Quale impresa per Industria 4.0

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Industria 4.0 ripropone la tecnologia come fondamentale forza di cambiamento: i sistemi produttivi, la fabbrica ed il lavoro sono investiti dall’impatto esercitato sulla manifattura dalle tecnologie digitali, ma è l’intera società ad entrare nell’epoca dell’interconnessione. Le ricadute dei processi di digitalizzazione sulle imprese, sull’economia e sulla società sembrano destinate a trasformare processi, relazioni e gerarchie, a ridefinire saperi e culture, modelli di produzione e consumo, distribuzione del potere e della ricchezza.

In Italia il Piano Calenda restituisce cittadinanza al termine “politica industriale”, per lunghi anni condannato all’ostracismo in quanto considerato sinonimo di dirigismo ed assistenzialismo ed ora invocato a viva voce dalle stesse forze imprenditoriali. Il Piano introduce input innovativi in un sistema non privo di eccellenze ma provato da un lungo periodo di caduta degli investimenti (tra inizio e fine crisi l’Italia ha perso il 19,5% del suo potenziale industriale di fronte ad un -5,5% dell’Europa ed un +6,5 % della Germania) e con livelli medi di produttività pesantemente depressi, e punta a riposizionare il Paese nella corsa alla Quarta Rivoluzione Industriale.

 

Dal punto di vista dell’aziendalista e delle implicazioni di Industria 4.0 sulla natura e sulle modalità di funzionamento delle imprese l’aspetto più evidente riguarda gli effetti sui processi decisionali, determinati dalla quantità dei dati generati dalle tecnologie digitali (Big Data) e dalla capacità di analisi ed elaborazione resa possibile dagli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale. L’esito di tutto ciò è non solo di accelerare i processi decisionali e rendere le decisioni più appropriate, ma anche di trasformare l’informazione in conoscenza (dei processi, dei sistemi, dei mercati) e di innescare una molteplicità di percorsi evolutivi destinati a riconfigurare complessivamente il paradigma industriale.

In primo luogo sono investite le relazioni delle imprese col mercato, sempre più focalizzate sui bisogni degli utilizzatori e sulla generazione di valori d’uso.

  • La digitalizzazione sembra spingere verso una ibridazione delle tradizionali strategie competitive (di costo, di differenziazione, di nicchia) codificate da Michael Porter. Accanto agli impatti sulla produttività ed al miglior uso delle risorse vengono enfatizzati i vantaggi competitivi legati all’efficacia: flessibilità e rapidità di risposta al mercato; passaggio rapido dal prototipo al prodotto vendibile; personalizzazione e qualità dei prodotti; prodotti con funzionalità più mirate e maggiore valore d’uso.
  • Le catene del valore tendono ad essere sempre più interconnesse, integrate e proiettate sul mercato. Il rapporto tra tecnologia e valore si crea lungo catene che partono dalla ricerca e dallo sviluppo di applicazioni, proseguono con la produzione arricchita dalle nuove tecnologie e portano al mercato risposte produttive più appropriate: chi produce utilizzando tecnologia offre agli utilizzatori finali risposte a maggior valore d’uso ed i produttori di tecnologia con le loro soluzioni devono rendere possibili tali risposte.
  • Cambiano i modelli di business. Cosa vende l’impresa? Un prodotto, un’esperienza personalizzata di consumo, un’emozione, un servizio?

Ai tradizionali business models che prevedono di generare ricavi e redditi dalla vendita di prodotti se ne sostituiscono altri dai quali dipenderà una quota crescente del flusso totale di ricavi: modelli pay per use in cui il cliente paga per l’uso di un bene che viene gestito dal provider; modelli basati sulla gestione di piattaforme in cui il provider offre uno spazio virtuale di incontro ad attori che condividono una esigenza di interconnessione; modelli data driven in cui big data, relativi per esempio a comportamenti di consumo ed analizzati attraverso appositi algoritmi, diventano prodotti vendibili. (Si vedano i resoconti delle presentazioni svolte su questo tema alla “Biennale Innovazione” organizzata dall’Università Ca’ Foscari, Venezia, 23-25 giugno 2017)

 

In secondo luogo viene investito il profilo delle competenze, sempre più orientate alla condivisione di dati, all’apertura al dialogo con mondi e saperi diversi, alla focalizzazione sugli utilizzatori finali.

  • Assumono un rilevo critico le dynamic capabilities, il cui ruolo è quello di pilotare l’evoluzione del sistema aziendale nel mondo delle tecnologie digitali acquisendo, combinando e sviluppando le risorse necessarie per utilizzarle e valorizzarle.

L’importanza di tale ruolo è evidente nelle fasi di introduzione di tecnologie di cui spesso ancora si ignorano le potenzialità, le condizioni di buon utilizzo, le implicazioni sulla configurazione del business model, ma è destinata a non venire meno sia perché l’incorporazione delle nuove tecnologie nel sistema aziendale si presenta come un processo lento e graduale, da gestire su tempi lunghi, sia perché il loro carattere evolutivo è destinato a riproporre con continuità tali esigenze di guida del cambiamento.

  • Le competenze operative sono destinate a perdere profili di specializzazione e a riconfigurarsi secondo logiche di ibridazione e di interazione. Ricercatori e sviluppatori devono acquisire conoscenze e sensibilità focalizzate non solo sulla dimensione tecnica delle applicazioni ma anche sui prodotti che ne deriveranno, sui loro utilizzi, sui bisogni degli utilizzatori che se ne potranno avvantaggiare.

I tecnici non devono solo presidiare specifici processi ma collaborare all’innovazione fornendo input utili per l’ideazione, la realizzazione, l’impiego utile di nuove applicazioni.

  • Anche i rapporti dell’uomo con le smart machine sono investiti da queste logiche: il modello non è quello della macchina che sostituisce l’uomo o dell’uomo che utilizza la macchina ma quello del dialogo uomo-macchina capace di restituire ai comportamenti informazioni e valore. Come dice Tom Davemport in una intervista a ”Il Sole 24 Ore” (Nova n.582, 15 marzo 2017) si tratta di imparare a collaborare con le macchine congegnandole e utilizzandole come “collaboratori digitali”, capaci di supportare compiti non strutturati, con contenuti di progettualità e di creatività.

 

Infine i sistemi aziendali tendono a riconfigurarsi come piattaforme di integrazione.

  • L’analisi e l’uso dei dati come strumento per creare valore implica l’interconnessione di processi che partono dal rapporto uomo-macchina, inglobano i rapporti con fornitori e clienti, portano a ridisegnare le filiere. Si personalizzano le risposte agli utilizzatori generando maggiori valori d’uso e si consegue la capacità di operare con processi economicamente più sostenibili.
  • Il sistema aziendale deve aprirsi secondo logiche di open innovation e sviluppare network attraverso i quali accedere a informazioni, risorse, professionalità, competenze, risultati di ricerca esterni da valorizzare nel proprio business model. Sull’esterno va aumentato il grado di apertura e di integrazione e sull’interno vanno abbattute le compartimentalizzazioni tra funzioni e livelli gerarchici, in modo da creare ambienti collaborativi e promuovere la valorizzazione delle interdipendenze.
  • Tutto ciò mette in discussione i confini dei sistemi aziendali; il discrimine tra interno ed esterno; il concetto dimensione e la declinazione delle economie legate alla dimensione; le gerarchie, i ruoli ed i gradi di libertà delle imprese nei sistemi produttivi e dei sistemi produttivi. Cambiano gli stakeholder e le relazioni con gli stakeholder.

 

Non tutti questi cambiamenti rappresentano novità assolute; in alcuni casi si tratta della accelerazione di tendenze evolutive già in atto. E’ stato osservato che la digitalizzazione non mette in gioco forze economiche nuove ma ridefinisce il peso relativo e la rilevanza di forze ben note: diminuisce il peso delle economie di scala, la produttività beneficia di decisioni migliori basate su informazioni più ricche e più rapidamente disponibili, aumenta la produttività del lavoro e del capitale, l’eliminazione di asimmetrie informative abilita nuovi business model (così si esprime Luca Beltrametti in Industria 4.0 risponde a (vecchie)logiche economiche, sulla newsletter “Industria Italiana”). Non c’è dubbio tuttavia che l’intensità e la pervasività dei processi di trasformazione comportino una decisa discontinuità rispetto al modo tradizionale di produrre e di fare impresa, delineando l’emergere di un nuovo paradigma industriale.

 

C’è poi il tema delle ricadute delle tecnologie digitali su occupazione e lavoro, apprezzabili tanto per gli impatti sul sistema economico in generale quanto sulle imprese in particolare. Per quanto riguarda gli impatti sul sistema economico sono state proposte valutazioni tanto sull’entità dei posti di lavoro a rischio, destinati ad essere sostituiti dalle smart machine (McKinsey recentemente ha valutato in 1,2 miliardi a livello mondiale i posti di lavoro sostituibili) quanto sui nuovi posti di lavoro che potranno essere generati dalla richiesta di nuove competenze e che dovranno essere riqualificati (da 500.000 a 700.000 sono i nuovi posti di lavoro che la Commissione Europea prevede si creeranno in Europa entro il 2020); tanto sulla attuale (scarsa) “qualità informatica” della forza lavoro quanto sulle “posizioni digitali” che già oggi sono scoperte per carenza delle professionalità necessarie; tanto sulla natura dei posti a rischio (dove i compiti sono più ripetitivi, nelle aree della produzione e della amministrazione, nel settore del credito) quanto sulle nuove competenze che saranno necessarie (big data analyst, sviluppatori di application, esperti di cybersecurity, ecc.).

 

Ci troviamo quindi di fronte ad un quadro a luci e ombre, ancora poco decifrabile, con previsioni che andrebbero oltre a tutto valutate con riferimento alle caratteristiche, in termini di livello tecnologico e di politiche industriali, dei diversi sistemi produttivi investiti dal cambiamento ed alla dinamica temporale (di breve, medio, lungo periodo) di incorporazione nelle imprese dei processi di digitalizzazione.

E’ stata inoltre recentemente sottolineata l’esigenza di sfatare due messaggi ritenuti fuorvianti: che la sfida di Industria 4.0 comporti da subito “salti” tecnologici radicali ed investimenti molto forti e che una volta compiuto il “salto” l’ingresso nel nuovo mondo della digitalizzazione sia automatico (si veda quanto si dice nella “Introduzione” del libro La fabbrica connessa di Beltrametti, Guarnacci, Intini e La Forgia, Guerini, 2017). Industria 4.0 andrebbe invece intesa come un obiettivo da perseguire nel lungo termine, attraverso percorsi che non si risolvono nella semplice introduzione delle tecnologie ma che richiedono una azione graduale di snellimento dei processi, di eliminazione di sprechi e di attività non a Valore Aggiunto, di sincronizzazione dei processi con i mercati secondo logiche di Activity Based Management: in altri termini il nuovo paradigma industriale si configurerebbe come esito disruptive di un insieme di percorsi di tipo invece incrementale.

 

Tutto questo lascia intendere che l’impatto di Industria 4.0 sulle imprese e sul lavoro non è da temere ma da gestire: il saldo tra i posti di lavoro che saranno distrutti e quelli che saranno creati, il quadro dei vincenti e dei perdenti non è determinato a priori ma dipende dal gioco, sistema produttivo per sistema produttivo, business per business, impresa per impresa, di una pluralità di fattori.

Conta l’interazione delle nuove tecnologie con una pluralità di fattori in grado di abilitare o ostacolare il cambiamento, di aprire o chiudere spazi ed opportunità: le basi scientifiche e tecnologiche incorporate nei sistemi territoriali, l’operare di meccanismi di trasferimento tecnologico e di diffusione delle conoscenze, la cultura ed i valori condivisi, le politiche economiche ed industriali.

Conteranno gli interventi sui processi formativi: diffusione di una cultura informatica di base, percorsi di specializzazione sui saperi scientifici, tecnologici e matematici, alternanza scuola-lavoro, tirocini in ambiti Industria 4.0, differenziazione e focalizzazione dell’offerta formativa a livello universitario.

E conteranno i comportamenti delle imprese, la loro volontà di non investire nella digitalizzazione secondo logiche di corto respiro solo per sostituire uomini con macchine e per approfittare di eventuali incentivi, la loro capacità di cogliere i potenziali di creazione di valore legati alle nuove tecnologie per attivare nuovi business model o per rivisitare business model vecchi.

 

E’ quindi inevitabile chiedersi come il sistema produttivo italiano si trovi posizionato di fronte a questa sfida.

L’Italia è la seconda manifattura in Europa e la settima a livello mondiale, con punte di eccellenza confermate dalle performance sul piano dell’innovazione e dell’internazionalizzazione, negli anni della crisi ha però subito perdite pesanti e non ancora recuperate in termini di livelli produttivi, dispone di un parco macchine particolarmente datato e soffre di un ormai storico deficit di produttività. Si osserva che il parco macchine del sistema industriale italiano, uscendo da 15 anni di investimenti decrescenti, è largamente obsoleto, gli investimenti sono spesso allocati su imprese poco performanti, c’è carenza di competenze scientifiche, tecnologiche matematiche e la formazione professionale è poco apprezzata, i livelli di digitalizzazione e di interconnessione delle imprese sono modesti (così Marco Calabrò, MISE, nella presentazione “Piano nazionale Industria 4.0. Investimenti, competenze, produttività e innovazione”).

Secondo una segmentazione spesso citata il sistema delle imprese sarebbe formato da un 20% di unità performanti, un altro 20% sarebbe formato da unità inesorabilmente perdenti ed il 60% da unità “in mezzo al guado” che andrebbero aiutate a rinnovarsi e riqualificarsi. A fronte di una buona consapevolezza dell’impatto e delle opportunità offerte dalle tecnologie digitali sono poche le imprese che hanno introdotto le nuove tecnologie e che si sentono pronte alla sfida. (Molte fonti si esprimono in questo senso; si veda per esempio Paolo Massardi nella presentazione “Industria 4.0, la nuova frontiera della competitività industriale in Italia”, Parma, 25 maggio 2016).

 

In questo quadro il Piano Calenda, al netto dei problemi relativi all’adeguatezza delle risorse finanziarie messe in gioco e dei tempi di attuazione delle sue diverse direttrici, sembrerebbe avere tutte le carte in regola per risolversi in un caso di politica industriale di successo, capace grazie ai nuovi investimenti in tecnologia da un lato di rilanciare la domanda aggregata e dall’altro di promuovere importanti recuperi di produttività.

Il Piano individua nove tecnologie abilitanti, prevede due direttrici chiave focalizzate sull’incentivazione degli investimenti innovativi (investimenti in beni e tecnologie digitali, in Ricerca e Sviluppo, in finanza di supporto) e sulla diffusione delle competenze (più studenti ITS, più studenti universitari, più dottori di ricerca, più manager specializzati sui temi Industria 4.0; una rete di Competence Center aggregati intorni a sedi universitarie di punta e di Digital Innovation Hub per diffondere informazione e formazione di base) nonché su due direttrici di accompagnamento incentrate invece sulle infrastrutture abilitanti (banda larga e criteri di interoperabilità IoT) e sugli strumenti pubblici di supporto (il Fondo Centrale di Garanzia, i contratti di sviluppo su investimenti 4.0, la contrattazione aziendale decentrata).

Ad oggi, le misure di incentivazione fiscale degli investimenti sembrano davvero funzionare e le iniziative promosse dalle associazioni imprenditoriali per costituire i Digital Innovation Hub si stanno rapidamente diffondendo. Particolarmente interessanti sono il progetto ITS 4.0 del MIUR, legato a vocazioni territoriali di successo ma limitato ad un numero ancora troppo circoscritto di esperienze, e quello relativo alla costituzione dei Competence Center, che deve ancora decollare.

 

Il Piano Calenda tuttavia merita qualche riflessione più attenta, mettendo nel conto da un lato le determinanti e le dinamiche dei processi di cambiamento in atto, legate a forze evolutive quali le conoscenze e la tecnologia, e dall’altro il contesto in cui le imprese di trovano ad operare nel nostro Paese e la sua capacità di abilitarne e di supportarne la risposta alle nuove sfide. A favore del Piano sta il fatto di non essere giocato solo sull’incentivazione degli investimenti, ma anche sulla ricerca, sull’informazione e la formazione, sulle competenze. Si coglie in questo la volontà di fare leva su di una pluralità di driver tutti essenziali ed interagenti secondo una apprezzabile logica di sistema. Per contro si fa osservare che stimolare gli investimenti attraverso l’incentivazione fiscale significa privilegiare imprese magari già per conto loro pronte ad investire, rischiando di non avere una adeguata capacità di trascinamento nei confronti di quel 60% di imprese che lottano per “uscire dal guado”.

 

Un diverso ordine di considerazioni riguarda invece la logica di politica industriale su cui si basa il Piano, che privilegia dichiaratamente azioni orizzontali piuttosto che verticali o settoriali, agisce sui fattori abilitanti la competitività delle imprese, passa dalla logica dei bandi a quella degli strumenti automatici, con la chiara volontà di non discriminare tra gli attori e di rimanere neutrale rispetto alle forze in gioco lasciando che sia il mercato a determinare gli esiti dei processi evolutivi. Ci si può chiedere però se, al netto delle considerazioni relative ai limiti che le condizioni della finanza pubblica pongono alle risorse pubbliche disponibili, quella degli incentivi fiscali e della politica dei fattori sia la sola strada possibile per promuovere gli investimenti in tecnologia e far crescere la qualità dei sistemi aziendali.

In proposito viene ricordato il caso della Germania, che ha mobilitato grandi complessi industriali ed istituzioni di ricerca sulla base di precise ipotesi progettuali intorno alle quali organizzare innovazione ed investimenti, e che si può avvalere di una rete di istituzioni territoriali attive nel campo del trasferimento tecnologico. In Italia il quadro di riferimento è certamente diverso da quello tedesco: sono pochi i grandi gruppi industriali in grado di pilotare processi di trasformazione, i player di successo operano per lo più in nicchie e attorno al made in Italy, il sistema industriale è frammentato e basato sulla presenza prevalente di PMI. Tuttavia non sembrano mancare risorse scientifiche ed industriali aggregabili intorno a progetti di ampio respiro: basti pensare a gruppi industriali come ENI, ENEL, Leonardo, Fincantieri a protagonisti della finanza come Cassa Depositi e Prestiti, a soggetti della ricerca come Università (dove non mancano le eccellenze), CNR, IIT, ed alla possibilità di farne i pivot di progetti di sviluppo coerenti con le loro vocazioni e capaci di mobilitare filiere e territori.

Da questo punto di vista tuttavia il tema che si pone è quello della logica di politica industriale, che può incentrarsi sui fattori produttivi e sul libero gioco delle imprese ma che potrebbe anche essere focalizzarsi sulla dotazione di risorse del sistema (sviluppo e diffusione delle conoscenze e delle tecnologie) e sul rafforzamento degli attori, delle loro competenze distintive, dei loro vantaggi competitivi (attraverso i processi di trasferimento tecnologico), valorizzando i ruoli complementari che il settore pubblico ed il settore privato possono giocare nei processi di produzione, diffusione ed utilizzo della conoscenza (si veda in proposito anche Fabrizio Onida, Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2017).

Riprendendo concetti più volte sottolineati da Mariana Mazzuccato, ci sono processi di formazione della base scientifica e del capitale umano, ci sono investimenti ad elevato rischio e a rendimento differito dove è il settore pubblico a potere e dovere giocare un ruolo proattivo; ci sono processi di valutazione delle opportunità e dei rischi e di individuazione delle più promettenti linee di sviluppo che possono essere utilmente gestiti attraverso la cooperazione tra attori pubblici ed attori privati; e ci possono essere processi di trasferimento tecnologico di cui le imprese possono avvantaggiarsi forse più che da provvedimenti di incentivazione fiscale.

 

Il Piano Calenda non è forse “tanto”, a causa dei limiti dell’impostazione concettuale e delle risorse finanziarie spendibili, ma non è neppure “poco”, se si pensa al vuoto di politica industriale in cui si inserisce. C’è da augurarsi che ce ne sia “abbastanza” come punto di partenza per garantire al Sistema Paese un buon posizionamento tra i vincenti ed i perdenti della corsa alla Quarta Rivoluzione Industriale.

 

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Il numero 1/2017 di Impresa Progetto si presenta con alcuni elementi di novità nell’articolazione dei contenuti: a fronte di un minore spazio dedicato ai “saggi” referati, prende corpo la sezione dedicata ai “contributi” che spaziano su oggetti di vario genere, ma sempre di significativo interesse per la comunità degli aziendalisti: risultati di attività di ricerca, confronti su temi di attualità rilevanti per la vita delle imprese, documentazione di esperienze e di strumenti applicativi. Prosegue anche dal punto di vista della presentazione dei contenuti, con risultati che ci sembrano particolarmente efficaci, il ricorso alla modalità “in video”.

 

La parte dedicata ai saggi referati ospita due contributi. Il primo, di Barbara Del Bosco, ha come oggetto la comunicazione in tema di Corporate Social Responsibility nei siti aziendali di un campione di imprese quotate in Borsa. Dal lavoro emerge come nel tempo aumenti l’uso di Internet e migliorino i contenuti della comunicazione. Il quadro rimane tuttavia eterogeneo e nella comunicazione on line si colgono traiettorie evolutive differenziate.

Il secondo contributo, di Davide Coggiola, Chiara Morelli e Lucrezia Songini, affronta il tema della relazione tra gestione delle risorse umane e performance nelle PMI a gestione famigliare con un’analisi svolta su di un campione di 52 PMI piemontesi. Pratiche e sistemi formali di gestione delle risorse umane possono essere utili in contesti aziendali dove abitualmente prevale l’informalità dei processi? Gli autori spiegano a quali condizioni la risposta può essere positiva.

 

La sezione dedicata ai contributi apre con un “confronto a due” sulla portata e le implicazioni sulla obbligatorietà della comunicazione delle non financial information da parte delle imprese di maggiori dimensione, introdotta in Italia dal DLgs 254/2016. Hanno partecipato al confronto due autorevoli esperti, con un background professionale e scientifico diverso ma entrambi attivamente impegnati su questi temi: Andrea Gasperini, un analista finanziario impegnato nell’AIAF, e Stefano Zambon, Professore Ordinario di Economia Aziendale dell’Università di Ferrara impegnato in network tematici nazionali ed internazionali. Le risposte che hanno fornito alle domande di Impresa Progetto spaziano su di un ampio ventaglio di argomenti che riguardano la portata e le implicazioni della obbligatorietà di un tipo di informazioni fino ad oggi oggetto di comunicazione volontaria, il grado di preparazione delle imprese italiane di fronte a questa scadenza, l’esigenza che esse vi vedano una sollecitazione ad attrezzarsi per giocare nel contesto come sistemi aperti, interattivi ed evolutivi; non mancano interessanti aggiornamenti circa la diffusione volontaria nelle nostre imprese di informazioni ESG.

Elena Bellio e Luca Buccoliero presentano i risultati di un’analisi che hanno svolto sul comportamento d’acquisto dei clienti silver e sulle sollecitazioni che ne discendono per le politiche di marketing della Grande Distribuzione Organizzata. L’evoluzione del profilo demografico della popolazione, via via spostato verso le classi di età più anziane, rende il tema di particolare interesse.

La Società Italiana di Scienze del Turismo (SISTUR), costituita nel 2009, ha da sempre dedicato attenzione alla formazione in ambito turistico. In particolare, a livello accademico, realizza annualmente un incontro fra i Coordinatori e i Presidenti dei Corsi di laurea e Master su tematiche turistiche in cui viene presentato il monitoraggio dei Corsi dei Corsi di laurea, Corsi di laurea magistrale e Master universitari. Si è così generato un patrimonio di conoscenze che evidenzia la vivacità innovativa che il comparto formativo universitario mostra di saper cogliere e interpretare. Impresa Progetto ha chiesto a Laura Grassini di rendere disponibili le slides della presentazione da lei tenuta a Roma, il 17 marzo 2017, in occasione dell’ultimo incontro tra i Presidenti dei corsi di laurea, realizzato durante la manifestazione Fare Turismo 2017. Pubblichiamo questa presentazione, arricchita da un contributo esplicativo e da alcune considerazioni di sintesi dell’Autrice.

La sezione chiude con una presentazione di Roberto Peretta. E’ sempre più importante per tutte le aziende che gestiscono siti web “farsi leggere” facilmente sui telefoni cellulari e sui tablet: l’imperativo è essere è mobile-friendly. Roberto Peretta, professional e docente delle Università di Bergamo e di Trento, ha controllato la mobile-fiendliness delle aziende-musei di arte contemporanea in Italia. Le slides della presentazione sono commentate “in audio” dall’Autore.

Sempre “in video” è presentata l’intervista di Enrico Cori a Paolo Esposito, Titolare dell'Ufficio Speciale per la Ricostruzione dei Comuni del Cratere (Fossa, AQ). L'obiettivo è quello di analizzare l’esperienza dell'agenzia governativa istituita all'Aquila a seguito del sisma del 2009 dal punto di vista dell'approccio manageriale e organizzativo e delle implicazioni in termini di performance. Si tratta di un caso di innovazione organizzativa nell’ambito della PA di particolare interesse, di cui sono illustrati i compiti, l’assetto organizzativo, i punti di forza ed i risultati anche in rapporto ad una possibile replicabilità. Un focus specifico è dedicato all’evoluzione del profilo professionale del Titolare dell’Ufficio, formatosi nell’ambito della gestione delle Risorse Umane ed approdato a responsabilità di Direzione Generale.

 

Nell’area delle recensioni ritorna il tema del turismo, con due “letture incrociate” aventi per oggetto i volumi di Giovanni Fraquelli su Imprenditorialità e management nell’impresa turistica e di Clara Benevolo e Mario Grasso su Destinazioni e imprese turistiche: due opere di sistematizzazione che prendono in esame il settore alla luce dei più aggiornati modelli concettuali e strumenti analitici. Le chiavi di lettura sono da un lato quella dell’economia industriale e dall’altro quella della gestione e del marketing, ma i risultati raggiunti sono ampiamente complementari e per questo motivo ci è sembrato interessante chiedere a Clara Benevolo di leggere e commentare il libro di Fraquelli e viceversa a Giovanni Fraquelli di leggere e commentare il libro di Benevolo e Grasso, ognuno in base alle proprie specifiche sensibilità scientifiche. Nell’impostazione di Fraquelli, osserva Benevolo, l’impresa (anche quella turistica) è assunta come insieme di rapporti contrattuali, come sistema organizzato (con particolare attenzione al coordinamento delle risorse e dell’informazione) e come “isola di coordinamento delle transazioni”: una base concettuale dentro alla quale i diversi approfondimenti tematici e specialistici finiscono per problematizzare e arricchire le categorie concettuali dell’economia industriale. Benevolo e Grasso, osserva Fraquelli, esaminano il comportamento dei turisti e degli operatori alla luce del nuovo scenario competitivo in cui si richiedono competenza, professionalità e capacità degli operatori di sfruttare sinergie e complementarietà, fornendo contributi originali rispetto ad una pluralità di problemi strategici, di soluzioni gestionali, di scelte di convenienza. Gli Autori appoggiano i loro risultati teorici su di una ampia osservazione empirica dei fenomeni, ed i loro contributi risultano sicuramente utili non solo per gli studenti di Corsi di laurea in ambito turistico che devono sviluppare appropriati processi di apprendimento ma anche per gli operatori che vi possono trovare supporto per le loro scelte e per il loro aggiornamento.

 

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Venerdì 23 giugno si è svolto a Novara, con il patrocinio dell’Università del Piemonte Orientale, il workshop su “L’Università: quali performance, come misurarle, come monitorarle, come rendicontarle”, organizzato nell’ambito del percorso di approfondimento di Impresa Progetto sulla valutazione delle performance dei sistemi organizzati.

Il workshop, aperto dal Magnifico Rettore Cesare Emanuel, ha consentito di fare il punto, attraverso la chiave di lettura delle performance, sulle criticità ma anche su non trascurabili segnali di vitalità che contraddistinguono oggi il sistema universitario. A ciò hanno contribuito sia le presentazioni documentate ed approfondite dei relatori (Daniele Livon, Sandro Momigliano, Emma Varasio, Matteo Turri, Alberto Cassone, Chiara Mio, Fabio Amatucci, Angelo Paletta, mentre Maurizio Cisi non ha potuto partecipare a causa di un problema imprevisto) che il dibattito che ne è seguito, animato da interventi particolarmente puntuali (si ricordano quelli di Chiara Mio, Piero Ricci, Gianfranco Rebora, Alberto Cassone, Giovanni Fraquelli). Nella sessione del mattino, coordinata da Giorgio Donna, è stato messo in luce lo sforzo degli ultimi anni per dare adeguati strumenti di guida ad un sistema complesso, contraddistinto da rilevanti specificità ed oltre tutto privo di un chiaro riconoscimento a livello politico della propria mission; di questi strumenti sono stati sottolineati criticità, difficoltà ed effetti indesiderati. Nella sessione del pomeriggio, coordinata da Lorenzo Caselli, sono state presentate esperienze di sedi che si sono misurate col tema della rilevazione e della comunicazione agli stakeholder degli effetti economici, culturali e sociali della propria attività, dimostrando una precisa consapevolezza del ruolo che le Università possono giocare in termini di responsabilità sociale.

Impresa Progetto darà conto in un prossimo numero dei risultati del workshop pubblicandone e commentandone i materiali.