro” (pag. 231).
Il futuro del management risiede proprio in questo, nello scardinamento della gerarchia e per spiegarcene la ragionevolezza l’autore ci ricorda che internet non è stato creato né è gestito da una gerarchia. Tutta qui la novità? ”Il futuro del management deve ancora essere inventato”, ci svela il nostro avviandosi verso la fine. Come in un romanzo giallo in cui si attende con ansia la scoperta dell’assassino, la conclusione sorprende l’attento lettore che lungo tutta la lettura ha congetturato su chi fosse il colpevole e scopre che non c’è. O meglio, c’è ed è proprio il maggiordomo… è la rete. E qui Hamel inserisce uno spunto - “Come chi visita per la prima volta l’Italia ha difficoltà a credere che un sistema così caotico possa funzionare davvero” (pag. 276) - apparentemente incidentale, ma illuminante per quanti in Italia vivono. Come l’efficacia di internet risiede nella sua capacità di facilitare il coordinamento senza produrre “gli effetti “rimbecillenti” della gerarchia” (ibidem), così l’italico sistema facilita un management senza management. Certo, chi un po’ conosce il sistema delle imprese sa quanto questa semplificazione sia forzata, ma pur sinteticamente espressiva del mondo imprenditoriale. In fondo, è sempre stata questa la diatriba che hai visto protagonisti gli studiosi del modello italiano della piccola e media impresa: tra chi, avendo il mente il modello del Management con la maiuscola ,ne misurava la distanza da una realtà di imprese poco avvezze a fare i conti questo, e chi, guardando a quelle imprese, pensava che il management è fatto, costruito ogni giorno dentro le imprese che inventano, producono, “si arrabattano” nelle mille difficoltà molto più che nella faticosa applicazione di precetti polverosi. Che il futuro del management richieda più fiducia nella nostra storia? Nella nostra realtà?
Arrivati al termine del libro – con la mission del management 2.0 da costruire - i dubbi e le perplessità su questa lettura (per molti versi interessante e stimolante, ricca di esempi e di riferimenti) sono molti. Certo, ci sono passaggi affascinanti perché esperienzialmente veri (“In quanto esser umani non possiamo farne a meno: dobbiamo creare….Vassalli e coscritti possono lavorare sodo, ma non lavorano volentieri..), ma bastano a giustificare l’enfasi innovativa che emerge pagina dopo pagina? Cosa può generare il management del futuro? Bastano le indicazioni operative che l’autore non fa mancare a far scattare il nuovo?
Resta, però, la veridicità di un giudizio che rischia di passare quasi inosservato e dato sin troppo per scontato “l’unico modo per costruire un’azienda in grado di affrontare il futuro è crearne una che sia in linea con le esigenze degli esseri umani” (pag. 279). E solo questo vale comunque la lettura.
Recensioni e Riflessioni
- Davide Calandra
- Martin Dege
- Irene Strasser