I dieci anni di Impresa Progetto

Editoriali
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Novembre 2004. E’ on line il primo numero di Impresa Progetto. La rivista nasce per iniziativa del Dipartimento di Tecnica ed Economia delle Aziende della Facoltà di Economia dell’Università di Genova (DITEA) con l’obiettivo di dare vita a uno strumento agile e flessibile di comunicazione e socializzazione a partire innanzi tutto dalle riflessioni condotte all’interno del dipartimento nell’ambito delle molteplici linee di ricerca perseguite. In breve volgere di tempo l’apertura della rivista diventa molto più ampia: docenti e ricercatori di altre sedi universitarie nazionali e internazionali, non solo aziendalisti ma anche economisti, giuristi, sociologi attenti ai problemi delle imprese, non solo accademici ma anche imprenditori, manager, professionals con i quali instaurare rapporti di collaborazione. Nel 2009, in occasione di una prima riorganizzazione della rivista, scompare il riferimento al DITEA e la denominazione viene integrata con l’aggiunta del sottotitolo “Electronic Journal of Management”.

 

Ci sembra di poter affermare che nel corso dei suoi dieci anni di vita la rivista ha acquisito una sua caratterizzazione che la contraddistingue nel panorama dell’aziendalismo italiano. Impresa Progetto vuole essere una rivista generalista, ma non generica, nel senso di un massimo di attenzione alla trasversalità dei problemi. Nella molteplicità degli argomenti affrontati, e in special modo negli editoriali, emerge una linea che intende declinare la realtà multiforme delle imprese nell’ottica del bene comune, del valore, della responsabilità, del mercato e dei suoi limiti. Una linea che non disconosce il ruolo del pubblico e del sociale, che ritiene possibile coniugare produttività ed equità.

 

Quanto sopra richiamato interpella la comunità degli aziendalisti e trova spazio crescente nelle molteplici attività dell’AIDEA e delle società scientifiche di area e di settore, nelle riviste e nei convegni. Nel primo editoriale di Impresa Progetto veniva posto un interrogativo ben preciso: dove stanno andando le nostre discipline , in quale prospettiva si collocano. L’interrogativo è ripreso più volte nel corso del decennio e suscita altresì un interessante dibattito. In particolare ci si chiede se nell’evoluzione delle discipline aziendali prevalgono fattori di convergenza o fattori di divergenza rispetto alle comuni matrici fondative. In altri termini, i settori scientifico disciplinari quanto sono utili e quanto invece condizionano negativamente il dispiegarsi di sinergie e di salutari contaminazioni? La complessità dei problemi non può essere “tagliata a fette” ovvero segmentata per raggruppamenti. Richiede di essere affrontata in quanto tale. Nel contempo emergono nuovi ambiti di studio e di ricerca rispetto ai quali siamo tutti chiamati in qualche modo a rilegittimarci a prescindere anche dalle nostre appartenenze storiche.

 

In definitiva cosa è oggi l’aziendalismo italiano? Quanto conta ancora la memoria e quanto ci sentiamo di “condividere” il futuro? Non si corre forse il rischio di perdere il senso di una comune appartenenza, sostituito dalla ricerca del collegamento più proficuo per la propria posizione? Trattasi, a mio avviso, di interrogativi né retorici né banali. L’aziendalismo italiano sta vivendo una fase di transizione, caratterizzata sia dall’emergere – sovente confuso e contraddittorio – di nuovi punti di riferimento a livello di contenuti, metodologie, strumenti, relazioni sia in particolare da un accelerato ricambio generazionale.

 

La questione del ricambio generazionale merita una sottolineatura specifica. Tre generazioni di studiosi caratterizzano gli ultimi quindici anni. La prima generazione, cui appartiene chi scrive, è quella degli allievi e continuatori dei grandi maestri dell’aziendalismo italiano che hanno improntato la seconda metà del secolo scorso, sia con l’apporto scientifico fondativo sia anche con il contributo dato allo sviluppo economico e sociale del Paese. I componenti di questa prima generazione sono quasi tutti in pensione (pardon emeriti!) o prossimi alla pensione. La seconda generazione di accademici, messa in cattedra dalla prima, è in oggi la struttura portante dei nostri settori scientifico disciplinari e ad essa compete la grande e impegnativa responsabilità delle procedure di abilitazione. Abbiamo infine la terza generazione dei giovani studiosi che si stanno affacciando sulla scena, aperti al mondo che cambia, pronti ad accettare la sfida dell’internazionalizzazione della ricerca e della formazione. Da qui la necessità di farsi conoscere, di scrivere su riviste internazionali, di misurarsi con standard valutativi globalmente accettati e per quanto ci riguarda assunti in sede Anvur.

 

Quanto sopra rappresenta un passaggio sicuramente ineludibile che richiede però di essere approcciato nell’ambito di un disegno strategico condiviso, distinguendo tra questioni di forma e questioni di sostanza, tra le mode e ciò che è destinato a durare. In non pochi casi prevale invece l’accettazione acritica di ciò che accade nel mondo anglosassone ; l’enfasi viene posta in maniera esagerata sul metodo con il rischio di pervenire a conclusioni meramente descrittive e talvolta del tutto banali. Ciò che si scrive deve essere sottoposto a un giudizio di rilevanza. Sono le domande che fanno progredire la conoscenza e in funzione di queste si costruisce il metodo più appropriato.

 

Come aziendalisti siamo chiamati a ripensare noi stessi. Non possiamo prescindere dalle nostre radici, certamente non disprezzabili, non possiamo non guardare al mondo e al futuro. Occorre pertanto saper investire sia a “monte” attraverso un rapporto costruttivo con gli altri saperi stante la multidimensionalità dei nostri oggetti di studio, sia a “valle” attivando una rete di efficaci verifiche empiriche rispetto alle ipotesi di partenza, sia in relazionalità privilegiando la trasversalità e l’apertura verso l’esterno, ampliando gli orizzonti conoscitivi e operativi. Abbiamo bisogno di studiosi, penso ai giovani della terza generazione, il cui obiettivo sia la comprensione non formale dei problemi delle imprese nella loro concretezza e completezza, nella loro proiezione storico evolutiva, nel loro quadro istituzionale, sociale, culturale.

 

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Grandi cambiamenti complessi e contradditori al tempo stesso caratterizzano il decennio 2004 – 2014. Grandi cambiamenti cui si associano – specie in Europa e nel nostro Paese – grandi preoccupazioni. A livello sociale emergono nuovi stili di vita, le relazioni si fanno più fluide, mobili. L’eterogeneità dei valori e delle culture è un dato di fatto. A differenza dal passato la diversità diventa la norma e l’omogeneità l’eccezione. Nell’ambito delle dinamiche economiche e produttive la conoscenza appare sempre più come il fondamentale motore delle trasformazioni. Ma la conoscenza è oggi un bene pubblico o piuttosto un bene privato che si acquisisce pagando un prezzo che non tutti possono permettersi? Il progresso scientifico e tecnologico registra impennate e accelerazioni crescenti. Le ICT, la rete non sono soltanto degli strumenti. Costituiscono un ambiente culturale che determina nuove modalità di pensiero, nuovi territori virtuali e nuove forme di comunicazione. Il concetto di tempo e di spazio viene modificato profondamente nel mentre emerge una nuova ecologia della mente. Gli orizzonti di riferimento si allargano sempre più. A scala globale tutto si tiene; l’interdipendenza diventa una fondamentale chiave interpretativa e anche normativa.

 

L’elenco dei cambiamenti potrebbe ulteriormente continuare, ma non è questa la sede. Ci preme però sottolineare un aspetto. La velocità dei cambiamenti (la scienza è una forza direttamente e immediatamente produttiva) sopravanza la nostra capacità di comprensione, valutazione, assimilazione. Del pari, come osservò qualche tempo fa Ulrich Beck, siamo entrati nell’era della globalizzazione senza avere gli strumenti politici e culturali per governarla. Discendono da ciò grandi contraddizioni e grandi preoccupazioni. Anche qui un rapido elenco.

Nei singoli paesi e a livello globale aumentano le diseguaglianze, la povertà, la precarietà della vita sociale e professionale. All’invecchiamento della popolazione si affiancano masse crescenti di giovani senza certezze. I livelli di protezione sociale e quindi del diritto a una vita degna per tutti si riducono sempre più. La mancanza di una politica dell’accoglienza rende drammatico il fenomeno dell’immigrazione. La crisi ambientale, i cambiamenti climatici rendono urgente l’assunzione di nuovi criteri nelle scelte economiche, produttive, negli stili di vita. Ma da dove cominciare stante la sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni democratiche che appaiono incapaci di far fronte ai problemi sul tappeto? Come ha evidenziato Ignazio Visco (Il Mulino, n.6/2014), le pressioni concorrenziali della globalizzazione e la sfida delle macchine richiedono grandi investimenti, non soltanto finanziari, ma dove trovare le risorse e il consenso?

 

Nel giro di breve tempo (seconda metà del decennio) siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi economico produttiva che si è trasformata in crisi occupazionale. Questa è diventata crisi umana e sociale in grado di incidere pesantemente sui fondamenti stessi della vita civile. Due sottolineature al riguardo. La prima. La dimensione finanziaria non coincide più con la dimensione reale dell’economia anzi la sua tossicità sta avvelenando la base produttiva. La teoria insegna che i mercati finanziari dovrebbero riflettere i fondamentali economici. Non è più così: li determinano! La seconda. Basta la crescita per battere la disoccupazione oppure questa, se e quando si verificherà, sarà jobless a motivo di una dinamica tecnologica che distrugge posti di lavoro? Occorre investire nell’intelligenza e nella qualità della vita per tutti, occorre dialogo sociale, occorre solidarietà. Ma tutto ciò non discende dagli automatismi di mercato né nasce per decreto.

 

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L’economia va “rilegata” alla società. Occorrono un cambio di prospettiva, nuovi paradigmi. Abbiamo cioè bisogno di una economia in grado di assumere una molteplicità di criteri, oltre il Pil a livello macro e il profitto a livello micro. Criteri di salvaguardia, di umanità, di responsabilità, di moderazione, di precauzione, di diversità, di cittadinanza, di sussidiarietà e anche di gratuità. In economia più strade sono possibili; i problemi non hanno una sola soluzione; c’è posto per l’impegno dei diversi soggetti e per la loro progettualità. Per quanto ci riguarda, ciò vale in modo particolare per le imprese, per chi vi opera, e anche per chi le studia, le insegna, le testimonia. Il nome della nostra rivista non è stato scelto a caso! L’impresa esprime un “ proprio dover essere progettuale” che si misura con l’ambiente attraverso la valorizzazione della propria cultura intesa come patrimonio simbolico, esperienza di realizzazioni strategiche, intreccio di valori e di competenze distintive.

 

Parlare di “impresa progetto” significa assumere la complessità dell’impresa ovvero assumere l’impresa quale categoria storica, multidimensionale, multirelazionale, plurale, confrontata con il mutamento.

  • L’impresa non è una categoria astratta o platonica. Richiede l’inserimento in specifiche coordinate temporali e spaziali. Queste non sono neutrali o indifferenti rispetto all’essere e fare impresa.
  • L’impresa è tante cose contemporaneamente. Un flusso di trasformazioni, un agente economico, un organismo, un insieme di culture, una struttura sociopsicologica, un sistema di potere. Nessuna dimensione può essere messa tra parentesi.
  • L’impresa non è una scatola chiusa, non si spiega da sola ma nel rapporto con una molteplicità di soggetti, interessati all’impresa e da questa influenzati. L’ambiente è un mix inestricabile di elementi economici e non economici che si riversano nell’impresa e ne determinano le molteplici e multiformi relazioni competitive, collaborative, politiche, culturali, morali.
  • L’impresa è una coalizione di persone e di gruppi sociali alla ricerca di un orientamento condiviso. L’irriducibile pluralismo si gioca nella combinazione di interessi particolari e di interessi generali, di valori personali e di valori collettivi. Tale pluralismo va reso coerente evitando anarchia da un lato e totalitarismo dall’altro.
  • L’impresa vive nel mutamento, nella transizione. Transizione non vuole però dire necessariamente provvisorietà o congiunturalità. Nelle organizzazioni sociali ed economiche la compresenza di vecchio e di nuovo è ineludibile.

 

Nella compenetrazione di aspetti economici, tecnologici, sociali, culturali, l’impresa gioca a tutto campo la sua cittadinanza, non nell’autoreferenzialità, ma – come dianzi affermato – nella interazione con gli altri attori del contesto. Con altre parole l’impresa produce a un tempo sia beni e servizi per il mercato sia relazioni di convivenza che si manifestano al suo interno e in rapporto all’ambiente. La progettualità e la socialità sono connaturate all’essere e al fare impresa. Sono fondamento della sua responsabilità. E la responsabilità entra a pieno titolo nell’economia dell’azienda fornendo a essa qualità e sostenibilità.

 

L’impresa è pertanto un protagonista etico del nostro tempo. Anche attraverso la parzialità della funzione esercitata (produzione per il mercato) l’impresa si confronta con valori e opzioni più generali sino a diventare un soggetto, capace appunto di creare relazioni di convivenza a partire dalle urgenze etiche che la riflessione teorica e la sensibilità del tempo rendono evidenti. I problemi e le esigenze del contesto interpellano l’impresa. Questa non può sottovalutare l’impatto ( in positivo e in negativo) delle proprie scelte. In particolare deve rendere conto di come spende i propri gradi di libertà, del contributo che fornisce, direttamente e indirettamente, alla costruzione di una “buona società in cui vivere”. Il bene dell’impresa si lega al bene della collettività. Come osserva Porter il rapporto tra business e società può non essere un gioco a somma zero bensì largamente positivo. Le scelte possono essere vantaggiose per entrambe le parti sulla base del principio del “valore condiviso”.

 

Un “continuum” di eticità lega l’impresa con le altre imprese, con i mercati, con la società civile, con il sistema politico istituzionale. Mai come in questo momento avvertiamo l’esigenza di un clima etico diffuso e radicato. Esso non cade dall’alto. Richiede l’impegno convinto dei diversi soggetti e delle organizzazioni in cui operano. Certo non si può chiedere alle imprese cose che a loro non competono; del pari non possono essere snaturate in nome di una presunta socialità, magari a copertura di inadempienze di altri protagonisti. Pur tuttavia gli imprenditori e i manager non possono sfuggire ai doveri morali che hanno nei confronti della comunità. L’impresa eticamente orientata, socialmente responsabile verso l’ambiente e verso i diritti umani, diventa una risorsa preziosa per il bene comune e per il mercato stesso che, in quanto costruzione sociale, viene progressivamente inserito in un sistema di coordinate umanamente e culturalmente più ricche.

 

L’impresa – attraverso la produzione di beni e servizi – concorre ad assicurare il progresso tecnico ed economico. Tutto ciò richiede però finalizzazione. Progresso, come? Progresso, per chi? Progresso, perché? La risposta a siffatti interrogativi passa attraverso lo sviluppo delle responsabilità di tutti coloro che sono coinvolti, a vario titolo, nell’impresa cooperando al suo successo, successo che non può essere separato da una prospettiva di interesse collettivo e di solidarietà che va oltre l’impresa e si apre a tutta la comunità.

 

Efficienza, efficacia, giustizia, partecipazione, democrazia economica non possono più essere separate e in misura crescente si pongono come condizioni per uno sviluppo qualitativamente più ricco, a servizio dell’uomo produttore, consumatore, cittadino. Nella misura in cui, come studiosi, siamo convinti di non poter mettere i valori tra parentesi, ci rendiamo conto che le discipline economiche, aziendali, organizzative professate perdono la loro autosufficienza, diventano discipline aperte, capaci di trascendere i propri limiti, ampliando di conseguenza gli orizzonti conoscitivi e operativi. La prospettiva di una società più “buona” e più “giusta”, di cui l’impresa può essere protagonista a pieno titolo, ci stimola a ravvivare la funzione civile della nostra attività di ricerca, di docenza, di testimonianza attraverso l’attivazione di una circolarità virtuosa tra essenza morale e progresso intellettuale.

 

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Si è concluso il primo decennio di vita della rivista. La storia di Impresa Progetto Electronic Journal of Management continua. Continua con un nuovo Direttore, Piermaria Ferrando, e un Condirettore, Terry Torre, che lascia a Riccardo Spinelli la responsabilità del Comitato di Redazione. Il Comitato di direzione, nella riunione del 9 gennaio, ha accolto unanime la mia proposta in tal senso e nel contempo ha voluto nominarmi Direttore emerito. In tale veste, nei modi e nelle forme più efficaci, continuerà il mio impegno a servizio della rivista. Il futuro delle nostre discipline ci interpella. Esso passa attraverso la costruzione di ponti. Ponti tra le diverse anime dell’aziendalismo italiano; tra i nostri saperi e gli altri saperi; tra l’università e la realtà esterna fatta di imprese, settori, territori, società civile; tra gli aspetti micro e gli aspetti macro dei problemi (penso all’apporto che possiamo dare all’elaborazione di una nuova politica industriale); tra i valori e le competenze finalizzate non soltanto al saper fare ma anche al saper essere (a partire dai nostri studenti); tra la scienza che esige rigorosità di approccio e la cultura che provoca aprendo nuovi orizzonti. Tutti insieme possiamo fare molto!

 

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Il contributo di Roberto Cafferata caratterizza questo numero di Impresa Progetto. La tematica affrontata è originale e suggestiva al tempo stesso. La sopravvivenza dell’impresa è letta nell’ottica del darwinismo contemporaneo di cui vengono tratteggiati gli aspetti essenziali con particolare riferimento al concetto di co-evoluzione. Chiarite le similarità e le dissimilarità tra organismi viventi e organizzazioni sociali, l’Autore evidenzia come la sopravvivenza dell’impresa (fatta di adattamento e capacità competitiva) si gioca nell’incontro tra “conquistata sistematicità” e “positiva evoluzione”.

 

L’articolo di Flaviano Moscarini, Mauro Gatti, Marzia della Corte, Donatella Caserta apre la sezione saggi. L’argomento è di grande attualità e di forte rilevanza sociale: l’impatto della gravidanza e della maternità sulle donne lavoratrici dipendenti. Le risultanze che emergono dall’indagine conoscitiva effettuata pongono in chiara evidenza il rischio di discriminazioni, di limitazioni alle opportunità professionali, di blocco delle possibilità di carriera. Di qui la necessità – stante anche la carenza di servizi pubblici all’infanzia – di politiche aziendali a sostegno della gravidanza e della maternità.

 

Il saggio di Fulvio Fortezza affronta il tema del marketing delle esperienze da un punto di vista manageriale con specifico riferimento a una impresa che ha come core business le esperienze – nella fattispecie i “cofanetti esperienzali” – intese come output a se stante. L’indagine svolta fornisce un interessante contributo alla conoscenza sia delle logiche di produzione delle esperienze considerate come beni intangibili e emozionali sia delle motivazioni di acquisto dei consumatori.

 

Fabrizio Erbetta e Gianpaolo Viglia si misurano con l’evoluzione strutturale dell’industria italiana del cemento attraverso la predisposizione di un modello di simulazione dei costi basato sui dati rilevati in stabilimenti di diverse dimensioni. Dall’indagine emerge l’esistenza sia di rilevanti economie di scala sia di benefici connessi alla produzione congiunta di cemento e clinker.

 

Le esigenze informative degli amministratori e dei dirigenti degli enti locali e l’individuazione degli strumenti appropriati per farvi fronte costituiscono l’oggetto del saggio di Simona Bonetti e Giacomino Maurini con il quale si da conto di una approfondita indagine campionaria le cui risultanze si rivelano di grande utilità.

 

Il ventaglio degli working papers è ampio e articolato. Antonio Gozzi e Roberta Scarsi riflettono sulle tendenze attuali della siderurgia mondiale caratterizzata al presente da un eccesso di capacità produttiva variamente distribuita nelle diverse aree regionali. La tematica degli spin off universitari e del trasferimento tecnologico – cui la rivista è particolarmente attenta – viene sviluppata da Ornella Moro e Alessandra Tanda. Il loro paper fornisce una puntuale disamina degli spin off di ricerca in Italia valutando con opportuni indicatori il tasso di sopravvivenza e le performance economiche e finanziarie delle imprese costituita mediante tale modalità.

 

 Il lavoro di Sara Saggese si propone di studiare l’impatto del voting trust e della struttura piramidale nelle società del Mib 40. In particolare si approfondiscono le correlazioni tra tali meccanismi di controllo e le performance economico finanziarie delle quotate. Le risultanze dell’indagine non sono affatto scontate e contribuiscono a porre sul tappeto questioni rilevanti in tema di qualità della governance societaria, equa tutela degli azionisti di minoranza, allargamento della platea delle società quotate.

 

Luisa De Vita, Michela Mari, Sara Poggesi presentano le prime risultanze di una indagine esplorativa sull’imprenditorialità femminile in Italia. Il nostro Paese detiene il primato in Europa per numero di imprese femminili. Ciò non ostante il fenomeno non è adeguatamente analizzato. Il paper che prende in esame 310 imprese costituite da donne, evidenziandone caratteristiche, motivazioni, problematiche fornisce un utile contributo conoscitivo. Lo studio di Claudia Costantino e Viviana Travaglini, che si colloca nell’ottica del New Public Management, pone l’accento – avvalendosi di una interessante indagine empirica riguardante le province di tre regioni- sull’approccio “bottom-up” nella valutazione del personale con qualifica dirigenziale. Il coinvolgimento di tutti i lavoratori in tale processo può risultare funzionale alla creazione del valore per l’intera comunità.

 

Due interviste arricchiscono questo numero della rivista: Luigi Serra, imprenditore e vice presidente della Luiss; Rosario Giuliano, presidente della cooperativa sociale Lanza del Vasto.